GUIDI DI BAGNO, Giovanni Francesco
Nacque il 4 ott. 1578, a Firenze o a Rimini, primogenito di Fabrizio marchese di Montebello e Laura Colonna dei duchi di Zagarolo. La famiglia apparteneva all'antica nobiltà toscana ed era per tradizione di parte imperiale. Aveva importanti possedimenti anche in Emilia e in Romagna, tra cui i castelli di Gatteo e Montescudo presso Rimini. Il padre e il nonno del G. erano stati al servizio del duca Cosimo I de' Medici; il padre era stato cavaliere dell'Ordine di S. Stefano. Il G. ricevette un'eccellente educazione umanistica e si preparò alla carriera curiale studiando lettere e filosofia a Firenze e a Pisa, diritto a Pisa e a Bologna; a Bologna conseguì la laurea in utroque iure.
Nel 1596 ricevette la commenda dell'abbazia di S. Maria di Mater Domini presso Salerno. L'ingresso in Curia fu facilitato dalla parentela con i cardinali Marcantonio e Ascanio Colonna, che gli consentì di ricevere, nel 1597, l'ufficio di protonotaro apostolico; nel 1600 fu accolto tra i referendari utriusque signaturae. Già nel 1598 fece parte del seguito del papa, quando Clemente VIII visitò Ferrara subito dopo la devoluzione allo Stato della Chiesa. Nell'ottobre 1600 fu nella delegazione guidata da Pietro Aldobrandini che si recò a Firenze in occasione dei solenni festeggiamenti per il matrimonio per procuratorem di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia. A partire dal 1601 ricoprì diversi uffici nell'amministrazione dello Stato della Chiesa. Fu poi vicelegato nelle Marche in rappresentanza del cardinale Ottavio Bandini, dal 1603 al 1606 vicegovernatore a Fermo per Pietro Aldobrandini. Nel 1606 ricoprì lo stesso ufficio durante alcuni mesi per Scipione Borghese Caffarelli, nel 1607 ottenne il governo di Orvieto e nel 1608 di Fano. Nel 1610-11 fu di nuovo vicegovernatore a Fermo e nel 1611, infine, governatore di Campagna e Marittima.
Con la nomina a vicelegato di Avignone nel 1614, il G. passò a un ufficio che aveva procurato ai suoi predecessori il cardinalato; per ora la nuova dignità coincise con l'elevazione ad arcivescovo titolare di Patrasso, il 3 marzo dello stesso anno. Passando per Pisa, dove alla fine di aprile condusse trattative con il granduca Cosimo II, il G. giunse a Marsiglia il 18 maggio. Per i sette anni successivi resse l'amministrazione secolare dell'enclave papale in territorio francese.
I suoi compiti riguardavano, più o meno come nello Stato della Chiesa, le finanze e la giustizia, ma richiedevano anche capacità diplomatiche nei rapporti con i feudatari francesi confinanti. In tutti i campi il G. si guadagnò la fama di funzionario papale efficiente e benevolo; inoltre, il periodo trascorso ad Avignone fu importante per la sua futura carriera perché gli diede occasione di fare esperienza dello stile di vita e della cultura francese. Strinse contatti con letterati, artisti ed eruditi, con i quali avrebbe intrattenuto in seguito una vivace corrispondenza. Dal maggio 1618 al marzo 1619 ad Avignone visse in esilio Richelieu, il quale, al momento di rientrare in Francia, promise al G. che si sarebbe ricordato dell'amicizia che gli aveva dimostrato.
Dopo l'elezione del nuovo pontefice, Gregorio XV, nella primavera 1621 l'incarico del G. ebbe termine. Da parte francese già allora fu caldeggiata la sua nomina a nunzio a Parigi, ma il G. si preparò a ritornare a Roma, dopo che il 2 aprile fu informato della nomina del suo successore. A sorpresa arrivò poi la comunicazione della sua designazione alla nunziatura nelle Fiandre e l'ordine di recarsi subito nella nuova sede. Il G. attese l'arrivo del nuovo vicelegato ad Avignone, e a Carpentras lo informò sugli affari correnti. Poi si recò a Lione, dove il 7 giugno si incontrò con il suo predecessore nella nunziatura a Bruxelles, Lucio Sanseverino, che ritornava a Roma. Il viaggio verso le Fiandre fu disgraziato, perché bagagli di valore- spediti dal nunzio uscente verso un porto del Mediterraneo e poi rimandati indietro - caddero nelle mani di soldati ugonotti. Il G. stimò i danni subiti a 15.000 scudi.
