CARLI, Guido
Nacque a Brescia il 28 marzo 1914 da Filippo e da Egina Chiaretti.
Il padre, sociologo ed economista, esponente di primo piano del movimento nazionalista, fu per oltre vent’anni segretario della Camera di commercio di Brescia, fino al 1926, quando fu chiamato alla cattedra di economia politica della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa.
Il clima familiare entro il quale visse era quello tipico dell’alta borghesia professionale italiana, caratterizzato da un’educazione volta a inculcare uno spiccato senso del dovere individuale e sociale, della parsimonia nei costumi di vita e dell’amore per l’erudizione e la cultura. Dal punto di vista intellettuale, fu determinante l’ambiente con cui entrò in contatto alla facoltà di giurisprudenza di Padova, oltre la lezione del padre impegnato a innestare nel ceppo del liberalismo il nazionalismo economico e la dottrina corporativa del fascismo, un tentativo andato fallito che, come analizzato da Piero Barucci (2008), ebbe un peso nella formazione culturale e politica del figlio. Carli non fu un militante antifascista, ma espresse pubblicamente in più occasioni la sua avversione alla politica economica del fascismo. All’università ebbe come maestro Marco Fanno, economista di scuola neoclassica conosciuto anche all’estero, che lo indirizzò verso le teorie del liberismo e col quale si laureò nell’anno accademico 1935-36 discutendo una tesi sulle Vicende del sistema tipo di cambio aureo, centrata sul periodo 1925-31 durante il quale era maturata la crisi del sistema aureo fino al crollo della sterlina.
L’attività professionale di Carli si collocò tra diritto ed economia, con una specializzazione sui temi istituzionali della stabilità monetaria e della libera circolazione dei beni e dei capitali, al cui perseguimento dedicò gran parte del suo impegno nelle diverse istituzioni pubbliche e private e in cui operò per quasi mezzo secolo. Questa specializzazione lo portò a essere, nell’immediato dopoguerra e fino alla sua scomparsa, uno dei protagonisti della trasformazione istituzionale dell’Italia da società chiusa a economia protetta in società aperta a economia di mercato, contribuendo alla messa a punto di meccanismi istituzionali nazionali e sopranazionali, soprattutto di natura monetaria.
Le sue prime esperienze risalgono alla metà degli anni Trenta, nel tormentato periodo della sistemazione istituzionale conseguente alla crisi del 1929. Grazie alle referenze di un sacerdote originario della Val Trompia, amico dei Montini, la famiglia del futuro papa Paolo VI alla quale i Carli erano legati da antica amicizia, fu presentato a Sergio Paronetto, capo della segreteria tecnica di Donato Menichella, direttore generale dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Qui cominciò a lavorare all’Ispettorato economico (Cinquant’anni di vita italiana, 1993, p. 22) sotto la guida di Pasquale Saraceno, traendo motivi di riflessione destinati a segnare i suoi modi di intendere l’economia. Egli, infatti, senza essere contrario per principio all’iniziativa pubblica – che, almeno fino a quando non ne rimase deluso sul piano pratico, considerava parimenti importante di quella privata per lo sviluppo del paese – riteneva che dovesse avere carattere flessibile nell’affrontare le crisi congiunturali e rispondere permanentemente alle regole di una scelta di mercato. Investimenti e gestioni ordinarie dovevano mantenere caratteristiche privatistiche, come avvenne all’avvio dell’IRI. In questa sua attitudine era più vicino al Keynes della Teoria generale di quanto non fosse a Luigi Einaudi, che pure fu suo maestro e mentore all’inizio della carriera nel dopoguerra.
Nel 1945 fu chiamato a far parte della Consulta nazionale su designazione del Partito liberale italiano, a cui si era avvicinato nel 1943 quando ancora si chiamava Movimento liberale italiano.
Nel 1947 fece parte della delegazione incaricata di trattare l’adesione dell’Italia agli accordi monetari di Bretton Woods. Completato l’iter di adesione, fu designato dall’Italia a ricoprire l’incarico di direttore esecutivo nel Board (consiglio dei direttori) del Fondo monetario internazionale (FMI). In questa veste negoziò la fissazione della parità postbellica della lira e la sistemazione con gli Stati Uniti della circolazione di amlire (o Americanlire), la moneta emessa in Italia dalle forze alleate di occupazione.
Nel 1948 fu nominato da Einaudi, allora presidente della Repubblica, consulente generale dell’Ufficio italiano dei cambi, nato in sostituzione dell’Istituto nazionale per i cambi esteri, essendosi egli rifiutato di assumerne la direzione perché, secondo quanto ricorda nelle sue memorie (Cinquant’anni di vita italiana, 1993, p. 31), «tutti i dirigenti del vecchio istituto [erano] sotto giudizio di epurazione» per il loro coinvolgimento con il fascismo e legati al vecchio regime di monopolio statale dei cambi. La testimonianza di Carli sullo stato della politica e, soprattutto, sulla mentalità dei gruppi dirigenti e della burocrazia dell’epoca è molto chiara: «La parola "mercato" in quei giorni era priva di senso» (ibid., p. 33).
