FARNESE, Guido (Guitto, Guittone)
Vescovo di Orvieto dal 1302 al 1328, vicario papale a Roma (1307) e rettore della provincia del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia (1319-1323), è generalmente ritenuto figlio di Ranuccio di Pepo e fratello di Ranuccio, condottiero morto nel 1288, e di Pietro, rector et defensor del Comune di Orvieto nel 1313.
Nonostante la sua appartenenza alla famiglia Farnese sia universalmente riconosciuta, va osservato che se ne è cercata invano testimonianza nelle fonti coeve. Infatti, mentre è esplicitata nella cronaca di Luca di Domenico Manente, tale appartenenza non risulta desumibile dalla documentazione trecentesca che si limita, per solito, a ricordarlo come "Guitto episcopus"; né aiuta fare chiarezza il riferimento al suo fratello "Lottus domini Rainuccii" (Sezione di Arch. di Stato di Orvieto, Riformazioni, 73, c. 11r), data la grande diffusione del nome Ranuccio.
Fu nominato vescovo da Bonifacio VIII il 31 genn. 1302 (ancora in minoribus), in un momento in cui il contrasto tra il papa e il re di Francia stava raggiungendo il punto di massima tensione e la sua scelta è da ritenere frutto di accurati calcoli politici. Orvieto, infatti, pur essendo una sostenitrice della causa guelfa, si era trovata a più riprese in contrasto con i pontefici per questioni legate a rivendicazioni territoriali, fino a rendersi protagonista di una grave ribellione quando nel 1294, approfittando della lunga sede vacante, occupò Bolsena e gli altri castelli della Val di Lago (la regione circostante il lago di Bolsena) ai quali ambiva da lungo tempo. Erano terre che la Chiesa considerava di suo diretto dominio e il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, reagì all'occupazione con durezza: ingiunse a Orvieto la restituzione dei castelli e, avendo la città opposto un netto rifiuto, le comminò l'interdetto. La vicenda si concluse nel 1296 con la restituzione della Val di Lago e il ritorno di Orvieto all'obbedienza; ma è indubbio che la città rappresentasse per la S. Sede un centro di cui diffidare e da sottoporre ad uno stretto controllo, tanto più che Bonifacio coltivava precisi interessi nei confronti della contea Aldobrandesca, soggetta ad Orvieto, che desiderava assicurare alla sua famiglia. Non è forse un caso, quindi, che la nomina del F. avvenisse nel pieno della guerra contro l'ultima erede della contea, Margherita. Il F., infatti, oltre ad essere personalmente ben conosciuto da Bonifacio (il quale lo aveva gratificato del curioso soprannome di "totot", dovuto, si pensa, ad un difetto di balbuzie), era esponente di una famiglia - da lungo tempo fedele, oltre che ad Orvieto, anche alla causa della S. Sede - che si era distinta in più occasioni nella lotta contro i ghibellini e pertanto poteva ben tutelare gli interessi del papato nella città.
Il F. ricoprì la carica di vescovo per ben ventisei anni e portò nel suo magistero il segno di uno spirito intraprendente, dando prova della sua abilità di governo nel rivendicare con fermezza e pertinacia i possessi e i diritti episcopali usurpati. Nel 1308 iniziò una lite con il monastero di S. Severo (di cui giunse finanche a scomunicare l'abate), che fu possibile risolvere solo con la nomina di due arbitri nelle persone di Giovanni Le Moine, cardinale del titolo dei Ss. Marcellino e Pietro, e di Nicola Alberti, vescovo di Ostia. L'anno successivo effettuò una visita pastorale nel territorio della diocesi e nell'occasione ridusse all'obbedienza il monastero di S. Pietro Aquaeortus; anche gli uomini del castello di Fratta Balda (Colle Baldo) furono nuovamente sottomessi alla signoria del vescovo insieme con il feudo di San Vito, per il quale nel 1309 ottenne dal podestà di Orvieto, Brandalisio di Appignano, il riconoscimento della piena giurisdizione.
Non disponiamo di molti documenti sulla sua attività pastorale; il nucleo di atti più consistente si conserva nei codici A e C dell'Archivio vescovile di Orvieto, dai quali si possono desumere le notizie sopra riportate. Luca di Domenico Manente, nella sua Cronaca (in Ephem. Urbevetanae), ricorda anche che il F. nel 1309 celebrò la prima messa nel duomo ancora in costruzione, mentre il Marabottini nel Catalogus episcoporum Urbisveteris riferisce al periodo del suo episcopato l'edificazione di alcune chiese e conventi (S. Bernardo, S. Maria del Monte Carmelo, S. Pietro nella parrocchia di S. Egidio), che dai successivi biografi della famiglia è stata attribuita, senza fondamento, all'iniziativa personale del Farnese.