Per il resto del viaggio il G. fu costretto a un'ampia deviazione, perché aveva l'incarico di porgere al re di Francia i saluti di Gregorio XV; Luigi XIII era però impegnato in una campagna militare nella zona di La Rochelle e concesse al G. una breve udienza a Brissembourg il 29 giugno e una seconda il giorno dopo a Cognac. Il viaggio portò il G. a Parigi, dove si concesse qualche giorno per visitare collezioni d'arte e biblioteche, e quindi a Bruxelles, dove arrivò il 20 luglio.
L'ingresso nella nunziatura dei Paesi Bassi spagnoli avveniva subito dopo la morte dell'arciduca Alberto d'Asburgo. Il nuovo nunzio riuscì a instaurare buone relazioni personali con la governatrice Isabella Clara d'Asburgo e con Ambrogio Spinola, comandante militare e primo ministro di Isabella. Con l'ambasciatore spagnolo Alonso de la Cueva marchese di Bedmar, cardinale dall'autunno 1622, strinse pure un'amicizia che durò per tutta la vita. Ciò è abbastanza singolare, perché la politica pontificia si opponeva allora agli interessi spagnoli in due importanti questioni. A proposito del Palatinato, Gregorio XV sosteneva le rivendicazioni della Baviera e riguardo ai rapporti con gli Stati generali delle Province Unite era favorevole a una soluzione militare. Il G. non riuscì in verità a influenzare la reggente e il suo governo in questa direzione. Dopo l'elezione al soglio pontificio di Urbano VIII, nel 1623-24 intercorsero prudenti tentativi a opera del G. di stabilire contatti tra Giacomo I d'Inghilterra e il papa.
Con la creazione della congregazione De Propaganda Fide nel 1622, i compiti delle nunziature furono estesi anche oltre la cura delle relazioni politiche con lo Stato ospitante. Il G. divenne pertanto responsabile pure dell'opera missionaria nelle zone protestanti delle Province Unite, in Inghilterra, Scozia, Irlanda, Norvegia, Islanda, Danimarca, Holstein e in altre regioni della Germania settentrionale, nonché dell'assistenza ai cattolici rimasti in questi paesi. Sostenne gli sforzi della nuova congregazione, dato che fece stampare e distribuire ai vescovi e ai superiori degli ordini religiosi nelle regioni di sua competenza la bolla di istituzione ed esortò a collaborare. Inviò inoltre in Germania settentrionale e in Danimarca due domenicani per relazionare sullo stato della Chiesa in quelle zone. In Olanda e Inghilterra, dove, oltre alla generale oppressione subita dai cattolici, la situazione era aggravata da contenziosi tra chierici regolari e secolari, il G. si sforzò di ricomporre i dissensi.
Il periodo trascorso a Bruxelles fu interrotto da un soggiorno di sette mesi in Francia nel 1625. Di sua iniziativa il G. si unì al giovane legato pontificio Francesco Barberini, il quale aveva il difficile compito di negoziare una soluzione del conflitto per la Valtellina che si trascinava da anni e aveva conosciuto una nuova recrudescenza, quando nel novembre 1624 truppe francesi, su ordine di Richelieu, avevano occupato le fortezze tenute da guarnigioni pontificie. Con questo colpo di mano non solo si rinnovava il pericolo di un nuovo scontro diretto tra Francia e Spagna in Italia, ma veniva pure pesantemente vulnerata l'autorità del papa. Le trattative condotte a Parigi e a Fontainebleau si conclusero con un insuccesso, ma furono determinanti per la successiva carriera del G., perché egli si dimostrò un abile diplomatico e riscosse la stima e la simpatia di Richelieu e di Luigi XIII più di altri rappresentanti pontifici.