Operando in un paese stremato da una lunga guerra e umiliato dalla sconfitta – e con il problema prioritario di reperire le risorse per la sussistenza – si trovò a osservare che i gruppi dirigenti erano in condizione non solo di soddisfare facilmente l’istanza del cibo, ma anche di ottenere in ogni circostanza più di quanto il comune cittadino potesse sperare. Di fronte ai problemi economici della società italiana, fu sempre tormentato da un dilemma che non riuscì mai a risolvere del tutto: rigore economico o tolleranza sociale? Carli manifestò, pertanto, idee che lo avvicinarono di volta in volta alle tesi della sinistra progressista e a quelle della destra conservatrice, pur collocando i suoi comportamenti entro i limiti di una visione liberaldemocratica. Quest'antinomia fu all'origine, per sua stessa ammissione, di un costante conflitto interiore che egli paragonava alle «due anime di Faust» (cfr. l’Introduzione alle memorie già citate, pp. 3-23, e alla raccolta di saggi, sempre curata da Paolo Peluffo, Le due anime di Faust, 1995, pp. VII-XI).
Ove si escluda il suo convincimento della validità sociale prima ancora che economica dei principi del liberalismo – consapevole che il mercato perfetto alla loro base era difficile da realizzare e che la democrazia era altrettanto difficilmente realizzabile in presenza di un basso livello di cultura civile e di benessere – Carli fu aperto a ogni idea e a ogni sperimentazione pratica. Questa sua filosofia, 'non ideologica', ebbe modo di manifestarsi nel corso di numerosi ed eterogenei incarichi istituzionali.
Nel 1950 fu nominato presidente del comitato di direzione dell’Unione europea dei pagamenti, in seno alla quale guidò il ritorno al multilateralismo degli scambi nell’Europa occidentale.
Nelle sue memorie stabilì un parallelismo ideale tra l’Unione europea dei pagamenti e l’Unione monetaria europea: «l’illuminismo che informa[va] la costruzione del multilateralismo […] dovuto in gran parte ai dirigenti americani che lavoravano al Piano Marshall […] [era] pervaso da quello spirito kantiano comune anche al piano Delors del 1989 e al Trattato di Maastricht» (Cinquant’anni di vita italiana, 1993, p. 95). In questo modo saldava idealmente l’alfa e l’omega delle sue esperienze e dei suoi successi, culminati nel 1992 con la firma dell’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht costitutivo dell’euro.
Nel 1952, con la creazione dell’Istituto centrale per il credito a medio termine (Mediocredito centrale), la banca centrale degli istituti regionali di mediocredito, fu chiamato a presiederne il consiglio d’amministrazione. In questo ruolo contribuì ad avviare la trasformazione dell’Italia da paese importatore di capitali a paese esportatore, per finanziare le vendite all’estero dei nostri prodotti. «Quando ne parlai con Menichella, il Governatore sbiancò in volto. A quel tempo un’idea simile appariva una mostruosità. La reazione di Menichella fu più o meno questa: “Ma come? L’Italia, paese povero di capitali, si consente il lusso di favorirne il deflusso sotto forma di esportazioni di merci senza acquisizione immediata del prezzo?”» (ibid., p. 140).
La prima operazione, ricordava Carli, era stata il finanziamento di un’esportazione delle moto Lambretta, uno dei miti dell’industrializzazione italiana del dopoguerra e della prima motorizzazione del paese. Con Rinaldo Ossola, ma da «privato cittadino» – continuava –, aveva studiato e fatto approvare nel 1955 la prima liberalizzazione dei pagamenti con l’estero che chiudeva finanziariamente il cerchio della liberalizzazione degli scambi. Carli definì questa liberalizzazione, voluta da Ugo La Malfa contro la volontà di molti, «una decisione che è tutt’altro che esagerato definire storica» (ibid., p. 107), giacché con essa prese avvio quello che viene ricordato come il «miracolo economico italiano». Attraverso un periodo intenso di sviluppo produttivo accelerato e di creazione di occupazione nel settore industriale la società italiana si trasformava da agricola a industriale, da importatrice netta di merci a esportatrice, connotando irreversibilmente il nostro modello di crescita del tipo conosciuto nella letteratura economica come export-led (trainato dalle esportazioni).
Il 19 maggio 1957 fu nominato ministro del Commercio con l’estero nel governo di Adone Zoli (come tecnico indipendente in un monocolore democristiano) incarico concluso il 19 giugno 1958. Durante questo periodo redasse il testo unico delle leggi relative alla libera circolazione dei beni e alla libertà dei pagamenti in attuazione del Trattato di Roma, costitutivo dell’area di libero scambio in Europa, ponendo nel contempo le basi per l’adesione dell’Italia al General Agreement on Tariff and Trade (GATT) – oggi World Trade Organization (WTO) – con cui si estendeva la liberalizzazione degli scambi anche fuori d’Europa e si avviava anche per l’Italia l’integrazione nel processo di globalizzazione tuttora in atto.
