A partire dagli anni Settanta l’Imf iniziò a espandere i propri programmi di aiuto nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Anche per questo motivo, nell’ultimo quarantennio di attività il Fondo è stato oggetto di un crescente fuoco di fila di critiche. Queste si sono prevalentemente concentrate su due aspetti della vita dell’Imf: i suoi meccanismi decisionali, da una parte, e una sorta di fallacia ideologica dall’altra.
Sotto il primo aspetto, intanto, aver collegato a doppio filo il sistema di voto del Fondo alle quote di capitale versato sbilancia chiaramente il potere decisionale in favore dei più ricchi e capaci paesi occidentali. I paesi che si ritengono discriminati, e in particolar modo le economie emergenti, hanno spesso spinto per ottenere più potere in seno all’organo decisionale dell’Imf: la recente rinegoziazione del potere di voto ha tuttavia lasciato immutati gli equilibri di fondo. I paesi industrializzati hanno spesso risposto a questa critica sostenendo che sia del tutto naturale che, in un’istituzione finanziaria cui ciascuno contribuisce per quanto è nelle sue disponibilità, ma anche nelle sue volontà politiche, il potere di imprimere una certa direzione politica sia proporzionale al capitale versato.
Una seconda parte di critiche ha per oggetto la condizionalità degli aiuti. L’Imf subordina infatti l’erogazione dei prestiti alla stipula di un Programma di aggiustamento strutturale, nel quale il paese destinatario degli aiuti si impegna a riformare il proprio sistema economico nel senso concordato con il Fondo. Secondo i critici, le richieste di aggiustamento strutturale si baserebbero tuttavia su calcoli macroeconomici spesso fuorvianti rispetto alle reali condizioni del paese, e le raccomandazioni si ispirerebbero a programmi di riforma neoliberisti che non terrebbero conto della situazione politico-sociale interna, e che dunque rischierebbero nella maggior parte dei casi di aggiungere anziché togliere elementi di instabilità in contesti in gran parte già compromessi. L’ex vicepresidente della Banca mondiale, Joseph Stiglitz, in un libro del 2002 ha infatti accusato il Fondo di imporre a molti paesi una sorta di ricetta standardizzata e troppo semplicistica, che in molti casi passati si è rivelata controproducente.