I suoi orientamenti politici mostrano in questa fase ancora l'influenza del cardinale de la Cueva. Dopo il fallimento della missione di Barberini, egli elaborò un piano che prevedeva il tentativo pontificio di riconquistare la Valtellina con la forza. Per tutelare la posizione super partes del pontefice, secondo il G. bisognava rinunciare all'aiuto imperiale o spagnolo; se invece la Lega cattolica, sotto la guida di Massimiliano I di Baviera, fosse intervenuta, la neutralità del papa non sarebbe stata compromessa. Furono intavolate trattative intorno a questo progetto, ma pare che alla fine fu lo stesso Urbano VIII a considerarlo troppo rischioso.
Il G. ritornò a Bruxelles con la promessa che da allora in poi avrebbe ricevuto incarichi di prestigio. Già nel gennaio 1626 inviò a Roma il rendiconto della sua nunziatura nelle Fiandre, che doveva servire come base per le istruzioni del suo successore. In giugno il papa fece sapere alla corte francese che era prevista la nomina del G. alla nunziatura di Parigi; per la conclusione delle trattative in corso sarebbe rimasto però in carica il nunzio attuale, Bernardino Spada. Trascorsero così alcuni mesi prima che il G. entrasse effettivamente nel nuovo ufficio. Dopo un incontro preliminare con Spada, il suo ingresso a Parigi ebbe luogo con gran pompa il 12 apr. 1627. Come i suoi predecessori, il G. installò la sua residenza nell'hôtel de Cluny. Spada rinviò la sua partenza ancora di un mese per informarlo a fondo sui suoi nuovi compiti. Le dettagliate istruzioni per il nuovo nunzio giunsero da Roma solo in maggio. Degno di nota è che vi era allegato un documento a parte, nel quale veniva consigliato al G. di continuare ad attenersi, nei limiti del possibile, alle consuetudini francesi e di ribadire la concordanza degli interessi pontifici e francesi nelle questioni ecclesiastiche così come pure nei principî della politica europea. Poco dopo l'ingresso nel costoso ufficio a Parigi, per far fronte alle spese il G. ricevette dal papa il vescovato di Cervia e l'abbazia di S. Maria di Pantano, nella diocesi di Todi.
Nel primo anno della nunziatura il G. dovette affrontare una situazione del tutto inattesa, perché Luigi XIII si ammalò in maniera così grave che si prospettò l'ipotesi della sua morte e dell'ascesa al potere del fratello Gastone. Dato che il destino politico di Richelieu in questa contingenza divenne incerto, sembrò necessario prepararsi a collaborare con altri partiti della corte. Ulteriori complicazioni si produssero dopo che la crisi fu superata. Le vicende della politica francese all'interno e all'estero richiesero spesso al G. lunghi e faticosi viaggi al seguito della corte. Nel 1628 era presente con il re al lungo assedio di La Rochelle e l'anno dopo seguì la spedizione che portò a Susa, in Piemonte, e poi contro le piazzeforti ugonotte nel Sud e nel Sudovest della Francia. Nel 1630 seguì di nuovo la spedizione in Savoia cosicché, dei tre anni e nove mesi da quando era divenuto nunzio, il G. ne aveva trascorsi a Parigi meno che la metà. La possibilità di condurre senza troppi intervalli trattative con il re e con i principali ministri sui temi urgenti del momento fu seriamente compromessa da questi frequenti spostamenti.