Cessato il suo impegno governativo fu nominato presidente dell’Istituto di credito per le opere pubbliche (Crediop), inizialmente incaricato di emettere, per conto dello Stato, titoli obbligazionari destinati al finanziamento delle grandi infrastrutture e poi impiegato per un normale approvvigionamento finanziario dell’amministrazione centrale. Subito dopo, nel 1959, assunse l’incarico di direttore generale della Banca d’Italia, di cui divenne governatore nel 1960, succedendo a Menichella.
Fu questo il periodo di maggior impegno e successo della sua carriera. Con Paolo Baffi, consigliere economico della Banca nominato direttore generale, che nelle sue memorie definì l’«intelligenza critica, profonda … al [mio] fianco» (ibid., p. 268), e con la vigile e intelligente collaborazione di Antonio Occhiuto, nominato vicedirettore generale addetto al funzionamento della complessa macchina della banca centrale, Carli completò il lancio dell’economia italiana sul piano internazionale, mettendo a disposizione delle imprese danaro a basso costo; ricostruì le riserve auree depauperate dalle vicende belliche; contribuì a creare il mercato dell’eurodollaro allentando i vincoli internazionali all’offerta di dollari; potenziò il Servizio studi della Banca trasformandolo in una fucina di nuovi dirigenti del paese e in una vera scuola di economia. Da questa scuola sarebbe uscita la prima analisi scientifica dell’economia italiana sotto forma di modello econometrico di cui Carli si servì per sostenere le scelte della banca centrale e guadagnarsi quell’autonomia decisionale che lo statuto della Banca non gli consentiva.
La sua azione da governatore si distese lungo un arco di tempo che – secondo la periodizzazione proposta da Augusto Graziani (1979) – include metà del 'miracolo' economico italiano (1960-63), durante il quale sostenne l’andamento positivo del ciclo economico con una politica di bassi tassi dell’interesse; copre l’intero ciclo della spinta sindacale culminata nell’'autunno caldo' (1964-69), fronteggiata con forti restrizioni monetarie dopo l’allargamento dei cordoni della borsa per collocare quantità ingenti di titoli del debito pubblico per finanziare il rimborso degli azionisti dell’industria elettrica nazionalizzata dal centro-sinistra; continua nel periodo della stagnazione produttiva, del crollo del sistema di Bretton Woods e dell’'accordo smithsoniano' dal quale la lira italiana uscì rivalutata (1970-73); si esaurisce con la prima crisi petrolifera (1974-75) affrontata con ogni mezzo, ricorrendo a prestiti internazionali, a decisioni protezionistiche logicamente lontane dal suo credo liberista e al sostegno di politiche di spesa in disavanzo (deficit spending) di tipo keynesiano.
Nel primo periodo (1960-63) beneficiò dell’eredità del suo predecessore Menichella e, forte dell’esperienza internazionale maturata, avviò un riesame delle condizioni monetarie, sia promuovendo un dibattito sull’argomento, sia allargando il mercato dell’eurodollaro, e autorizzando le banche italiane a versare presso banche operanti in Europa, in particolare a Londra, parte delle riserve ufficiali italiane concesse a prestito. L’intelligenza con cui argomentava sui problemi internazionali e la determinazione con cui affrontava i problemi interni e i rapporti con il governo ne rafforzarono il prestigio internazionale.
Di quella operazione Peluffo ha raccolto la testimonianza di Paul Volker, allora dirigente del Tesoro e poi governatore della Federal Reserve di Washington: «Guido Carli è stato uno dei miei eroi […]. Era la fine dell’inverno del 1964 e Carli venne a Washington per chiedere un pacchetto di salvataggio per la lira […]. Si trattava di un prestito veramente ingente, anche per quell’epoca […]. Negli uffici ci si interrogava sull’opportunità di quell’aiuto. E ricordo distintamente che tutti dissero che quel prestito si poteva fare perché c’era Carli […]. La fiducia in Carli era molto grande» (Le due anime di Faust, 1995, p. VII).
Nel secondo periodo (1964-69), dominato da forti rivendicazioni sindacali, provvide a trovare soluzioni per il ricordato collocamento di una mole ingente di titoli del debito pubblico destinati, come già detto, al rimborso delle azioni delle imprese elettriche nazionalizzate e sperimentò una politica di sostegno dei corsi dei titoli di Stato, abbandonata nell’estate del 1969 al delinearsi di una fase di massiccia azione sindacale dei lavoratori volta alla ridistribuzione del reddito a loro favore, rimasta nel lessico politico ed economico come 'autunno caldo'. Le conseguenze sui risparmi delle famiglie furono disastrose e per la prima volta Carli si trovò in serie difficoltà nei suoi rapporti con la politica.
