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I singoli reati
Il panorama dei recenti arresti della giurisprudenza, su questioni di parte speciale, comprende una decisione delle Sezioni Unite riguardo al delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.). La Corte è intervenuta a proposito di una controversia ormai risalente, in tema di unità o pluralità dei reati commessi dal soggetto che, con una sola azione od omissione, si “oppone” ad una molteplicità di pubblici ufficiali intenti a compiere un atto del proprio ufficio. L’indirizzo prevalente sosteneva la tesi del pluralismo degli illeciti (in rapporto di concorso formale tra loro), con argomenti fondati tanto sulla struttura letterale della fattispecie (basta opporsi a «un pubblico ufficiale»), tanto sulla struttura dell’offesa tipica (l’intralcio recato al libero esplicarsi della funzione pubblica, nei casi in esame pregiudicato, appunto, riguardo ad una pluralità di portatori dell’interesse protetto). Secondo l’indirizzo opposto, avrebbe dovuto guardarsi all’unità dell’atto ostacolato mediante la condotta di resistenza, rispetto alla quale la pluralità degli agenti impegnati sarebbe dato estrinseco e per altro valorizzato, quando necessario, dalla concorrenza di ulteriori reati in danno dei singoli (ad esempio, di delitti contro la persona). Le Sezioni Unite hanno affermato che, nonostante l’unità del contesto fattuale, commette più reati (sia pure in concorso formale) colui che utilizza violenza o minaccia per opporsi ad una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio. La soluzione è stata motivata soprattutto valorizzando l’argomento letterale, anche nei suoi riflessi sulla individuazione dell’offesa tipica, incentrata sull’atto quale espressione del dovere funzionale gravante su ciascuno dei pubblici ufficiali incaricati di svolgerlo (S.U., 22.2.2018, n. 40981). La sentenza si segnala, comunque, anche per notazioni più generali sui criteri utili a stabilire quando, a fronte del compimento di più atti in una sostanziale unità di contesto, si dia luogo ad una pluralità effettiva di condotte, nonché a proposito del ruolo da ssegnare al bene giuridico nell’attività interpretativa volta a stabilire se una condotta unitaria determini violazioni ripetute della stessa norma di legge.
Un altro significativo arresto delle Sezioni Unite, riguardo alla parte speciale del codice penale, concerne il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.). Non si sono registrate, per vero, affermazioni innovative (infatti il ricorso era stato rimesso al massimo Collegio per altri aspetti), e tuttavia è stato autorevolmente ribadito un profilo fondante della materia: per integrare il reato in questione non basta siano compiuti, al fine di eludere il comando giudiziale, atti di disposizione che obiettivamente ostacolino l’adempimento degli obblighi imposti all’agente; occorre, invece, che la condotta presenti elementi di artificio, inganno o menzogna, tali da vulnerare le pretese del creditore, oltre la mera variazione del patrimonio dell’obbligato. In sentenza la Corte ha valorizzato tanto il dato testuale, tanto la migliore adeguatezza della soluzione restrittiva al principio di offensività. Con l’occasione è stato anche ribadito che il termine per la proposizione della querela decorre dalla data in cui l’inottemperanza è conosciuta dal creditore, restando a carico di chi volesse contestare la tempestività dell’atto l’onere di provarne il carattere tardivo (S.U., 21.12.2017, n. 12213).
