Musica, grammatica della
La teoria e la scrittura della musica
La musica, cioè il sistema per organizzare suoni e silenzi secondo strutture articolate, ha, come ogni linguaggio, una propria grammatica. La conoscenza di tali regole permette di comprendere gli elementi costruttivi alla base di ogni composizione musicale e consente di leggere, scrivere ed eseguire la musica. Poiché la musica occidentale è costituita da strutture complesse, è stato elaborato un sistema di simboli scritti che ne rendono possibili la notazione e l’esecuzione
Elemento base della musica è il suono, prodotto dalle vibrazioni di un corpo elastico (prima di tutto l’aria, ma anche corde, metalli o membrane di diversi materiali). Se le vibrazioni sono regolari si generano onde simmetriche di pressione e decompressione e ne risulta un suono detto determinato; in caso di vibrazioni irregolari si ottengono invece suoni indeterminati o rumori. I suoni e i rumori giungono al nostro orecchio attraverso l’aria alla velocità di circa 335 m al secondo.
Ogni suono possiede tre proprietà che lo caratterizzano, dette parametri: sono l’altezza, l’intensità, il timbro. L’altezza di un suono dipende dalla sua frequenza, cioè dal numero di vibrazioni al secondo del corpo vibrante: minore è la frequenza, più il suono è grave, cioè basso; maggiore è la frequenza più il suono è acuto, cioè alto. L’intensità di un suono dipende invece dall’ampiezza della vibrazione: più la vibrazione è ampia, più il suono è forte. Il timbro si riferisce al colore del suono, cioè alla qualità che rende diverso e distinguibile dagli altri ogni strumento e ogni voce; esso dipende in massima parte dalle armoniche, che vengono prodotte simultaneamente alla frequenza principale del suono, ossia costituiscono la nota di base che viene percepita.
Le armoniche variano a seconda della forma e del materiale di ogni strumento, nonché in base alle modalità di produzione del suono.
Ogni suono con una frequenza determinata viene rappresentato con una nota musicale. I nomi delle note sono: do, re, mi, fa, sol, la, si. La serie si conclude sul do successivo, dando luogo a un intervallo di otto note, chiamato ottava. Nei paesi anglosassoni la nomenclatura delle note è invece alfabetica, a partire dalla A che rappresenta il la.
Le note musicali vengono scritte nel rigo musicale, formato da cinque linee, chiamato pentagramma. Il pentagramma consente di definire l’altezza di ogni suono, con l’inserimento delle note in una posizione precisa, nella linea o nello spazio, e tramite simboli detti chiavi, posti all’inizio di ogni rigo. Le tre chiavi di sol o di violino, di fa o di basso, e di do rappresentano un punto di riferimento: indicando l’altezza attribuita a una delle linee, rendono possibile ricavare la collocazione di tutte le altre note. Le note che per la loro estensione si trovano al di fuori del pentagramma vengono annotate su brevi linee aggiuntive (tagli addizionali) al di sotto o al di sopra del pentagramma. Si dice battuta, o misura, ogni porzione di rigo delimitata da due stanghette verticali; essa costituisce l’unità di tempo di base per determinare la durata delle note comprese in essa.
La musica si svolge nel tempo, e nel tempo deve essere organizzata; elemento essenziale della musica, il ritmo è rappresentato da una pulsazione che si ripresenta regolarmente nel tempo. Essa può presentarsi in gruppi binari (a due battiti) o ternari (a tre battiti) o in combinazioni ottenute dalla loro unione o dai loro multipli e sottomultipli.
Nel succedersi delle pulsazioni, la battuta o misura – cioè un’unità metrica compresa tra due successivi battiti forti – costituisce un sistema di riferimento con al suo interno tempi forti (il primo, detto in battere) e tempi deboli (detti in levare). Essa si esprime con una frazione posta sul pentagramma subito dopo la chiave: il numeratore indica il numero di battiti compresi in ogni battuta, il denominatore mostra invece il valore di ognuno di questi battiti.
Per esempio, il simbolo 2/4 indica due tempi (battiti) del valore di un quarto ciascuno, il primo forte, il secondo debole: in questo caso abbiamo una misura binaria. La frazione 3/4 segnala invece una misura ternaria, con tre battiti (forte, debole, debole) che hanno valore di un quarto ciascuno.