Dopo la stagnazione produttiva a cavallo degli anni Sessanta e Settanta e lo scoppio della crisi petrolifera che stremarono le finanze delle aziende, avviò in Banca d’Italia lo studio per la riforma della legge bancaria del 1936 – della quale aveva grande considerazione poichè, a suo avviso, era una legge «aperta», tale da consentire un’elevata elasticità interpretativa – suggerendo l’abbandono dell’assetto basato sulla «specializzazione» del credito a favore della «banca universale» (cfr. la Presentazione alla raccolta di saggi Sviluppo economico e strutture finanziarie in Italia preparati dal Servizio studi della Banca d’Italia, 1977).
Da buon giurista, con solide basi economiche, sapeva utilizzare il dettato legislativo per sorreggere ogni sua decisione. Proprio avvalendosi dei poteri assegnatigli dalla legge bancaria, nel momento di massima difficoltà della lira dopo la prima crisi petrolifera, introdusse l’obbligo di riserve finanziarie alle importazioni per correggere una parte dello sbilancio con l’estero senza ricorrere a più severe restrizioni monetarie che avrebbero indebolito ulteriormente l’economia italiana. Egli incontrò nuovamente serie difficoltà per far accettare la decisione, questa volta però a livello internazionale, ma difese il provvedimento in considerazione della sua natura temporanea e antispeculativa.
Carli aveva ben presente l’assoluta necessità di rafforzare lo spessore del mercato finanziario per accrescere la dotazione di capitale di rischio di cui necessitavano le imprese produttive per superare la grave crisi. Nel suo disegno le banche dovevano diventare il viatico di questo rafforzamento. L’iter di approvazione della nuova legge bancaria durò a lungo e si concluse solo il 1° settembre 1993, poco dopo la sua morte, quando Carlo Azeglio Ciampi, chiamato all’incarico di presidente del Consiglio, a seguito delle tormentate vicende politico-giudiziarie d’inizio anni Novanta, ottenne dal Parlamento l’approvazione della nuova legge.
Da governatore utilizzò e rafforzò la sua esperienza internazionale in diverse posizioni, tra le quali quelle di membro del comitato di direzione della Banca dei regolamenti internazionali (BRI) di Basilea e del comitato monetario della CEE, che gli offrirono un palcoscenico più vasto e a contenuti più ampi per la sua azione riformatrice del sistema monetario internazionale.
Sempre con la tessitura preziosa di Ossola, negoziò la creazione degli SDR (Special Drawing Rights) – avvenuta nel 1968 con l’accordo di Rio de Janeiro – una moneta-credito creata dall’FMI che, secondo le intenzioni di Keynes che l’aveva proposta fin dal 1944, doveva essere as good as gold (buona come l’oro). Gli SDR furono salutati come la grande riforma del sistema monetario internazionale dopo quella di Bretton Woods, ma nacquero talmente vincolati nel loro uso che fallirono nel compito di sostituire il dollaro USA come moneta per gli scambi mondiali e metro di riferimento dei cambi, aprendo la strada alla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro decisa dall’amministrazione Nixon nell’agosto 1971.
In un saggio, pubblicato nel marzo 1971 (L’eurodollaro: una piramide di carta?), Carli preconizzava la caduta del dollaro a opera della speculazione innescata da un incontrollato mercato dell’eurodollaro per il quale propose, in sede BRI, l’estensione delle stesse regole di governo monetario interno, patendo il rifiuto non solo degli Stati Uniti, interessati a passare ai cambi flessibili, ma anche della Francia e della Repubblica federale di Germania, antagoniste tanto degli Stati Uniti quanto di regole europee vincolanti la loro sovranità. Visse con lucidità i drammatici effetti che ne derivarono all’economia italiana, dato che, da quel momento, la lira restò priva di argini; infatti, le svalutazioni si susseguirono fino all’avvento dell’euro, 'drogando' i conti delle imprese italiane e l’economia tutta. Attraverso questa esperienza costruì comunque un grande prestigio internazionale per sé e per la Banca d’Italia.
L’azione da governatore non fu immune da critiche, anche severe. Graziani gli contestò l’idea che le radici della crisi di bilancia dei pagamenti di fine 1963 e della stagnazione successiva si trovassero nel settore reale, in particolare nei comportamenti del mercato del lavoro (e nelle agitazioni sindacali), sostenendo che la politica monetaria fosse inefficace. Ancora Graziani, in contrasto con Carli che auspicava l’avvio della politica dei redditi caldeggiata da La Malfa, avanzò la tesi che l’uscita dalla crisi necessitava di una robusta politica di investimenti pubblici finanziati in disavanzo e concentrati nel Mezzogiorno per assorbire la manodopera disoccupata. Questa prescrizione equivaleva a una politica monetaria più permissiva, dato che lo statuto della Banca d’Italia prevedeva allora l’obbligo di acquistare i titoli di Stato non sottoscritti dal mercato. Senza rinunciare alla sua richiesta di una politica dei redditi e di un rigore nella creazione monetaria, la tesi di Graziani fece breccia in Carli che la incorporò tra gli obiettivi della politica monetaria assecondando la nascente azione del ministero del Bilancio e della Programmazione economica, ricevendone all’opposto critiche severissime da parte di Michele Fratianni e Franco Spinelli che, nella loro Storia monetaria d’Italia (1991), hanno assegnato a Carli la peggiore pagella tra i governatori della Banca d’Italia. I due respingono l’idea che i comportamenti volti a garantire la stabilità del metro monetario possano essere sottoposti al vincolo delle istanze sociali invece di rispettare il mandato di lotta all’inflazione, all’origine dell’indipendenza delle banche centrali in ottemperanza del principio democratico della no taxation without representation (non può esservi imposizione fiscale palese o occulta, com’è appunto l’inflazione, senza che i cittadini siano rappresentati nei consessi che la decidono). Essi respingono la tesi che il rifiuto di finanziare disavanzi del bilancio pubblico (che fanno perdere il controllo della base monetaria) si possa configurare come un «atto sedizioso», tesi sostenuta da Carli nelle sue Considerazioni finali del 1974 (cfr. Considerazioni finali della Banca d’Italia, 2011, p. 730).