La giurisprudenza di legittimità è tornata più volte, ai suoi massimi livelli, sul tema delle norme penali poste a garanzia dell’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni concernenti misure di sicurezza personali. Non poteva del resto essere altrimenti, dopo la “crisi” indotta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la nota sentenza De Tomaso c. Italia (Grande Camera, 23.2.2017), che aveva mosso severe censure al sistema italiano: censure generalizzate, per quanto non del tutto coerenti tra loro, e prioritariamente centrate sul difetto di determinatezza delle previsioni punitive in materia. In effetti, fin dai tempi della l. 27.12.1956, n. 1423, e pur registrando la serie di interventi modificatori culminati con il testo attuale dell’art. 75 d.lgs. 6.9.2011, n. 159, la disciplina delle misure di prevenzione si è caratterizzata per due ampie previsioni sanzionatorie, collegate a qualunque “inosservanza” degli “obblighi” e delle “prescrizioni” inerenti alle misure medesime (ed in particolare a quelle più incisive, secondo il testo del co. 2 dell’art. 75 citato). La descrizione del precetto è stata sempre fondata, dunque, sul contenuto impositivo del provvedimento adottato dal giudice della prevenzione, costruito in parte su prescrizioni fisse ed in parte su prescrizioni imposte discrezionalmente in base alla relativa disciplina legale. Tra le prime era ed è tradizionalmente compresa quella (oggi imposta dal co. 4 dell’art. 8 del d.lgs. n. 159/2011) di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi». La conseguenza è stata – per molti decenni – che la condanna per un qualunque reato, ed in diversi casi anche riguardo ad illeciti amministrativi, implicasse per i sorvegliati speciali anche una condanna per il delitto oggi delineato all’art. 75, co. 2, ormai più volte citato: per una violazione cioè del precetto di «rispettare le leggi», spesso abbinato senza particolare distinzione a quello dell’honeste vivere. Le polemiche sull’asserita indeterminatezza della fattispecie, più volte sfociate in questioni di legittimità, non avevano mai posto in crisi l’assunto della compatibilità costituzionale della disciplina (si veda, in particolare, C. cost., 23.7.2010, n. 282). Tutt’al più la Suprema Corte era giunta, valorizzando i principi di offensività e proporzionalità, ad affermare che non ogni inosservanza delle prescrizioni “generiche” integrasse la fattispecie incriminatrice, ma solo le violazioni tali da risolversi «nella vanificazione sostanziale della misura imposta» (S.U., 29.5.2014, n. 32923). Nonostante il suo monolitismo, e come si accennava, la barriera eretta a tutela dell’incriminazione tradizionale non ha retto all’impatto con la giurisprudenza sovranazionale, ed in particolare all’assunto della indeterminatezza della previsione sanzionatoria, ove riferita alle prescrizioni “generiche” recate dalla misura di prevenzione. Con una recente sentenza (27.4.2017, n. 40076), le Sezioni Unite della Cassazione hanno inteso risolvere il problema facendo un uso rilevante, e secondo alcuni addirittura eccessivo, dello strumento della interpretazione adeguatrice. In sintesi, si è proposta «una lettura ‘tassativizzante’ e tipizzante della fattispecie», tale da rendere «coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2», scavalcando di getto tutta la precedente produzione giurisprudenziale. L’operazione compiuta è semplice, e segna una sostanziale coincidenza del mezzo con il fine: «il richiamo ‘agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno’ può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo»; e poiché un contenuto siffatto manca per le prescrizioni del «vivere onestamente» e del «rispettare le leggi» – ciò che la Corte dimostra con ampiezza di argomenti – s’imporrebbe non già la rimozione della norma dall’ordinamento mediante una sentenza dichiarativa della sua illegittimità, quanto piuttosto una sua interpretazione nel senso che la violazione delle citate prescrizioni “generiche” sarebbe un fatto atipico, dunque non penalmente rilevante (anche se suscettibile di valutazione sul piano della pericolosità, ed a fini di eventuale aggravamento della misura di prevenzione). Al momento, non si rilevano manifestazioni di dissenso dall’enunciato innovativo delle Sezioni Unite, che anzi ha trovato qualche prima conferma nella giurisprudenza di legittimità (Cass. pen, sez. IV, 9.5.2017, n. 42232). Di particolare importanza una decisione molto recente (Cass. pen., sez. I, 9.4.2018, n. 31322), la quale ha esteso il ragionamento “adeguatore” delle Sezioni Unite fino ad affermare che anche la «inosservanza del divieto di partecipare a pubbliche riunioni da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra il reato previsto dall’art. 75, comma 2»: nell’ordinamento, infatti, non potrebbe reperirsi una nozione comune e sufficientemente determinata di “pubblica riunione”, il che renderebbe appunto la fattispecie incriminatrice non sufficientemente tassativa, ove