GUIDI, Guido Guerra (Guido di Dovadola)
Figlio del conte Marcovaldo e di Beatrice degli Alberti di Capraia, nacque intorno al 1220. Nel 1229, alla morte del padre, ricordato come il capostipite del ramo dei Guidi di Dovadola, il G. doveva avere all'incirca dieci anni e fu formalmente affidato agli zii paterni, i conti Tegrimo (V) e Guido (VIII), anche se nella sua formazione ebbero un ruolo importante la madre Beatrice e il nonno materno, il conte Rodolfo Alberti.
Una prima attestazione del G., riportata nel Litta, risale al 1234 quando egli compare in qualità di paggio o scudiero di Federico II, il quale si rivolgeva a Beatrice per avere presso di sé anche il suo secondogenito Ruggero. È probabile che questa missiva debba essere vista come una richiesta di garanzia da parte dell'imperatore nel timore, poi rivelatosi fondato, di subire defezioni di campo da parte dei Guidi di Dovadola. Nel 1240 la scelta del G. era già ben chiara: egli si schierava infatti con le forze guelfe fiorentine nella difesa di Faenza.
Proprio tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo XIII, quindi, si dovette verificare una spaccatura tra i diversi rami dei Guidi derivanti dal padre del G. e dai tre fratelli di questo che, talvolta, finì per mettere in conflitto anche esponenti di uno stesso ramo. Sebbene non siano a oggi del tutto chiare le ragioni di tali dissidi, è evidente che a essi concorse un insieme di cause. Senz'altro vi fu la lotta per l'eredità di Ruggero, zio del G., morto senza eredi nel 1225; ma poterono sorgere ulteriori elementi di incomprensioni personali che, alimentate dalla turbolenta situazione, toscana e non solo, dei decenni centrali del secolo XIII, portarono appunto il G. e i suoi cugini a militare in fazioni distinte, fino a trovarsi in momenti topici della storia medievale italiana - basti pensare alla battaglia di Montaperti - negli schieramenti opposti. È stato anche supposto che nella scelta del G. influissero gli interessi in terra di Romagna del suo ramo, che potevano indurlo a schierarsi nel campo della Chiesa. Certo è che l'analisi della vicenda del G. e dei suoi familiari rischia ancor oggi di essere fortemente influenzata dalla lettura delle pagine che Dante e altri autori hanno lasciato. Tuttavia è stato possibile, da ultimo, sfumare una visione eccessivamente "dualistica", troppo tesa forse a giustificare tale scelta con ragioni principalmente legate al possesso territoriale, accogliendo, invece, quanto sostenuto in merito alle scelte del G. e degli altri Guidi come una testimonianza della "capacità dei vari rami di militare nei campi politici avversi", che rendeva quella dei Guidi una consorteria "strettamente legata a Firenze […] ma mai pienamente integrata nella sua cittadinanza" (Zorzi, p. 552).
Da questo momento inizia per il G. una lunga militanza nelle file dei guelfi fiorentini che l'avrebbe portato per tutta la vita, a più riprese, a combattere per tale parte e l'avrebbe visto assumere incarichi di rilievo assoluto in Firenze. Solo tra il 1243 e il 1244 sembrò che, per qualche mese, egli potesse tornare alla fedeltà imperiale ma Innocenzo IV riuscì abilmente, con una serie di scelte patrimoniali e matrimoniali, a convincerlo a non abbandonare la parte guelfa. In questi stessi anni il G. pose le basi per un suo ruolo diretto di primo piano in Firenze, riuscendo per esempio a inserire un suo fedele, il canonico Aldobrandino di S. Lorenzo, nel capitolo del duomo. Poco dopo, nel 1245, il G. fece parte della scorta che accompagnò il pontefice alla volta della Francia, dove da Lione, in occasione del concilio, Innocenzo IV avrebbe solennemente scomunicato Federico II (7 luglio).