La notazione moderna tiene conto, oltre che dell’altezza dei suoni, anche della loro durata. Quest’ultima viene indicata esattamente – anche se non in senso assoluto, ma relativamente ai valori delle note tra loro – impiegando note bianche o nere, con l’aggiunta o meno di aste o tagli. Partendo infatti dalla semibreve, che è attualmente la nota più lunga nell’uso comune e che vale 4/4, ogni figura di valore inferiore dura esattamente la metà della precedente. Ogni semibreve si può dividere in 2 minime, 4 semiminime, 8 crome, 16 semicrome, 32 biscrome e 64 semibiscrome.
A ogni nota corrisponde una pausa, cioè un simbolo che indica la durata del silenzio. Ulteriori suddivisioni si ottengono con l’aggiunta di punti a fianco di una nota o di una pausa, che le aumentano di metà del proprio valore, e con l’utilizzo dei cosiddetti gruppi irregolari.
Completano la notazione altre indicazioni, tra cui: quelle di tempo, relative alla velocità (come Grave, Lento, Adagio, Moderato, Allegro, Vivace, Presto); i segni dinamici, relativi all’intensità del suono (per esempio, pianissimo, piano, mezzoforte, forte, fortissimo, crescendo, diminuendo); segni agogici, relativi a impulsi ritmici affidati alla sensibilità dell’interprete (come accelerando, rallentando, ritenuto), e numerosi altri segni d’espressione.
Per intervallo si intende la distanza che intercorre, in termini di altezza, tra una nota e l’altra, contando sia la nota di partenza sia quella di arrivo: per esempio, un intervallo di tre note è una terza, uno di quattro note una quarta e così via. Nelle note che compongono gli intervalli di ottava, la nota all’ottava superiore – che ha quindi lo stesso nome – ha una frequenza esattamente doppia della prima nota.
Nella musica occidentale due note vicine o congiunte possono essere separate da due tipi di intervalli: il più piccolo è il semitono; il più grande – composto da due semitoni – è il tono.
Ogni nota può venire innalzata o abbassata, cioè alterata, di un semitono o di un tono; i segni che indicano l’innalzamento di un semitono o di un tono sono rispettivamente il diesis e il doppio diesis, mentre quelli che abbassano il suono di un semitono o di un tono sono il bemolle e il doppio bemolle. Il segno che indica il ritorno di una nota alterata alla sua altezza originaria è il bequadro.
Le alterazioni poste all’inizio del pentagramma subito dopo la chiave sono, per l’appunto, dette in chiave e valgono per l’intera durata del brano. Eventuali alterazioni temporanee vengono segnalate di volta in volta e sono valide per la durata di una battuta, a meno che vi siano indicazioni contrarie.
Una scala è una serie di note che procedono per grado congiunto, in direzione sia ascendente sia discendente, da una nota alla nota con lo stesso nome nell’ottava successiva. Ciascun grado, o nota, di una scala, è indicato da un numero romano (da I a VII) e ha un suo nome. Il primo grado, il più importante, si chiama tonica.
A seconda della diversa successione di toni e semitoni, si possono ottenere scale maggiori e scale minori, che si differenziano tra loro anche per il diverso carattere. Ogni scala maggiore ha una sua relativa minore, costruita sul VI grado della scala maggiore, con le stesse alterazioni in chiave, ma con il VI e il VII grado innalzati di un semitono, solo in senso ascendente, nella scala minore melodica, e con il VII grado innalzato di un semitono in senso sia ascendente sia discendente nella scala minore armonica.
La melodia è una successione di suoni scelta dal compositore tra quelli appartenenti al suo sistema di riferimento. Nella musica occidentale tale sistema è rappresentato dai dodici suoni della scala cromatica, scala che può essere esemplificata dai tasti bianchi e neri del pianoforte, con le sue ottave di dodici note congiunte che distano tra loro di un semitono. La melodia ha uno sviluppo orizzontale e un suo andamento ritmico.
Quando nel 9° secolo nacquero le prime forme polifoniche (polifonia) che sovrapponevano due o più linee melodiche diverse, ebbe origine il contrappunto, termine derivato dal latino punctum contra punctum («nota contro nota»), in cui aveva importanza l’andamento orizzontale, cioè l’interesse di ogni linea melodica, più che la struttura verticale.