non interpretata con effetti (sostanzialmente) abroganti della porzione relativa. A dimostrazione che la materia del diritto della prevenzione sta attraversando una fase di crisi, anche in rapporto alle fattispecie penali che dovrebbero assicurarne l’efficacia, va menzionato un ulteriore arresto delle Sezioni Unite, deliberato con sentenza 21.6.2018, n. 51407. La Corte era stata chiamata a chiarire se il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale sia configurabile nei confronti del soggetto per il quale l’esecuzione della misura sia rimasta a lungo sospesa (in ragione della sua detenzione in carcere), e sia ripresa in assenza di una rivalutazione, ad opera del giudice della prevenzione, circa l’attualità e la persistenza della pericolosità sociale. La risposta è stata negativa. Già si era sostenuto che una misura non potrebbe considerarsi effettivamente in atto prima della rivalutazione di pericolosità imposta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 291/2013. In questa logica è poi intervenuto il legislatore, con i commi 2 bis e2 ter dell’art. 14 d.lgs. n. 159/2011, come introdotti ex art. 4 l. 17.10.2017, n. 161. È stabilito, in sostanza, che l’esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena, e che, dopo una sospensione della durata di almeno due anni, la pericolosità dell’interessato venga rivalutata, anche d’ufficio, dal tribunale competente. L’introduzione di una causa sospensiva in senso proprio, nella logica che ribalta la presunzione di pericolosità dopo il percorso rieducativo connesso all’esecuzione della pena, vale secondo la Corte ad escludere che la misura prevenzionale sia in atto prima del rinnovato giudizio di pericolosità, e dunque ad escludere la rilevanza penale delle violazioni intervenute nella fase di sospensione. Ancora una importante pronuncia delle Sezioni Unite sullo stesso tema. Si tratta per altro, nella specie, dei presupposti sostanziali in base ai quali è possibile l’applicazione delle misure, in specie quello consistente nella «appartenenza» (secondo una rappresentazione indiziaria) ad una organizzazione di tipo mafioso (art. 4, co. 1, lett. a, d.lgs. 6.9.2011, n. 159). La Corte, pur ribadendo che la nozione fissata nel “codice antimafia” differisce da quella della “partecipazione” penalmente rilevante ex art. 416 bis c.p., ha inteso restringere e rendere più prevedibili i criteri per l’adozione del provvedimento di prevenzione, escludendo che possano ricondursi alla nozione di “appartenenza” le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.
Com’è noto, l’art. 1, co. 1, lett. a) del d.lgs. 15.1.2016, n. 7, ha abrogato l’art. 485 c.p., implicando la trasformazione in illecito civile della condotta in esso contemplata. Con lo stesso decreto (art. 2, co. 1, lett. d) è stato modificato l’art. 491 c.p., il cui comma 1 attualmente stabilisce: «se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore […] si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482». Si nota immediatamente che la sanzione è riferita, riguardo ai titoli di credito diversi dalla cambiale, agli strumenti trasferibili per girata o pagabili al portatore, con esclusione almeno apparente per i titoliemessi con clausola di non trasferibilità. È nato allora, nella pratica della giurisprudenza, il quesito se la falsità commessa su di un assegno bancario non trasferibile sia oggi reato sanzionabile ex art. 491 c.p. o piuttosto sia rimasta nell’alveo del precedente art. 485, e costituisca dunque un illecito civile. La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite, che con una recente decisione hanno affermato l’irrilevanza penale del fatto, dunque distinto dal falso in asassegno trasferibile, effettivamente sanzionato ex art. 491 c.p. (S.U., 19.7.2018, n. 40256). In contrario – cioè per sostenere l’applicabilità della fattispecie novellata a tutti gli assegni – era stato osservato che i titoli non trasferibili vanno pur sempre girati per l’incasso, e che la soluzione negativa comporterebbe una disciplina del tutto irrazionale della materia, posto che escluderebbe dalla tutela penale la maggior parte degli assegni, e soprattutto quelli di maggior valore (essendo prescritta la clausola di non trasferibilità per i titoli recanti importi pari o superiori ai mille euro). La Corte ha replicato che ormai quasi tutti gli assegni non ammettono girata (a terzi diversi dal banchiere), tanto che occorre una specifica richiesta al fine di ottenere moduli privi della clausola di non trasferibilità, e che il profilo di gravità colto dall’attuale testo dell’art. 491 c.p. attiene ai maggiori rischi di falsificazione connessi alla circolazione del titolo, piuttosto che al valore della somma sullo stesso indicata. D’altra parte la firma per girata al banchiere, che non produce una circolazione rischiosa nel senso anzidetto, esplica effetti giuridici diversi da quelli propri del trasferimento ad un nuovo portatore del titolo, a monte della sua presentazione per l’incasso.