Poiché la Storia di Fratianni e Spinelli fu pubblicata solo dopo la conclusione del mandato di Carli al vertice della Banca d’Italia, egli rispose indirettamente, senza mai citarne i nomi, ai due studiosi e a coloro che lo avevano criticato per le stesse o per altre ragioni in modo per certi versi sprezzante: «l’analisi della politica monetaria che conducemmo, che anzi creammo per rispondere al mutamento, non può essere scissa dal contesto storico e politico che la rende significativa. Com’è possibile spiegare la logica della breve e intensa stretta creditizia che attuammo nel 1963 senza tenere conto della nazionalizzazione dell’energia elettrica e delle tensioni sociali che si manifestavano con violenza nelle città industriali, nelle periferie urbane fresche di calcestruzzo, giganteschi dormitori dove albergavano persone sradicate dalla loro terra? Come giudicare la politica condotta nei primi anni Settanta, che qualcuno, sbagliando, giudicò “lassista”, se non si tiene conto di quei cortei di quattordicenni che ogni mattina osservavo dalla finestra del mio studio in via Nazionale? L’opinione pubblica era scossa dai misteriosi episodi della strategia della tensione. Dovevamo ignorarlo? Il monetarista inorridisce di fronte a considerazioni di questo tipo. Sostiene che il banchiere centrale deve avere occhi soltanto al grafico che gli indica l’andamento di crescita della massa monetaria e che deve preoccuparsi soltanto di mantenerla graduale e costante. Tutto il resto non esiste. L’io cartesiano, solipsistico, del monetarista vive in un vuoto di storia e materia, ma allo stesso tempo pretende che il banchiere centrale si assuma comportamenti eroici. Se il suo grafico gli impone di bloccare la crescita della moneta, egli deve farlo anche qualora ciò provochi un milione di disoccupati, e anche se ci sono le Brigate rosse, se nelle fabbriche prevale il sabotaggio, se gli “autonomi” sparano nelle strade delle città. No, non sono mai stato monetarista» (Cinquant’anni di vita italiana, 1993, p. 261).
Le critiche, lungi dall'indisporlo, lo indussero sempre a riflettere e, ove le ritenesse fondate, a correggere la sua azione. Fu questo il caso di Franco Modigliani e Giorgio La Malfa, i quali lo convinsero innanzitutto ad approfondire scientificamente lo schema teorico e pratico di riferimento. Nel 1966 Modigliani fu chiamato in qualità di consulente del Servizio studi per la creazione di quel modello econometrico dell’economia italiana che rafforzò il prestigio della Banca e l’incisività delle sue scelte presso i governi e i politici. A seguito dei colloqui con Modigliani e con gli autori del modello, Carli maturò la convinzione che la politica monetaria dovesse essere utilizzata per stabilizzare le aspettative degli operatori e indurre comportamenti virtuosi nelle scelte dei sindacati dei lavoratori e dei governi. Nelle Considerazioni finali (lette ogni anno a fine maggio dal governatore in carica) spiegava l’evoluzione del suo pensiero da fornitore della materia prima dell’economia, la moneta, a regolatore delle aspettative degli operatori secondo l’interpretazione datane da Keynes e sviluppata matematicamente da Modigliani.
A seguito dei deludenti risultati dell’esperienza di governo dell’economia, cominciò tuttavia a tramontare in Carli la speranza che le sorti dello sviluppo potessero essere guidate dalla razionalità umana – tesi allora popolare presso la gran parte degli economisti italiani e recepita con entusiasmo dalla politica per i vantaggi che a essa offriva – e iniziò un lento recupero della proposta principale del liberalismo: affidare alla competizione di un mercato guidato da buone leggi che ne governino le distorsioni il compito di correggere con il suo 'caos creativo' (la «mano invisibile» di Adam Smith) ciò che l’uomo non mostra di saper fare con pari efficacia.