Nello stesso periodo proseguivano inoltre i problemi di natura finanziaria del G., al quale già nel 1240 erano stati confiscati diversi beni a favore di suoi creditori, decisione contro la quale si era scagliata la madre Beatrice.
Tali problemi emergono a più riprese nella letteratura storica fiorentina a cavallo fra Ottocento e Novecento e sono indizi che andrebbero forse recuperati in vista di una diversa prospettiva di ricerche, come sopra accennato.
Ancora con ruoli di primo piano nelle lotte antighibelline degli anni successivi, il G. e il fratello Ruggero ottenevano nel 1248 il titolo di "Capitanei pro ecclesia" dal papa, che aveva nel frattempo messo un esercito a disposizione dei guelfi toscani. Nelle lotte di questi anni, come è noto, i fattori politici e quelli religiosi si intrecciarono più volte, con accuse di eresia mosse tanto a esponenti di livello assoluto - lo stesso imperatore - quanto, a livello locale, contro individui e gruppi avversari: si tratta di un fenomeno particolarmente vivo in molte città dell'area toscana, in particolare al confine con le terre pontificie, e che attende anch'esso una rinnovata stagione di indagini. Lo stesso G. è il destinatario di un componimento poetico di Uc de Saint Circ (ricordato dal Davidsohn, II, p. 480) nel quale il trovatore provenzale lo incitava alla lotta contro Federico II: ormai il distacco tra il G. e i rami dei cugini ghibellini, in particolare Guido Novello, era definitivamente compiuto.
A più riprese troviamo, negli anni successivi, il G. alla testa di spedizioni e di truppe mosse contro questa o quella città ghibellina. Ma nel 1255 il suo zelo nel perseguitare la parte avversa fu giudicato eccessivo dai suoi stessi alleati, quando intese cacciare dal territorio di Arezzo i sostenitori della causa imperiale.
In tale occasione la città di Firenze l'aveva inviato con un esercito di 500 cavalieri ad aiutare Orvieto ma egli - per attriti personali, dovuti anche a ragioni economiche, con i ghibellini aretini all'epoca al potere - pensò bene di dirigersi contro Arezzo e conquistarla con un colpo di mano. Firenze, tuttavia, non tollerò tale insubordinazione e preparò un nuovo intervento per giungere a una ricomposizione dello scontro. La vicenda si risolse con l'istituzione ad Arezzo di un governo gradito a Firenze ma anche in grado di comporre le fratture interne alla città, e con un pagamento di 5000 libbre in favore del G. che dunque riuscì, in certa misura, a volgere comunque a proprio favore la situazione.
Se fino a questo momento la scelta politica del G. si era rivelata vincente, la sua condizione mutò con la battaglia di Montaperti del 1260, dove i guelfi fiorentini e toscani, da lui guidati, furono duramente sconfitti da un composito schieramento ghibellino nel quale militava, con un ruolo di spicco, proprio Guido Novello. In seguito a Montaperti iniziò la parentesi di dominio ghibellino in Firenze, destinata a durare fino al 1266 e che avrebbe avuto proprio nel cugino del G. il suo capo indiscusso.
I tempi della rivincita furono lunghi, ma il G. non si diede per vinto e organizzò un esercito di cavalieri fuorusciti che nel 1265 si contrappose in diverse occasioni ai ghibellini nel Valdarno superiore. In seguito capitanò egli stesso un reparto armato di notevole importanza che, unitosi con le schiere angioine, si rivelò particolarmente efficace il 9 febbr. 1266 nella conquista di San Germano, quando l'esercito di Manfredi subì la prima sconfitta.
Si giunse così alla battaglia di Benevento del 26 febbr. 1266, nella quale le schiere dei guelfi fiorentini si distinsero per la loro maniera efficace e cruenta di combattere, a giudicare dalle espressioni che suscitarono in diversi cronisti e narratori del tempo. Per il G. la vittoria, simbolica e di svolta nella storia non solo toscana o italiana, significò anche una rivincita personale: rientrato a Firenze da trionfatore, gli fu affidato il capitanato della città, primo caso di assegnazione di tale carica a un cittadino non fiorentino; in tale scelta dovettero influire anche le sue più volte dimostrate capacità militari, di cui appariva chiaro ci sarebbe stato ancora bisogno.