Nel contesto della riforma del sistema penale attuata con la l. 23.6.2017, n. 103, il legislatore ha inteso attuare il principio della cd. “riserva di codice”, delegando il Governo (lett. q del comma 85 dell’art. 1) a “trasportare” nel codice penale figure di reato al momento inserite in corpi normativi separati. La delega è stata attuata con il d.lgs. 1.3.2018, n. 21, introducendo nel codice penale l’art. 3 bis e numerose altre disposizioni che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto trasporre nella legge penale fondamentale fattispecie sostanzialmente stabili dal punto di vista degli elementi costitutivi. Qui interessa, per la particolare rilevanza della materia regolata e per i problemi interpretativi subito insorti, il nuovo art. 570 bis c.p., rubricato Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio: è punita con le pene previste dall’art. 570 c.p. la condotta del coniuge che «si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli». Nella logica della trasposizione, la norma è chiamata a sostituire le previsioni dell’art. 12 sexies della l. 1.12.1970, n. 898, e dell’art. 3 della l. 8.2.2006, n. 54, rispettivamente concernenti il cd. assegno divorzile ed il mantenimento dei figli di genitori separati in affidamento condiviso.
I problemi cui sopra si alludeva dipendono dai profili di scostamento fra il testo della nuova fattispecie e l’area di applicazione che la giurisprudenza aveva assegnato a quelle ormai abrogate. Eventuali disallineamenti porrebbero all’evidenza questioni di legittimità sotto il profilo dell’eccesso di delega (questioni ammissibili, anche quando poste in malam partem, dopo i dicta della sentenza C. cost., 23.1.2014, n. 5). Nei primi commenti si è posto in rilievo che la nuova norma sembra comprendere l’omesso versamento di somme assegnate al coniuge in sede di separazione (fatto non compreso, secondo la giurisprudenza precedente, nella previsione dell’art. 3 della l. n. 54/2006). Di contro, sembra non riconducibile all’art. 570 bis la violazione degli obblighi di assistenza in favore dei figli di genitori non coniugati (violazione che parte della giurisprudenza, invece, aveva considerato rilevante in base alla legge già citata del 2006: da ultimo, Cass., sez. VI, 22.2.2018, n. 14731). Ancora, potrebbe risultare problematica la punizione del genitore separato non ottemperante nei casi di affidamento non condiviso dei figli, che prima, con buona sicurezza, veniva ricondotta alla previsione richiamata da ultimo ed oggi abrogata. Non resta che attendere gli sviluppi della giurisprudenza in materia. Ciò che vale anche riguardo ai rapporti tra la nuova figura di reato e quella dell’articolo precedente, dovendosi in particolare stabilire se debba rispondere dei due illeciti, o soltanto del primo, il soggetto che, attraverso la violazione degli obblighi imposti con la separazione o con lo scioglimento del matrimonio, induca addirittura uno stato di bisogno nei confronti dei figli minori. Il tema del concorso formale di norme o del concorso di reati si era già posto riguardo ai rapporti tra l’art. 570 c.p. e l’art. 12 sexies della l. n. 898/1970, ed era stato risolto dalla giurisprudenza con decisioni contrastanti (nel senso che la previsione codicistica assorbisse quella della legge speciale sul divorzio, da ultimo, Cass., sez. VI, 10.11.2017, n. 57237; in senso contrario, e dunque per il concorso formale tra reati, Cass.,sez. VI, del 20.2.2018, n. 10772). È prevedibile che analogo contrasto si riproduca in riferimento alla nuova norma. Non dovrebbe risultare problematica, invece, la riconduzione all’art. 570 bis dei fatti commessi nell’ambito delle nuove unioni civili, dato tra l’altro il tenore dell’art. 570 ter c.p., così come sembra inevitabile, invece, l’esclusione della tutela per comportamenti tenuti nel contesto delle unioni di fatto.