A partire dal 17° secolo si sviluppò l’armonia moderna; contrariamente al contrappunto, essa ha una struttura verticale e si basa su accordi, cioè combinazioni simultanee di tre o più suoni.
L’armonia moderna (musica, storia della) è strettamente legata al concetto di tonalità, cioè all’attrazione e alla gravitazione di tutti i gradi della scala verso un solo suono, la tonica, la quale determina per l’appunto la tonalità di un brano. Durante il 17° e il 18° secolo la tonalità si sviluppa in un sistema di funzioni tonali, basato su tre accordi principali, ciascuno di tre suoni sovrapposti (triadi), costruiti sulla tonica, sul IV grado (sottodominante) e sul V grado (dominante). L’accordo di tonica ha un carattere di riposo; gli altri due si collocano in tensione col primo, determinando un discorso musicale basato su stati di tensione e di riposo e sui modi maggiore e minore.
Nel 20° secolo il sistema tonale entrò in crisi; i compositori cercarono sistemi atonali alternativi, che sfuggissero alla gerarchia dei gradi e alla limitatezza dei due modi maggiore e minore, individuando procedimenti quali la politonalità (cioè la presenza contemporanea di tonalità diverse), la modalità (cioè l’uso di modi ricavati dalla musica antica o dalle civiltà extraeuropee, soprattutto orientali), la dodecafonia (cioè l’impiego di serie di 12 suoni non in relazione tra loro).
Lo sviluppo secolare e complesso della storia della musica occidentale ha determinato una parallela evoluzione dei sistemi di scrittura secondo forme sempre più accurate e progredite.
La notazione moderna vede i suoi più lontani antecedenti negli accenti usati nella recitazione greca e orientale (4° secolo circa) e, intorno all’8° secolo, nei neumi, simboli che indicavano sommariamente l’andamento della melodia, con la funzione di aiutare la memoria rispetto a musiche già conosciute. La vera svolta si ebbe quando si cercarono sistemi per leggere melodie nuove, utilizzando il rigo per individuare l’altezza dei suoni. Nel 9° secolo comparve una linea orizzontale rossa, più avanti se ne aggiunse una seconda gialla; davanti alle linee vennero poi poste le lettere C e F, antenate delle moderne chiavi.
Nell’11° secolo Guido d’Arezzo introdusse il sistema a quattro linee, il cosiddetto tetragramma, che rappresentò il rigo tradizionale del canto gregoriano, cioè il canto liturgico ufficiale della Chiesa cattolica. L’attuale pentagramma fece la prima sporadica apparizione nell’11° secolo, ma il suo uso si stabilizzò definitivamente soltanto nel 17° secolo.
All’inizio del 13° secolo, quando la notazione era ormai abbastanza accurata riguardo alle altezze, ma ancora molto carente rispetto alle durate, parallelamente allo sviluppo della polifonia comparvero le prime notazioni musicali che indicavano un modello ritmico costante; in Francia Léonin e Pérotin teorizzarono infatti i modi ritmici, cioè successioni di durate tratte dalla metrica greca.
Nel 1325 circa Philippe de Vitry introdusse più moderne forme di durata per note e pause e alcune norme per poter suddividere una nota in due o tre note più brevi. Nel 15° secolo, accanto alle note nere già utilizzate, furono introdotte le note bianche, inaugurando una consuetudine in uso ancora oggi.
Grazie all’invenzione della stampa musicale, tra il 16° e il 17° secolo, la notazione si semplificò e si unificò; da allora venne impiegata, senza modifiche sostanziali, fino circa alla metà del 20° secolo.
A partire dal secondo dopoguerra, con lo sviluppo delle avanguardie musicali, con l’abolizione della tonalità, con le nuove ricerche sul suono e sul ritmo e con le necessità imposte dalla musica elettronica, molti compositori hanno cercato sistemi alternativi per scrivere la musica.
Sono nate così molteplici grafie con simbologie differenti, talvolta disomogenee tra loro, e interpretabili grazie a codici predisposti dal compositore e spiegati di volta in volta nelle partiture.