Dati gli eventi bellici che travagliavano l'Europa, le relazioni del G. dalla Francia trattano soprattutto le vicende delle spedizioni contro gli ugonotti e della guerra per la successione del Ducato di Mantova. Lasciano però intravedere, al di là dell'impegno diplomatico, la capacità del G. di intrattenere con intelligenza e amabilità buone relazioni con personalità della cerchia della corte, con gli altri diplomatici e soprattutto con Richelieu. Ciò significò un grosso vantaggio, perché il papa, nonostante un atteggiamento fondamentalmente favorevole, in molte occasioni si oppose alle richieste del ministro di Luigi XIII. Urbano VIII giudicava favorevolmente l'alleanza franco-spagnola per l'attacco contro l'Inghilterra, ma non vi aderì e non fornì neppure appoggio finanziario. Neanche dopo la rottura dell'alleanza da parte della Francia volle stringere un patto formale e appoggiare apertamente i piani di guerra contro la Spagna. Allo stesso modo, non prese parte alla guerra per la successione del Mantovano e i suoi preparativi militari erano tesi esclusivamente alla difesa dello Stato della Chiesa. Inoltre, la questione della Valtellina, nonostante la pace di Monzon e un accordo per la soluzione del conflitto raggiunto a Roma, si propose di nuovo come materia di contenzioso, perché la Francia era poco interessata alla protezione degli abitanti cattolici della regione. Il G. non poteva naturalmente sostenere neppure i progetti di Richelieu di istituire un patriarcato particolare per la Francia o di ottenere la creazione per se stesso della carica di legato permanente per l'intera Chiesa francese. D'altra parte la linea politica pontificia si sforzò di non opporre una seria resistenza agli interessi francesi in politica estera. Accettò il trattato di pace anglo-francese ratificato il 16 sett. 1629, sebbene nel testo gli interessi cattolici non fossero tutelati con impegni formali e non obiettò alle alleanze con paesi protestanti per la guerra contro la Spagna e l'Impero. Quando, alla fine del 1629, il G. informò la Curia dell'alleanza con Gustavo II Adolfo di Svezia, si limitò a sottolineare che egli aveva raccomandato a Luigi XIII di fare attenzione che non venissero attaccati i principi tedeschi della Lega cattolica.
Quando ci furono da soddisfare richieste personali di Richelieu, il G. si adoperò come zelante mediatore. Ottenne da Roma la convalida della contrastata elezione del cardinale a coadiutore dell'abate di Cluny e intervenne a favore dell'elevazione del fratello del Richelieu, Alfonso, alla porpora. Non alimentò neppure dubbi sulla sua disponibilità ad appoggiare gli obiettivi politici francesi. Nella guerra per la successione del Mantovano si schierò senza riserve dalla parte di Carlo I Gonzaga Nevers e lo incoraggiò sin dall'inizio a intraprendere la soluzione militare, in maniera più decisa di Urbano VIII, il quale avrebbe voluto evitare la guerra in Italia. Il G. riconosceva diritti legittimi solo al partito francese e considerava la Spagna e l'Impero come aggressori.
L'orientamento del G. favorevole alla politica francese si spinse molto avanti quando, dall'autunno 1628, egli condusse le trattative segrete che portarono all'alleanza tra la Francia e il principe elettore Massimiliano I di Baviera, sottoscritta a Fontainebleau il 30 maggio 1631.
Dal punto di vista bavarese, l'alleanza avrebbe dovuto garantire la dignità elettorale recentemente conseguita, portare a una maggiore libertà di movimento contro l'imperatore e il suo potente generalissimo A. Wallenstein, offrire protezione da attacchi da parte protestante. L'interesse francese era invece rivolto interamente alla guerra contro gli Stati degli Asburgo, per la quale si voleva garantire la neutralità dell'armata della Lega cattolica. Dal punto di vista papale, infine, l'alleanza sembrò un mezzo per costringere l'armata imperiale a ritirarsi dalla guerra per il Mantovano; inoltre avrebbe consentito alla Francia, rafforzata dalla potenza dei principi cattolici dell'Impero, di abbandonare le alleanze con gli Stati protestanti. Massimiliano, in verità, non si fece coinvolgere nei progetti militari aggressivi dei Francesi, cosicché le trattative si trascinarono stancamente. Neanche prese in considerazione la proposta di porre la sua candidatura all'Impero al posto del figlio di Ferdinando II. Solo dopo la fine della nunziatura del G., sotto la pressione dell'avanzata svedese, si decise a stringere l'alleanza.