In realtà, non fu certo nel campo dell'attività pastorale che il F. si distinse. Egli fu principalmente un uomo politico e partecipò attivamente alle travagliate vicende di Orvieto che, negli anni del suo vescovato, visse un periodo di grandi cambiamenti passando, dopo il definitivo consolidamento della parte guelfa seguito alla grande vittoria del 1313, dalle riforme antimagnatizie del capitano del Popolo Poncello Orsini ad un regime nobiliare e successivamente alla signoria di Ermanno Monaldeschi. I rapporti del F. con gli organismi comunali non furono sempre tranquilli. Nel 1303, ad esempio, reagì al divieto imposto ai suoi servi di circolare in città con le armi scomunicando i magistrati cittadini; un altro momento di attrito si verificò in occasione della scomunica comminata a Domenico di Oradino, una delle personalità politiche di maggior rilievo della parte popolare, costretto a richiedere al Consiglio che prestasse cauzione per lui presso il vescovo, dopo che gli erano stati negati i sacramenti. Nel corso della grande battaglia che infuriò in Orvieto dal 16 al 20 ag. 1313 tra i guelfi e i ghibellini il F. si adoperò per esortare i contendenti alla pace. Negli anni successivi, in coincidenza con il secondo capitanato di Poncello Orsini (1320), i suoi rapporti con la città migliorarono: nel 1320 ricevette da Orvieto un donativo di 200 fiorini d'oro, mentre nel 1321 fu chiamato a collaborare alle riforme antimagnatizie di Poncello e l'anno successivo fu nominato arbitro nella controversia fra i signori di Bisenzio per il possesso di Bolsena.
In quegli anni il F. era a capo della provincia del Patrimonio in qualità di rettore e si può pensare che questo suo ruolo politico non sia stato estraneo al miglioramento delle relazioni con il Comune. Tuttavia, senza giungere a sostenere un suo appoggio alla parte popolare, è ipotizzabile che il F. non approvasse appieno né le posizioni né l'egemonia politica dei Monaldeschi, la famiglia più potente di Orvieto. dominatrice del partito guelfo e artefice della riscossa antipopolare che preparo la strada alla signoria di Ermanno. È probabilmente ad essi che il F. faceva riferimento, in una sua relazione sulle condizioni politiche della provincia (1319 0 1320), quando sostenne che Orvieto era retta da tiranni, dei quali si considerava nemico per sentimento di giustizia, anche se grazie ad essi tutti gli prestavano obbedienza.
D'altronde non sembra che i Farnese, al pari di altri nobili di parte guelfa, vedessero di buon occhio l'eccessivo potere dei Monaldeschi, pur essendone alleati. Un sintomo quanto meno, di esitazione nell'appoggiarne la politica può essere individuato nelle posizioni di Pietro Farnese, presunto fratello del F., il quale, intervenendo, dopo la battaglia dell'agOsto 1313, nella discussione sui provvedimenti da adottare contro i ghibellini, suggerì di non procedere a punizioni indiscriminate e di distinguere chi, per il peso delle responsabilità, dovesse essere colpito col confino e con la confisca dei beni e chi no, proposta che fu contrastata da Ermanno Monaldeschi e non accolta. In merito è da ricordare ancora che alcuni esponenti di un ramo della famiglia Farnese - i figli di Guido di Pepo - compaiono in una lista di ghibellini, redatta nella primavera del 1315, tra gli oppositori più accaniti del regime guelfò.
In un momento in cui s'iniziava per il pontificato la nuova e delicata fase del soggiorno avignonese e si poneva il grave problema di garantire il governo e il pieno controllo delle terre della S. Sede, le qualità politiche del F., unite ai meriti acquisiti dalla sua famiglia, fecero sì che egli ottenesse la fiducia dei pontefici che gli conferirono incarichi di alta responsabilità. Il suo comportamento, però, non sempre risultò adeguato: egli, infatti, dimostrò in più occasioni una grande spregiudicatezza nel perseguire i propri interessi e quelli della famiglia, così da compromettere definitivamente la sua carriera. Il primo incarico politico importante gli fu conferito nel giugno 1307, quando Clemente V lo nominò vicario in spiritualibus a Roma. La carica, per la lontananza della Curia, acquistò un rilievo inedito; ma sembra che il F. si sia intromesso nelle vicende politiche romane oltre i limiti consentitigli dalle sue competenze, perché nel novembre dello stesso anno, pochi mesi dopo la nomina, fu richiamato ad Avignone a causa delle lamentele giunte al pontefice sul suo operato. I motivi della sua rimozione non sono noti con precisione; sappiamo solo che egli aveva preso posizione contro un personaggio molto in vista nella vita politica cittadina, Pietro Colonna, e nella lettera con cui Clemente V lo richiamava si accennava al grave scandalo pubblico causato dal suo comportamento e al timore di gravi conseguenze per la quiete di Roma.