La scelta di iniziare una nuova fase della sua vita professionale si può dire legata a questa riflessione. Nel 1975 decise di lasciare volontariamente la Banca d’Italia, optando per l’attività imprenditoriale. Nel 1976 divenne presidente di Impresit International (società del gruppo FIAT) e, in questa veste, accogliendo la proposta di Gianni Agnelli, assunse la presidenza di Confindustria, a fronte di una grave crisi economica e della conseguente crisi sociale.
Durante il suo mandato, con la collaborazione di Paolo Savona già con lui presso la Banca d’Italia, in un momento in cui le richieste (anche quelle degli imprenditori) erano più favorevoli alla protezione che alla concorrenza, Carli indicò decisamente la strada del liberismo e della competizione leale tra chi produceva per il mercato interno e chi produceva per l’esportazione, e tra la componente pubblica e quella privata dell’economia. Egli propose, a questo fine, la nascita di una legge regolatrice della concorrenza e la creazione di un’autorità capace di governarla, sia per riequilibrare i rapporti tra capitale e lavoro alterati dallo Statuto dei lavoratori (al quale contrappose il suo Statuto dell’impresa), sia per vincolare alle stesse regole del gioco la presenza dello Stato imprenditore nell’economia, temendo che questa avrebbe potuto ampliarsi a seguito dell’ingresso del Partito comunista italiano nell’area di governo, ma anche per assoggettare gli stessi imprenditori privati alle regole della libera competizione di mercato, non sempre da essi bene accette.
Come già in Banca d’Italia, anche in Confindustria promosse il rafforzamento del Centro studi, avviando ricerche sui temi congiunturali e strutturali, divenendo interlocutore dei governi susseguitisi nel quadriennio della sua presidenza (1976-80) e offrendo una collaborazione fondata sull’analisi razionale dei problemi piuttosto che sulla pressione esercitabile come lobby di interessi.
Facendo leva sui buoni rapporti e sulla stima reciproca con Luciano Lama segretario generale della CGIL, scelse innanzitutto di rilanciare il CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), facendone un foro comune, con i sindacati dei lavoratori, per l'analisi della situazione economica e sociale del paese. Pose inoltre su nuove basi la collaborazione con le rappresentanze imprenditoriali dell’agricoltura, dei servizi e dell’artigianato e propiziò la riunificazione delle rappresentanze imprenditoriali private e pubbliche, soprattutto in tema di negoziazione dei contratti di lavoro, dopo la scissione che aveva portato all’uscita dalla Confindustria delle imprese a prevalente partecipazione statale e alla creazione dell’Intersind (1960).
Per dare un segnale in questa direzione Carli chiamò come membro del direttivo di Confindustria il senatore Giuseppe Medici, un economista agrario con una risalente esperienza politica, già designato a subentrare a Eugenio Cefis nella carica di presidente della Montedison, di cui erano divenuti azionisti di maggioranza IRI ed ENI (Ente nazionale idrocarburi). Questa scelta suscitò reazioni negative all’interno di Confindustria, oltre che nella componente di sinistra dello schieramento politico, ancora favorevole alla distinzione di comportamento tra imprese pubbliche e private. Ma Carli continuò a battersi con vigore contro questa distinzione proponendo all’attenzione della politica l’iniziativa conosciuta come 'statuto dell’impresa', progenitore della legge per la concorrenza e della relativa authority. La riunificazione tra le due componenti dell’imprenditoria italiana si realizzò solo molto tempo dopo (decisa nel 1994 si concluse nel 1998), a seguito delle nuove condizioni operative stabilite dall’accordo Savona-Andreatta-Van Miert del 1993 conseguente alle discussioni in sede europea per la completa privatizzazione dell’industria siderurgica statale e per la cessazione degli aiuti di Stato alle aziende pubbliche.
Un’altra iniziativa fu nel 1978 la rifondazione in senso laico dell’università cattolica Pro Deo, che venne ribattezzata LUISS (Libera università internazionale degli studi sociali) e che oggi porta il nome Guido Carli .
Al chiudersi degli anni Settanta, segnati da fortissime tensioni sociali e che avevano avuto nel rapimento e nell’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse uno degli episodi più drammatici, la situazione italiana sembrò normalizzarsi e Carli, finito il mandato di presidente di Confindustria, accettò nel 1980 l’incarico di presidente dell’UNICE (Union des industries de la Communauté Européenne).
Il 26 giugno 1983 iniziò l’ultima fase della sua vita pubblica, con un impegno diretto nella vita politica, quando venne eletto senatore nelle file della Democrazia cristiana nel collegio di Milano I (IX legislatura). Rieletto il 15 luglio 1987 nel collegio di Brescia (X legislatura), fu ministro del Tesoro nel VI e nel VII governo Andreotti (22 luglio 1989 - 29 marzo 1991 e 12 aprile 1991 - 24 aprile 1992). Piero Craveri (2009) ha curato un prezioso lavoro su questa esperienza tutta tesa a pervenire al Trattato di Maastricht, che negoziò e firmò il 7 febbraio 1992; con esso venne decisa la nascita dell’’Unione monetaria europea sottoposta a rigidi criteri di partecipazione che Carli riuscì ad attenuare ottenendo nell’Addendum la clausola di convergenza graduale per il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo. Con essa, aprì la possibilità all’Italia di partecipare all’euro fin dal suo avvio, mentre se fosse stato fissato un rapporto rigido del 60%, come inizialmente previsto, il nostro paese sarebbe rimasto sicuramente escluso.