Gli effetti pratici del patto si rivelarono modesti, dato che la Francia non si oppose alla conquista della Baviera da parte degli Svedesi. Le conseguenze furono però considerevoli, perché diede motivo per una duratura profonda diffidenza tra la corte imperiale e quella di Baviera. Ma anche il prestigio personale del G. ricevette un duro colpo, quando si seppe che egli aveva messo la sua opera di mediatore a disposizione di Richelieu in maniera così aperta da apparire agli occhi della controparte piuttosto una complicità. Roma contestò energicamente l'accusa che egli avesse agito su incarico del papa, purtuttavia anche la credibilità di Urbano VIII come padre comune degli Stati cattolici era stata compromessa. L'accenno al ruolo svolto dal G. nelle trattative per l'alleanza franco-bavarese divenne uno degli argomenti periodici per i dubbi sull'imparzialità del papa, che negli anni successivi compromisero seriamente i suoi sforzi per la pace.
Già il 30 ag. 1627 Urbano VIII aveva creato il G. cardinale in pectore; nel concistoro del 19 nov. 1629 rese pubblica la nomina. Alla corte di Parigi ma anche nella patria del G. la dignità fu festeggiata in grande stile. Fino all'avvicendamento del nuovo nunzio trascorse però, a causa della guerra, ancora oltre un anno. Dalla metà di marzo il G. fu in viaggio al seguito del re e arrivò fino nell'Italia del Nord. L'anno precedente era stato tra i mediatori che si erano adoperati per conservare l'indipendenza della Repubblica di Genova minacciata dal Ducato di Savoia; ora ebbe una parte importante accanto a Giulio Mazzarino nelle trattative che nel settembre 1630 portarono alla tregua di Rivalto. Contemporaneamente, fu in costante corrispondenza con i partecipanti alla Dieta di Ratisbona - soprattutto l'elettore della Baviera e i suoi consiglieri, ma anche con il nunzio presso l'imperatore - e influenzò le trattative che si tennero in quella sede. Solo il 7 novembre fu di ritorno a Parigi, dove tre settimane dopo arrivò il suo successore, Alessandro Bichi, che doveva ancora essere introdotto negli affari della nunziatura. Il 15 dicembre il G. fu ricevuto da Luigi XIII in udienza di congedo, ma ebbe ancora occasione di esercitare il suo ruolo di mediatore allorché riuscì a ricomporre, sia pure per breve tempo, i dissensi sorti all'interno della famiglia reale e l'aspro conflitto che contrappose Richelieu alla regina madre.
Nel gennaio 1631 fece ancora una visita a Bruxelles; tornò a Parigi e di lì l'11 febbraio partì alla volta di Lione. Si fermò ad Avignone e consigliò il vicelegato Mario Filonardi su come comportarsi nel caso Gastone d'Orléans, che era in fuga dopo una ribellione contro il fratello, avesse chiesto asilo.
Il 21 marzo 1631 il G. lasciò la Francia da Tolone a bordo di una galera reale e dieci giorni dopo approdò a Santa Severa, nello Stato pontificio. Il suo ingresso ufficiale a Roma, in forma un po' ridotta a causa della peste, ebbe luogo il 24 aprile. Seguirono gli altri atti del cerimoniale di consegna del cappello scarlatto e dell'anello cardinalizio. Il G. si trattenne quindi a Roma per più di un anno, dove aveva affittato un palazzo in piazza Scossacavalli. Divenne membro del S. Uffizio e fu presente al concistoro dell'8 marzo 1632, quando il cardinale Gaspare Borgia con un energico intervento sollecitò Urbano VIII a sostenere l'imperatore nella guerra contro la Svezia. Nel giugno 1632 si recò nel suo vescovato di Cervia, non lontano dai possedimenti di famiglia in Romagna, che fino ad allora aveva diretto solo per via epistolare attraverso un vicario generale e tuttavia con un interesse premuroso. L'11 maggio 1634 presiedette un sinodo diocesano. Il suo soggiorno preferito in questi anni fu il castello di Giaggiolo.