La sua carriera non era, tuttavia, ancora compromessa. Nel 1319, essendo morto il rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, il francese Guglielmo Costa, venne chiamato da Giovanni XXII a succedergli, dapprima come vicario (27 sett. 1319) e l'anno successivo, il 2 giugno, come rettore effettivo. La situazione della provincia era drammatica. I maggiori Comuni - Orvieto e Viterbo in testa - e i signori più potenti, in primo luogo quelli di Vico e di Bisenzio, approfittando della lontananza dei pontefice, occupavano castelli e città e usurpavano i diritti della Chiesa, con la conseguenza che il Patrimonio viveva in un perenne stato di guerra. L'energico governo dei Costa aveva rafforzato l'autorità pontificia, riconquistando le terre occupate attraverso una serie di battaglie vittoriose contro il capo dei ghibellini del Patrimonio, Manfredi di Vico, e riconducendo all'obbedienza molte Comunità che non pagavano le imposte. Si trattava, tuttavia, di successi temporanei che un semplice allentamento del controllo o la creazione di nuove alleanze potevano rimettere in discussione. Il F. conosceva bene la provincia e la sua esperienza si rivelò utile allorché si rese necessario inviare ad Avignone un rapporto sulla situazione politica. Durante i mesi del suo vicariato preparò un'accurata relazione, nella quale venivano fornite a Giovanni XXII dettagliate informazioni sulle città e sui castelli direttamente soggetti alla Chiesa e si suggerivano i provvedimenti da adottare per ridurre all'obbedienza le Comunità e i signori ribelli.
Il documento, oltre ad essere una testimonianza di lucidità politica, costituisce per noi anche una preziosa fonte di informazioni sulle condizioni delle terre della Chiesa nei primi anni del soggiorno avignonese. Il quadro che ne emerge è desolante: l'autorità della Sede apostolica sopra i maggiori centri era ridotta quasi a nulla, pochi pagavano le imposte e quasi nessuno rispettava le disposizioni del rettore provinciale e le sentenze del suo tribunale. Viterbo non pagava da tempo il dovuto e l'ufficio della podestaria, spettante alla Chiesa, era diminuito dalla magistratura degli otto e dal difensore del Popolo, carica abolita dal pontefice, ma attualmente rivestita da Silvestro Gatti Toscanella (Tuscania) era in mano ai Romani, ma gli abitanti desideravano scuotersi di dosso il loro giogo per tornare con la Chiesa; Nepi, da quando era sotto il dominio di Stefano e Poncello Orsini, forte della potenza dei suoi signori non pagava le tasse e non rispondeva ai tribunali del rettore, né si curava delle sanzioni spirituali; Castro e Bagnoregio erano obbedienti perché ridotte in condizioni di povertà, mentre Rieti Narni e Todi contestavano l'appartenenza al Patrimonio e non rispondevano in nulla alla Curia; queste ultime due, poi, si erano appellate al pontefice contro le richieste del rettore, ma il F. suggeriva di non accogliere i loro reclami e di procedere contro di esse con provvedimenti di carattere temporale. A causare le maggiori preoccupazioni era però Roma. Rivendicando al suo distretto tutte le terre che andavano da Radicofani a Ceprano, si rifiutava di riconoscere entro questi confini l'autorità della Chiesa, che diceva infondata, e con la forza imponeva la sua signoria sulle Comunità del Patrimonio, inviando lettere anche tre o quattro volte l'anno per chiedere il pagamento delle imposizioni. La relazione si chiudeva con la preoccupata e drammatica osservazione che gli abitanti della provincia erano ridotti a tal punto di disperazione che, se non fossero stati difesi, avrebbero finito col sottomettersi completamente ai Romani e più niente la Chiesa avrebbe potuto fare.
Nella veste di rettore provinciale il F. fu chiamato a misurarsi con diverse questioni e in più d'una occasione si trovò a dover risolvere problemi nei quali erano coinvolti esponenti della sua famiglia, come nel 1321, quando intervenne per pacificare i Farnese e Manfredi di Vico, che si contendevano fl castello di Ancarano, o l'anno successivo, allorché Pietro de Cellis (esponente di un ramo della famiglia radicato nel castello di Celle) fece imprigionare l'abate del monastero di S. Pietro in Campo (diocesi di Chiusi), con il quale era in lite per il possesso di alcune terre.
