CALCATERRA, Iacopo
Milanese, nacque nel primo quarto del sec. XV e compì presumibilmente studi giuridici. Nel marzo del 1454, inviato da Francesco I Sforza in Provenza presso Renato d'Angiò, ricevette anche una lettera di presentazione per Tommaso Moroni da Rieti, che si trovava già come inviato milanese presso il re di Sicilia. L'illustre letterato riferì al duca di Milano le impressioni ricevute dal nuovo ambasciatore e scrisse: "è doctissimo et elloquente, ha optime manere et è homo da haverne honore et è solicito et affecionato al facto vostro" (Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, Francia, cart. 524). Il re era tornato solo nel gennaio in Francia reduce dalla sua in verità quasi imbelle spedizione in Italia, durante la quale si era assunto l'incarico di dirimere ed appianare le molteplici questioni e ragioni di attrito risalenti a più anni avanti fra il duca di Milano e il marchese del Monferrato e i suoi fratelli. Il sovrano si era impegnato a pubblicare il suo lodo entro il marzo del 1454. Il C. era incaricato nella sua missione di sollecitare questo arbitrato, che perse però ogni importanza con la stipulazione del trattato di Lodi (9 apr. 1454), dal quale i contendenti furono indotti ad arrivare direttamente alla pacificazione.
Circa due mesi dopo la conclusione della pace, il duca di Milano, deciso a difendere tutti i suoi diritti di successione, inviò il C. presso il duca di Savoia. Egli aveva il compito di rivendicare i territori appartenuti precedentemente a Galeazzo Maria Visconti e occupati dal Savoia alla morte di questo. Nell'istruzione segreta gli si raccomandò anche di fare in modo di impedire al duca Ludovico di favorire il Monferrato, di accostarsi a Venezia e di permettere il passaggio alle truppe del duca Giovanni d'Angiò, che aveva accettato di venire in Italia al soldo dei Fiorentini.
Vanno successivo fu inviato oratore a Roma presso Callisto III. Quando Giacomo Piccinino assediato nella rocca di Castiglione della Pescaia dall'esercito papale e da contingenti sforzeschi inviò il 23 luglio allo Sforza un documento in bianco sottoscritto di sua mano, fu il C. che consegnò, ricevuto l'incarico dal duca di Milano, questo segno di resa al pontefice.
Già nell'agosto Alfonso d'Aragona, che aveva sino ad allora favorito il Piccinino, si era avvicinato allo Sforza ed i due capi di stato vollero consolidare questo nuovo atteggiamento con un doppio parentado. Il C. aveva il compito di informare il papa di questi progetti e di ricercarne l'approvazione, che però, benché fosse considerato persona gratissima al papa, non ottenne da lui, se non a malincuore quando ormai le parti erano decise a procedere senza la sua approvazione. Nel maggio del 1456 a Napoli si stipularono gli accordi relativi alla futura sistemazione dei Piccinino e il C. fece di ciò particolareggiati resoconti al duca di Milano. Nel marzo di quell'anno egli aveva ottenuto da Callisto III il conferimento della Rosa d'oro a Francesco I Sforza, che il papa cercava a Francesco I Sforza, che il papa cercava di indurre a porsi a capo della crociata.
In un centro politico così importante quale era Roma, il C. costituì un tramite sensibilissimo fra il duca di Milano e Callisto III, interpretando e riferendo accuratamente a Milano non solo le azioni e gli atteggiamenti del pontefice, ma anche le sue impressioni ed i suoi stati d'animo. Così nell'estate del 1456 il C. fece una particolareggiata relazione prima della profonda inquietudine che travagliava il papa per la questione dei Turchi, e della sua euforia poi (il 24 agosto) all'apprendimento della vittoria di Giovanni Hunyadi e della liberazione di Belgrado. Nello stesso periodo, consapevole del desiderio dello Sforza di ottenere dall'imperatore il conferimento del titolo di duca, non perse l'occasione di captare la benevolenza di Enea Silvio Piccolomini, che insieme a Giovanni Ulesis era stato inviato a Roma da Federico d'Asburgo.
Scrivendo a Cicco Simonetta il 7 luglio 1455 Gentile della Molara diceva a proposito del C.: "È lo patrone del tucto et non se fa più innanze, né più a retro se non quello che vole lui" (L. Fumi, Francesco Sforza….p.560). Era quindi un uomo nel pieno della sua attività, quando (l'ultima sua lettera nota è del 25 ag. 1456) morì annegato nel Tevere, mentre si allontanava da Roma, dove infuriava un'epidemia di peste.
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