Nel gennaio 1635 lasciò la Romagna e trascorse sei mesi a Roma, dove divenne membro della congregazione di Stato, il più importante organo della Curia per la trattazione delle questioni politiche. Rinunciò al vescovato di Cervia, sul quale si riservò però una rendita, e il 16 apr. 1635 ricevette il vescovato di Rieti, che offriva il vantaggio di distare solo un giorno di viaggio da Roma. Diresse anche la nuova diocesi con saggezza e fece rinnovare in stile barocco la residenza vescovile e la cattedrale. Spesso soggiornava a Roma per prendere parte al lavoro degli organismi curiali. Nel febbraio 1639 rinunciò definitivamente al vescovato e si dedicò esclusivamente a questi impegni.
Già la breve permanenza a Bruxelles nel gennaio 1631 aveva avuto lo scopo di introdurre trattative, che avrebbero portato alla distensione nelle relazioni tra Francia e Spagna. Dopo il ritorno a Roma il G. continuò a lavorare in questo ambito, e in questioni di politica europea consigliò in particolar modo il cardinal nipote Francesco Barberini, al quale lo unì uno stretto rapporto di fiducia. Si sforzò di stimolare la politica pontificia a un maggiore attivismo per ottenere un compromesso pacifico tra gli Stati cattolici, confidando più nel successo dei contatti segreti di mediatori il più possibile indipendenti che da trattative ufficiali. L'invio nel 1632 di tre nunzi speciali alle corti di Parigi, Madrid e Vienna non corrispose alle sue vedute. Pertanto resta incerto se siano state redatte da lui le istruzioni di marcato orientamento antiasburgico per il nunzio Francesco Adriano Ceva in partenza per la Francia. Fu lui invece nel 1634 a suggerire a Barberini di inviare padre Alessandro d'Ales alla corte cesarea. Istruì personalmente il cappuccino prima dell'inizio della missione e rimase in costante corrispondenza con lui e con Barberini. Alessandro riuscì a consolidare la disponibilità alla pace di Ferdinando II e inoltre a ottenere da lui che facesse pressioni sulla Spagna per il congresso che il papa stava promuovendo. Non ottenne invece alcuna comprensione a Vienna sul fatto che a Roma, dopo gli eventi militari degli ultimi anni, si continuasse a dare per scontato che la Francia non perseguisse obiettivi militari offensivi e che ci si aspettasse un atteggiamento congruo da parte imperiale.
Interamente nelle mani del G. fu la politica della Curia verso l'Inghilterra. Egli conosceva i problemi politici ed ecclesiastici dei cattolici inglesi dai tempi della nunziatura a Bruxelles e a Roma riprese il progetto di instaurare relazioni diplomatiche tra Roma e Londra. Quando nel 1634 Gregorio Panzani ricevette l'incarico di emissario pontificio - ufficialmente presso la regina Enrichetta Maria -, ebbe le necessarie istruzioni dal Guidi.
Molti contemporanei erano convinti che il G. avesse tutte le doti per essere un degno successore di Urbano VIII. Quando questi, nel 1637, si ammalò gravemente, Richelieu fece proporre il G. come candidato ufficiale della Francia. Senza dubbio egli era apprezzato e considerato in numerosi ambienti; aveva la capacità di comportarsi in maniera indipendente in situazioni conflittuali e di intrattenere relazioni amichevoli anche con personalità di diverso indirizzo politico. Proprio a causa dell'aperto sostegno di Richelieu e perché la sua parzialità nella trattativa per l'alleanza franco-bavarese non era stata dimenticata, è probabile che il partito asburgico si oppose alla sua candidatura, anche se non si hanno testimonianze precise a proposito.
Il 25 luglio 1641 il G., che dal suo ritorno da Parigi soffriva di gotta, morì a Roma e fu sepolto dapprima vicino al suo palazzo, in S. Maria in Traspontina, poi nella cappella da lui stesso eretta nella sua chiesa titolare di S. Alessio sull'Aventino.
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