Vedi GRAVISCA dell'anno: 1973 - 1994
GRAVISCA (Gravisca, Graviscae)
Antico porto di Tarquinia, a circa 7 km dal sito della città etrusca e romana, nel luogo dell'abitato medievale e moderno di Porto Clementino.
Della città antica possediamo notizie assai scarse: la prima menzione occorre nel 181 a. C., in occasione della deduzione, nel territorio tolto a Tarquinia nel III sec. a. C., di una colonia civium Romanorum sotto la guida dei tresviri C. Calpurnio Pisone, P. Claudio Pulcro e C. Terenzio Istra (Liv., xl, 29, 1-2; Vell. Pat., i, 15, 4; C.I.L., ii, p. 200, Inser. It., xiii, 3, n. 70). Successivamente abbiamo il ricordo di un prodigio (176 a. C.: Liv., xli, 16, 6), mentre la notizia di una nuova deduzione di coloni sotto Augusto (Lib. Col., 220) è stata dai più giudicata sospetta; tuttavia ancora in età adrianea sappiamo godeva dello statuto di colonia (Dig., xxxi, 30). Le altre notizie non sono più che menzioni fuggevoli: Virgilio (Aen., x, 184) e Silio Italico (vii, 475) la includono nei Cataloghi dei loro poemi con generiche aggettivazioni, non dissimili per valore dalle menzioni dei geografi (Strabo, v, 2, 8; Plin., Nat. hist., iii, 51; Ptolem., iii, 1, 4; Mela, ii, 72; It. Mar., 498 s.; Tab. Peut.; Geogr. Rav., iv, 32 e v, 2). Il clima insalubre già ai tempi della deduzione della colonia (Cat., fr. 46 Peter; cfr. Verg., Aen., cit.) aveva ridotto la città ad un πολίχνιον (Strabo, loc. cit.) ai tempi del primo impero; il passaggio delle orde visigotiche nel 408 la distrussero quasi del tutto, giacché nel 416 (o 417) Rutilio Namaziano (i, 281 ss.) non ne vide che rara fastigia fra la desolazione malarica. Tuttavia, almeno nel I sec. d. C., la cittadina doveva ancora avere una certa importanza sul piano agricolo e industriale, se Plinio ne ricorda l'ottimo corallo rosso e il vino di discreta qualità (Nat. hist., xxxii, 21; xiv, 67). Dalle iscrizioni apprendiamo poi che la tribù della città era la stessa di Tarquinia, la Stellatina (C.I.L., vi, 2928; cfr. però vi, 32526: Claudia o Clustumina), che a G. esisteva un collegium di liberti, forse Augustali (C.I.L., xi, 3378) e che vi erano praticati culti egizî (v. oltre); l'ultima menzione di G. è la presenza di un vescovo della città al sinodo romano del 504 sotto papa Simmaco.
Il sito della città, rimasto per secoli incerto a causa della contraddittorietà delle fonti geografiche e della scarsezza di resti archeologici visibili, è stato solo di recente accertato dalle indagini aerofotografiche (Schmiedt, Quilici) e da vasti scavi intrapresi (1969) a seguito di gravi manomissioni dovute alla speculazione edilizia. L'abitato antico sorge sul promontorio occupato in età medievale e moderna dal porto di Corneto, detto Clementino da papa Clemente XIII che nel '700 lo volle restaurato e riattivato; del porto romano era nel secolo scorso visibile un poderoso molo, sommerso dalla progressione marina, largo un metro e mezzo, a forma di semicerchio di raggio di circa 700 m, in muratura cementizia su fondazioni di blocchi calcarei. L'estensione della città è ancora non del tutto chiarita: dai recenti scavi si è potuto arguire che l'abitato etrusco dei secoli VI-III a. C. aveva un'ampiezza molto maggiore della colonia romana ad esso succeduta, coprendo una superficie di almeno 500 m di lunghezza e almeno 300 m di larghezza contro uno sviluppo di circa m 300 × 250 della colonia. Inoltre appare accertato che la città etrusca, dalla pianta urbanisticamente non del tutto regolare, aveva assi stradali non sempre coincidenti con quelli dell'abitato romano: di quest'ultimo sono state rilevate e parzialmente scavate quattro sedi stradali, tre delle quali parallele fra loro e in coincidenza con gli andamenti delle insulae (NE-SO) già rilevati dalle fotografie aeree, e una quarta non ortogonale con le altre, forse ricalcante un antico accesso al porto da oriente, parallela alla linea di costa d'epoca etrusca.