Negli anni seguenti, infatti, la situazione, a Firenze e in Toscana, fu tutt'altro che pacificata. Le classi umili si agitavano per la situazione di insicurezza e lo stesso G. acconsentì a un allargamento del governo cittadino alla partecipazione del popolo. Ma tale scelta non incontrò il favore pontificio che la avversò fino a far revocare ogni concessione.
Al G. restavano ancora pochi anni di vita: nel 1272 morì nel suo castello di Montevarchi nell'Aretino.
La sua vicenda non passò inosservata già agli scrittori del suo tempo, anche se non riesce ad assumere il profilo eroico di altri personaggi storici di quei decenni assurti a simboli letterari. Egli dovette apparire a quelli della sua parte come il campione del guelfismo e il restauratore di tale parte in Firenze. Assai positivo, ma anche viziato dalle inclinazioni politiche, il giudizio di Filippo Villani: "sprezzatore de' pericoli, e quasi troppo sollecito ne' casi subiti, d'ingegno e d'animo meraviglioso, donde spesso i fatti quasi perduti riparava, e spesso quasi tolse la vittoria di mano a' nemici: d'animo alto e liberale, e giocondo molto, da' cavalieri amato, cupido di gloria" (cit. in Camporesi, p. 321). Dante lo colloca nell'Inferno tra i sodomiti (XVI, vv. 34-39) senza offrirne un ritratto particolarmente significativo; va detto però che fino a oggi il ricordo che se ne conserva deve moltissimo al sommo poeta, come notato da E. Sestan, il quale ha sottolineato come la fama del G. e della sua intera famiglia in generale sia dovuta a Dante, poiché "la grandezza vera dei Guidi […] è luce riflessa della poesia dantesca" (I conti Guidi…, p. 378). Se tale affermazione non rende, forse, giustizia dei molti aspetti interessanti di questa figura, pare comunque innegabile che senza il ritratto di Dante, e particolarmente della menzione quale "nepote […] de la bona Gualdrada" (Inf., XVI, v. 37), la donna dell'alta borghesia fiorentina capace di ridare linfa alla vecchia famiglia comitale, la figura del G. avrebbe forse avuto minore fortuna storiografica rispetto a suoi antenati e discendenti.
Fonti e Bibl.: P. Villari, I primi due secoli della storia di Firenze. Ricerche, Firenze 1905, p. 195; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 1018 s.; II, ibid. 1956, pp. 370 s., 398-401, 417, 461, 479 s., 552, 612 s., 689, 694, 697, 713, 799, 803, 842, 845; III, ibid. 1957, pp. 47-50, 60 s., 140, 190, 428; VI, ibid. 1965, p. 460; VII, ibid. 1965, pp. 338, 613; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, a cura di E. Sestan, Torino 1962, pp. 37, 44; E. Sestan, Dante e i conti Guidi, in Id., Italia medievale, Napoli 1968, pp. 341-343; Id., I conti Guidi e il Casentino, ibid., pp. 372, 377; P. Camporesi, G., G. VI (Guido Guerra), in Enc. dantesca, III, Roma 1971, pp. 321 s.; S. Raveggi, Il regime ghibellino, in Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, p. 17; M. Tarassi, Il regime guelfo, ibid., pp. 88, 98 s., 105, 107, 112-122, 127, 130, 134, 146 s., 155; D. Medici, I primi dieci anni del priorato, ibid., p. 173; A. Zorzi, I rettori di Firenze. Reclutamento, flussi, scambi (1193-1313), in I podestà dell'Italia comunale, I-II, Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec. - metà XIV sec.), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma 2000, I, p. 552; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v.Guidi di Romagna, tav. III.