Le sue origini locali, se, da un lato, offrirono al F. il vantaggio di una perfetta conoscenza degli uomini e in particolare degli avversari politici, daltra parte gli crearono non pochi problemi per l'ostilità dei numerosi Comuni nemici di Orvieto, che, lungi dal considerarlo un rettore super partes, continuavano a vedere in lui l'esponente della città avversaria.
Tale atteggiamento fu manifestato da parte di Viterbo, che interpretò i provvedimenti del F. come atti ostili dovuti all'antica inimicizia con Orvieto e ricorse al pontefice dal quale, grazie anche ai buoni uffici interposti dal vescovo A. Tignosi, ottenne pieno accoglimento delle sue richieste. Anche Todi in un atto d'appello contro le disposizioni del rettore denunciava come fosse stata costretta a presentare l'atto stesso non presso la Curia rettorale, che era a Montefiascone, ma al vescovo d'Assisi, sia perché la strada che conduceva a Montefiascone passava per Orvieto, sua nemica acerrima, sia perché il procuratore del Comune non se la sentiva di andare dal rettore, dal momento che questi, oltre ad essere cittadino d'Orvieto, aveva già trattenuto fino al pagamento del riscatto o posto addirittura in catene altri ambasciatori.
Il F. non rimase a lungo nell'incarico. Si dimise nei primi mesi del 1323, adducendo come motivazione i suoi impegni e la responsabilità della Chiesa orvietana. Ciò è quanto si desume da una lettera di Giovanni XXII spedita al F. stesso il 23 maggio 1323, nella quale si fa, tuttavia, anche un generico riferimento alle calunnie dei detrattori respinte dal rettore. Secondo l'Antonelli (1902) il F. si rese responsabile di alcune colpe gravi; per la precisione fu accusato di complicità nella fuga di due eretici spoletini dalla rocca di Montefiascone e nell'occupazione di Cesi da parte dei nemici della Chiesa, ai quali l'avrebbe ceduta dietro pagamento di una somma.
Cesi era stata locata dal F. a Giacomo di Baschi e a un suo parente per 400 fiorini l'anno, ma Giacomo si ribellò alla Chiesa e, dopo essersi rifiutato di pagare il dovuto, si impadronì della rocca, sorvegliata da un piccolo nucleo di armati pontifici, corrompendoli con il denaro del quale, fu detto, anche il F. ricevette una parte. L'accusa si trova nella deposizione resa da Ceccarello di Pietro da Bagnoregio (uomo di Giacomo di Baschi, che occupò la rocca per suo ordine) al processo per i fatti di Cesi. Ceccarello mosse al rettore anche l'accusa di complicità nella falsificazione di monete (il teste sostenne di aver trovato dentro la rocca due verghe d'argento e gli attrezzi necessari per fabbricar monete) e nella fuga dei due eretici.
Non possediamo elementi per capire se tali accuse avessero un fondamento o fossero frutto di una montatura politica. Certamente l'operato del F. come rettore non fu immune da critiche, come del resto accadde per la maggior parte dei rettori provinciali, avversati dalle Comunità, che sopportavano malvolentieri il peso delle imposizioni fiscali e l'esistenza di una giurisdizione superiore. Ci sono comunque prove che la sua gestione dal punto di vista finanziario non fu limpida. Quando, infatti, si dimise dalla carica risultò debitore nei confronti della Camera apostolica di una somma di denaro di cui si era indebitamente appropriato e che non si preoccupò mai di restituire, tanto che nel dicembre 1328, dopo la sua morte avvenuta nel corso di quell'anno, Giovanni XXII ordinò al rettore Roberto d'Albarupe di procedere al sequestro dei beni del F. onde soddisfare il credito vantato dalla Chiesa.
La disposizione incontrò l'opposizione sia degli eredi del F., in primo luogo del figlio naturale Nino, sia del vescovo d'Orvieto Tramo, il quale rivendicava dei diritti su una parte dei beni del predecessore. La questione si trascinO per molto tempo (nel 1332 ci fu un tentativo di accordo con Nino e la richiesta di incamerare nel patrimonio della Chiesa le case che il F. aveva fatto costruire a Bolsena), ma nel 1339 non era ancora chiusa. A quell'anno risale infatti una disposizione di Benedetto XII, il quale ordinava al tesoriere provinciale di prendere possesso di beni del F. che erano ancora in mano di altri.
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