Della città etrusca sono stati esplorati solo piccoli tratti sotto le strutture romane, mentre una larga estensione se ne è messa in luce a S-E della colonia, ove non si è avuta sovrapposizione tra insediamento etrusco e città romana. I saggi in profondità all'interno della città romana hanno rivelato un'imponente platea in opera quadrata, forse del IV sec. a. C., di incerta destinazione (piazza, sostruzione, edificio monumentale) e resti di abitazioni del IV sec. a. C. sovrapposte a strutture del V e del VI sec. a. C., in muratura a secco con grossi blocchi nei punti di giuntura; molto importante è anche la scoperta di una strada battuta in tritume di calcare con imboccatura di fogne a forma di profondi imbuti tronco-conici, tecnica struttiva questa usata anche nelle strade di età repubblicana e imperiale. Da questi saggi provengono interessanti materiali di epoca arcaica, fra i quali un nuovissimo tipo di sima laterale di impasto rosso con fregio a bocciuoli e fiori di loto sovraddipinti in bianco e nero, di schietta imitazione greca (550 a. C.). Molto più fruttuosi gli scavi estensivi dell'abitato etrusco non invaso da strutture romane. Qui si è scoperto un santuario greco dedicato a Hera, documentante una presenza massiccia e costante di elementi ellenici, quasi esclusivamente ionici, a partire dal 580 a. C. fino alla prima metà del III sec. a. C., epoca di abbandono della zona, presumibilmente per la conquista romana. Il santuario consta per ora (1970) di un recinto adiacente ad una grande strada battuta, di forma rettangolare irregolare, costruito con tecnica analoga a quella riscontrata per le comuni abitazioni di G. rinvenute sotto le strutture romane. Dalla strada si accede ad un cortile (m 11 × 10), in cui sono collocati un pozzo e due altari, uno dei quali perfettamente orientato ad E e l'altro invece in diretta relazione con due vani rettangolari allungati, aperti sul lato S dei cortile; questi ultimi, di misure quasi uguali (m 9,50-9,65 × 3,75-3,25), vanno interpretati come le celle o naòi del culto, mentre i due ambienti sul lato O, uno rozzamente eseguito e costruito usurpando parte dell'area precedentemente adibita a cortile, l'altro di forma trapezoidale e munito di un proprio canaletto di scolo, sono da considerare stanze di servizio, rispettivamente, si può pensare, la stanza dell'edituo e un piccolo thesauròs. Attiguo al cortile e ad uno dei due naòi, ma non comunicante con essi (si apre infatti su di un vicolo posteriore al santuario), è infine un secondo, vasto cortile (m 11 × 5,90), in fondo al quale si è scoperta una cassettina di tegole in cui erano deposte un'olla e un'anfora contenenti resti di un sacrificio, forse quello inaugurale. Il santuario è dunque di modesto aspetto e di non grandi proporzioni, privo di terrecotte architettoniche e di fastose decorazioni: solo un altare, una basetta di un donano nel cortile e una base rotonda entro una delle due celle (base di colonna o di statua di culto, forse) sono elaborati architettonicamente, mentre la pavimentazione del cortile e degli ambienti è realizzata in terra battuta o con tegole. Il santuario nel suo aspetto attuale sembra un rifacimento del IV sec. a. C., ma il culto, come apprendiamo dalla ricca stipe contenente ceramiche corinzie, attiche e ioniche (alcune delle quali recano graffite le dediche a Hera), balsamarî greco-orientali, lucerne attiche e ioniche, oltre a una lucerna nuragica a navicella, risale almeno al 580 a. C.; nella stessa stipe sono deposte anche alcune pietre a mo' di ἀργοὶ λίϑοι, oltre a piccoli frammenti di terre (ocre) o di impasti, minerali notoriamente impiegati come materie coloranti anche nelle tombe della vicina Tarquinia. Appoggiato all'esterno del muro perimetrale del santuario era un singolare monumento (rinvenuto riadoperato e segato a coprire un canaletto di scolo), da