Ripetuti cambiamenti hanno segnato, di recente, la disciplina dei delitti contro la persona commessi per ragioni d’odio e di discriminazione, fino alla creazione della sezione I-bis del titolo XII del libro II del codice penale. Al fine di adeguare la legislazione interna a fonti sovranazionali, con l’art. 5 della l. 20.11.2017, n. 167, era stato modificato il comma 3bis della l. 13.10.1975, n. 654, introdotto ex art. 1 della l. 16.6.2016, n. 115, al fine di delineare la cd. “aggravante del negazionismo”. La recente novella era servita, in particolare, ad estendere l’area della figura circostanziale, parificando alla negazione della Shoah o dei crimini contro l’umanità le condotte di «minimizzazione in modo grave» o di «apologia» dei crimini medesimi. La circostanza si riferiva com’è noto ai reati di discriminazione e d’odio meglio definiti nei primi tre commi dello stesso art. 3 della l. n. 654/1975. Altra importante modifica del quadro normativo era ed è rappresentata dalla responsabilizzazione degli enti per la commissione dei crimini d’odio che possano essere loro riferiti secondo le regole generali. Nel d.lgs. 8.6.2001, n. 231 è stato infatti inserito un nuovo art. 25 terdecies, rubricato Razzismo e xenofobia,a norma del quale si applica una sanzione pecuniaria per i reati aggravati ex art. 3, co. 3bis, della l. n. 654/1975, ed una sanzione interdittiva per i delitti di cui al comma 1 della stessa norma. Di più: se l’ente od una sua unità organizzativa sono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei delitti in questione, la sanzione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività è definitiva. L’art. 3 della l. n. 654/1975 è stato successivamente abrogato, in ossequio alla direttiva della “riserva di codice”, ex art. 7, co. 1, lett. c), del d.lgs. 1.3.2018, n. 21. Come sopra si accennava, il legislatore delegato ha introdotto nel codice penale una nuova sezione del titolo dedicato ai delitti contro la persona, cui afferiscono gli artt. 604 bis e 604 ter. La prima delle due norme sostituisce appunto l’art. 3, riproducendone i contenuti nella versione aggiornata dalla legge comunitaria del 2017. Non v’è ovviamente menzione, nel nuovo articolato, della disciplina di responsabilità da reato degli enti. La continuità della “penalizzazione” resta comunque assicurata dall’art. 8, co. 1, del d.lgs. n. 21/2018, per effetto del quale i richiami all’art. 3, ovunque presenti, si intendono riferiti all’art. 604 bis c.p. Quanto al nuovo art. 604 ter c.p., la norma sostituisce la previsione circostanziale introdotta nell’ordinamento ex art. 3 del d.l. 26.4.1993, n. 122 (come convertito dalla l. 25.6.1993, n. 205), che riguarda tutti i reati con pena temporanea commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. Anche sull’art. 604 ter sono stati “trasferiti” tutti i richiami, ovunque presenti, che riguardino la norma antecedente.
Restando sul terreno dei delitti contro la persona, è possibile al momento una mera segnalazione riguardo al tema della pedopornografia, trattato dalle Sezioni Unite della Cassazione con una sentenza non ancora depositata al momento delle presenti note. Si trattava di stabilire se per affermare l’integrazione del reato di cui all’art. 600 ter, co. 1, n. 1, c.p. – avuto riguardo alla condotta di produzione di materiale pedopornografico – sia necessario l’accertamento del pericolo di diffusione del materiale medesimo. La questione era stata rimessa al massimo Collegio mediante un’ordinanza apertamente mirata a scardinare l’orientamento dominante, secondo cui la condotta de qua rileverebbe, appunto, solo in caso di potenziale distribuzione del materiale. Per quanto si desume dall’informazione provvisoria pubblicata dopo l’udienza del 31.5.2018 (in proc. n. 29453/2017), le Sezioni Unite hanno accolto, in effetti, la nuova e più severa prospettazione, affermando la rilevanza penale della produzione anche in assenza del rischio di diffusione del relativo oggetto.