Per propiziare questo ingresso e perché deluso dall’uso inefficiente del capitale pubblico, Carli promosse la privatizzazione delle banche, al fine di isolare le loro scelte dalle influenze della politica; per rendere più cogente la proposta del suo predecessore al ministero del Tesoro, Giuliano Amato, propose di trasferire la proprietà del capitale delle aziende di credito a fondazioni di nuova costituzione e di trasformare le banche in società per azioni di diritto privato: si apriva così l’era delle privatizzazioni in Italia. Essa sarebbe stata gestita dai governi successivi, raggiungendo il massimo di intensità durante il dicastero guidato da Carlo Azeglio Ciampi.
Carli morì a Spoleto il 23 aprile 1993.
Qualora si volesse tentare una sintesi dell’azione economica e politica di Carli nell’arco del mezzo secolo di impegno professionale e sociale il motivo dominante andrebbe individuato nella ricerca di migliori condizioni di benessere per gli italiani attraverso l’affermarsi di forme selettive a matrice meritocratica basate sulla competizione aperta verso l’estero, sia pure corrette da forme di intervento pubblico nell’economia e nel sociale. Nel perseguimento di questo obiettivo passò da una spiccata fiducia nelle possibilità del paese, rivelatasi attraverso il suo impegno per liberalizzare e integrare l’Italia nel contesto occidentale, a un profondo scetticismo che lo spinse a proporre e ad accettare vincoli esterni politici ed economici, collocati prima a livello internazionale ed europeo dopo.
Se negli anni Sessanta aveva nutrito fiducia nelle possibilità di guida delle sorti del paese da parte della politica nazionale e in certa misura aveva assecondato le spinte verso un suo crescente intervento nell’economia, dopo l’autunno caldo e la crisi petrolifera ritornò alle idee liberal-liberiste fino a imporre crescenti vincoli esterni, affidando la politica monetaria a un’autorità sovranazionale – il sistema delle banche centrali europee – e limitando l’azione della politica fiscale condotta in disavanzo; anche se, da grande esperto di problemi monetari internazionali, era conscio che la guida dello sviluppo restava nelle mani degli Stati Uniti e della politica monetaria condotta dalla Federal Reserve di cui era attento osservatore.
Nel contempo, consapevole dei gravi problemi sociali esistenti in Italia, guardò sempre positivamente al tentativo di creare una rete di welfare, ma prese atto degli effetti negativi della sua realizzazione sul bilancio pubblico – col restringere gli spazi degli investimenti privati e con l'alimentare gli abusi e le inefficienze – e intuì per tempo le conseguenze di queste distorsioni.
Oltre che statista, Carli fu un maestro che non lesinò tempo e risorse per i suoi allievi. L’'aula delle lezioni' alla Banca d’Italia era quella dove si riunivano le massime cariche dell’istituzione con i giovani del Servizio studi scelti indipendentemente dal grado e sulla base delle capacità; in quella sede venivano discusse le decisioni da prendere per governare la stabilità della moneta e lo sviluppo dell’economia. La formazione di nuovi gruppi dirigenti fu un obiettivo parimenti importante rispetto agli altri da lui perseguiti, un vero e proprio impegno sociale. Citando il comportamento delle grandi famiglie del Rinascimento italiano che assegnavano ai figli compiti di gestione del patrimonio, di guida delle armate o degli altri centri di potere, inclusa la Chiesa cattolica, lamentava che la grande borghesia industriale del Nord disdegnasse di inviare i propri figli nella pubblica amministrazione lasciando spazio alla presenza della piccola borghesia, soprattutto meridionale; non perché ritenesse questa inadatta ad assolvere il compito di gestire lo Stato, ma perché giudicava che portasse inevitabilmente nell’amministrazione una cultura vocata alla speculazione teorica e scarsa attitudine all’intrapresa industriale e, non di rado, il carico delle sue rivendicazioni storiche unito talvolta all’acrimonia nei confronti dei 'padroni' che avevano sfruttato i suoi avi.
La principale fonte è la ricerca condotta dall’Associazione Guido Carli sotto la guida scientifica di P. Savona che ha prodotto sette lavori, di cui sei già pubblicati per i tipi della Bollati Boringhieri (Torino, 2008-09) nella Collana «La figura e l’opera di Guido Carli»: 1: Guido Carli dalla formazione a servitore dello Stato, a cura di P. Barucci; 2: Guido Carli e le istituzioni economiche internazionali, a cura di G. Di Taranto; 3: Guido Carli governatore della Banca d'Italia, 1960-1975, a cura di P. Ciocca; 4: Guido Carli presidente di Confindustria, 1976-1980, a cura di P. Savona; 5: Guido Carli senatore e ministro del Tesoro, 1983-1992, a cura di P. Craveri; 6: Riflessioni sul governatorato Carli (Tomo I), a cura di G. Guarino; 7: Testimonianze (Tomo II), a cura di F. Carli (in corso di pubblicazione). È stata inoltra curata una bibliografia degli scritti di Guido Carli e una vasta documentazione fotografica rinvenibile nel sito www.operacarli.it.