identificare come simulacro betilico di Apollo Agyèus, con un'iscrizione in alfabeto e lingua di Egina contenente una dedica di un tal Sostrato ad Apollo Egineta, divinità poliadica dell'isola. Questo Sostrato è probabilmente da identificare con il ricchissimo mercante interessato ai commerci con Tartesso ricordato da Erodoto (iv, 152); l'iscrizione, per i caratteri epigrafici, potrebbe datarsi alla fine del VI sec. a. C. Il santuario, nonostante il suo aspetto di luogo di culto di tipo quasi domestico, è dunque una testimonianza preziosa della presenza greca, di mercanti e forse anche di artigiani specializzati, nel cuore dell'Etruria, in singolare concomitanza cronologica con il diffondersi di modi figurativi greci, specie della pittura (si pensi alla vicina Tarquinia) e al tempo stesso documenta in modo stringente il significato dell'espansione commerciale greco-orientale, in primo luogo di Focea. La città romana ha finora rivelato edifici di carattere privato e solo in un caso sussiste la possibilità di identificare nei resti di una costruzione un edificio pubblico. Le tre insulae parzialmente esplorate hanno ciascuna la larghezza di mezzo actus (60 piedi = 17,70 m), mentre la loro lunghezza non risulta ancora accertata. La prima delle tre insulae contiene un bell'edificio in opera reticolata sovrapposto ad una precedente struttura in opera incerta: nell'edificio, cui sono annesse due conserve d'acqua, è stata scoperta un'ara marmorea con scena di sacrificio e personificazioni forse di Fortuna e di Concordia, oltre a quattro lastre bronzee con iscrizioni dedicatorie a Iside e Serapide, parti di un altare interamente in bronzo smontate e occultate sotto un pavimento. Malgrado questi trovamenti e la notevole vastità dell'edificio, solo dubitativamente è possibile affacciare l'ipotesi che il complesso avesse una funzione pubblica o sacra. Nella seconda insula abbiamo una piccola ma interessante casa con stanze in parallelo accessibili da un lungo corridoio e, alle spalle, un grande ambiente a pilastri, forse un horreum, come fa anche pensare il trovamento in situ di un grosso dolio. La terza insula, solo in parte scavata al pari delle altre due, appare quasi per intero occupata da una vasta e ricca domus del IV sec. d. C., purtroppo assai mal conservata: la domus, con due grandi sale absidate (una con tracce di opus sectile), un ninfeo a nicchie e una piccola terma privata, ha anche restituito un importante tesoretto di solidi aurei di Valentiniano I e II, Teodosio, Arcadio e Onorio che, assieme alle tracce di incendio ovunque riscontrate nelle fasi di IV sec. d. C. degli edifici, ha fornito puntuale conferma delle fonti letterarie attestanti il passaggio nella zona degli eserciti visigotici di Alarico.
Al termine di questa terza insula in direzione E, è situata una necropoli con tombe alla cappuccina e un grande mausoleo quadrangolare con interno ad arcosolî ed esterno decorato in cotto: verosimilmente si tratta della necropoli già in parte esplorata nel secolo scorso, da porre in relazione con la strada di raccordo tra G. e l'Aurelia, nota dalle fonti (Dig., cit.).
Bibl.: C. Avvolta, in Bull. Inst., 1829, p. 95; E. Westphal, ibid., 1830, p. 28; L. Canina, ibid., 1847, p. 92; G. Dennis, Cities and Cemeteries of Etruria, Londra 1882 (III ed.), p. 430 ss.; A. Pasqui, in Not. Sc., 1885, p. 519, nota 3; H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlino 1902, II, p. 331 s.; G. Schmiedt, Saggi di fotointerpretazione, Firenze 1965, p. 18 s.; M. Torelli, in St. Etr., XXXV, 1967, p. 522 s.; L. Quilici, in Quaderni dell'Istituto di Topografia Antica dell'Università di Roma, IV, 1968, p. 107 ss.; R. Hanoune, in Mél. Ec. Fr. Rome, LXXXXII, 1970, p. 237 ss.; M. Torelli, in Par. d. Pass., 1971 (in corso di stampa); M. Torelli-F. Boitani-G. Lilliu, in Not. Sc., 1971 (in corso di stampa).