È opportuna una pur veloce segnalazione riguardo al reato di cui all’art. 10 bis del d.lgs. 10.3.2000, n. 74 – nel testo da ultimo novellato ex art. 7 del d.lgs. 24.9.2015, n. 158 – cioè alla condotta del sostituto di imposta che ometta di versare le ritenute operate, quando le stesse risultino dalla sua dichiarazione annuale (mod. 770) o dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. La norma conferisce rilievo non solo al rilascio di certificazione riguardo alle ritenute non versate, così come invece faceva la previsione antecedente alla novella, ma anche, in alternativa, all’indicazione delle stesse ritenute nella dichiarazione annuale del sostituto d’imposta.
È priva dunque di rilievo, in prospettiva futura, la questione se, per la prova della condizione di rilevanza originariamente posta in via esclusiva dal legislatore (cioè il rilascio delle certificazioni), fosse sufficiente l’acquisizione della dichiarazione annuale presentata dal sostituto. Sul contrasto sono comunque intervenute, di recente, le Sezioni Unite della Cassazione, rispondendo negativamente al quesito. Qui interessano, per altro, alcune enunciazioni sui profili di diritto sostanziale della materia. La giurisprudenza si era chiesta, in particolare, se l’avvenuto rilascio delle certificazioni ai sostituiti dovesse qualificarsi come elemento costitutivo del reato o quale presupposto della condotta penalmente illecita. La Corte, pur dubitando del fondamento stesso della distinzione in punto di teoria generale, ha optato per la seconda soluzione, rilevando subito dopo che, comunque, l’onere della prova per la pubblica accusa riguarda anche, ed appunto, i presupposti della condotta illecita (S.U., 22.3.2018, n. 24782). Sul versante degli adempimenti concernenti la previdenza e l’assistenza, una ulteriore decisione ha chiarito i criteri di misurazione dell’importo del versamento omesso, a fini di verifica del superamento della soglia di rilevanza penale del fatto (diecimila euro complessivi): occorre aver riguardo alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi, che sono quelle incluse nel periodo 16 gennaio – 16 dicembre, relativo alle retribuzioni corrisposte, rispettivamente, nel dicembre dell‘anno precedente e nel novembre dell’anno in corso (S.U., 18.1.2018, n. 10424).
Con una recente decisione, le Sezioni Unite hanno risolto un contrasto di giurisprudenza gravido di implicazioni pratiche, relativamente alla disciplina penale dell’immigrazione. L’attuale struttura dell’art. 12 d.lgs. 25.7.1998, n. 286, per effetto di ripetuti interventi di riforma, presenta una singolarità. Al comma 1 è impostata una fattispecie incriminatrice con determinati elementi costitutivi, essenzialmente centrati sull’organizzazione dell’altrui immigrazione illegale. Il comma 3 esordisce riproducendo alla lettera la descrizione del fatto tipico, per poi prevedere una pena molto più severa quando ricorrano elementi descritti alle successive lettere (da a ad e) dello stesso comma (disponibilità di armi, numero degli immigrati, numero degli agenti, ecc.). Proprio la ridondanza del comma 3 ha favorito l’emergere della tesi che la norma regoli fattispecie autonome di reato, e non semplici circostanze, con la conseguenza (prima fra molte) che l’aggravamento di pena non potrebbe essere neutralizzato nel concorso con circostanze attenuanti. La Corte ha però escluso il fondamento della tesi in questione, affermando la natura circostanziale delle previsioni: lungi dall’esprimere l’autonomia delle fattispecie, la perfetta riproduzione del testo della ipotesi base favorisce quel giudizio di continenza strutturale che la giurisprudenza da sempre privilegia (sia pure non in termini esclusivi) quale criterio di identificazione delle circostanze; in altre parole, le ipotesi ritenute più gravi replicano tutti gli elementi del reato base, e vi aggiungono un fattore specializzante che legittima il trattamento più severo (S.U., 21.6.2018, n. 40982).