La raccolta delle Considerazioni finali presentate da Carli all’Assemblea dei Partecipanti della Banca d’Italia dal 1960 al 1974 sono state pubblicate a cura di P. Savona sotto il titolo Considerazioni finali della Banca d’Italia (Roma 2011).
Carli ha lasciato le sue memorie in uno scritto curato da P. Peluffo in Cinquant’anni di vita italiana (Roma-Bari 1993). Vanno inoltre menzionate Intervista sul capitalismo italiano rilasciata a E. Scalfari (Roma-Bari 1977), Le due anime di Faust, a cura di P. Peluffo (Roma-Bari 1995) e Pensieri di un ex governatore, curate da Carli stesso (Pordenone, 1995). L’esperienza del gruppo di ricercatori che hanno dato vita al primo modello econometrico dell’economia italiana, è ricostruita in Dialogo tra un professore e la Banca d’Italia. Modigliani, Carli e Baffi, a cura di G.M. Rey - P. Peluffo (Firenze 1995) attraverso i colloqui avvenuti nel corso di tre giornate tra l’ottobre 1967 e il gennaio 1968 tra i tre per la messa a punto dello schema di riferimento del modello. Per la sua interpretazione dei difetti di funzionamento del sistema monetario internazionale, oltre alle analisi nelle Considerazioni finali, si veda anche il citato saggio L’eurodollaro: una piramide di carta?, in Moneta e credito, marzo 1971, ristampato in G. Carli, Scritti di economia internazionale (numero speciale di Moneta e credito, Roma 1993). Sul tema specifico della riforma del sistema bancario in funzione dello stato dell’economia produttiva italiana si veda la raccolta di saggi curata da Carli con la collaborazione di P. Savona, contenente scritti di P. Ciocca, E. Croce, A. Di Majo, M. Eller Vainicher, F.M. Frasca, M. Roccas, M. Tivegna e R. Valcamonici pubblicata sotto il titolo Sviluppo economico e strutture finanziarie in Italia (Bologna 1977). Per l’analisi delle scelte da presidente della Confindustria si rinvia alle quattro Relazioni rese all’Assemblea annuale dell’organizzazione (Roma, dal 1976 al 1980), unitamente al suo discorso di Portofino Vetta sui vincoli all’operare delle imprese, più noto come discorso sui Lacci e laccioli (in Rivista di politica economica, 1978, n. 3, sotto il titolo di Introduzione ai lavori all’incontro di studio organizzato dalla Confindustria a Portofino Vetta, il 28-29 ottobre 1977, rist. con Postfazione di P. Savona, Roma 2003). Sul pensiero del suo maestro: A. Magliulo, Marco Fanno e la cultura economica italiana del Novecento, Firenze 1998. Al padre Filippo Carli è dedicata la voce di S. Lanaro, in Dizionario biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 152-161. Le principali critiche rivolte alla politica monetaria di Carli sono state pubblicate da A. Graziani, Tre obiettivi, tre cannoni, in Nord e Sud, XII (1965), 68, pp. 6-23; B. Andreatta, Cronaca di un’economia bloccata, 1963-70, Bologna 1972, e F. Spinelli - M. Fratianni, Storia monetaria d’Italia. Lira e politica monetaria dall’Unità all’Unione europea, Milano 1991 (più volte ristampato), ad ind. Non privo d'interesse lo scambio di opinioni con Claudio Napoleoni sul quotidiano La Repubblica nel corso dei primi anni di presidenza confindustriale (1976-78). La periodizzazione dello sviluppo economico italiano postbellico di cui si fa menzione nel testo è in A. Graziani, L’economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna 1979, riedita con integrazioni sotto il titolo Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Torino 1998.
Si vedano: P. Craveri, G. C., presidente della Confindustria, in Industria e cultura, 2002, n. 1, pp. 127-137 (anche in Id., La democrazia incompiuta. Figure del ’900 italiano, Venezia 2002, pp. 281-295) e P. Savona, Carli in Confindustria: una testimonianza, in Carli e lo statuto dell’impresa. Un commento, in Industria e cultura, 2002, n. 2, pp. 247-256, e presentazione dell’inedito New features of the inflationary process di Carli, pubblicato da LUISS University Press/Associazione Guido Carli, Roma. Il contributo di Carli alla preparazione e alle privatizzazioni degli anni Novanta è stato analizzato in una raccolta di saggi curata da F.A. Grassini, G. C. e le privatizzazioni dieci anni dopo, Roma 2002.