Gli archivi storici
Pur non comparendo nell’elencazione dei beni culturali previsti dall’art. 117 della Costituzione, quindi esclusi dalla competenza legislativa regionale, gli archivi storici sono tuttavia citati nel decreto reg. 3 del 1972 con una formula confusa. L’art. 7, infatti, trasferisce alle regioni a statuto ordinario «l’istituzione, l’ordinamento e il funzionamento dei musei e delle biblioteche di enti locali o di interesse locale, ivi comprese le biblioteche popolari ed i centri di pubblica lettura istituiti o gestiti da enti locali e gli archivi storici a questi affidati». La citazione completa evidenzia le ambiguità presenti nella scrittura del comma: in primo luogo il termine affidati richiama una «consegna non formalizzata» di un bene a un terzo (Cavalcoli 1997, p. 142); in secondo luogo, non è chiaro a quale istituzioni si riferisce l’affidamento: si tratta di archivi storici ‘affidati’ agli enti locali, e quindi anche la documentazione archivistica direttamente prodotta dagli enti e pertanto parte integrante degli archivi comunali e provinciali, o di quelli ‘affidati’ ai musei e alle biblioteche in quanto pervenuti attraverso gli innumerevoli e a volte eccentrici percorsi storici?
La differenza non era di poco conto: ci si poteva riferire infatti a due universi archivistici che per storia e per regime giuridico sono diversi tra loro.
Prima di inoltrarci nelle analisi delle politiche regionali, è bene delineare qual era la situazione istituzionale al 1972 nel campo degli archivi.
Secondo un’impostazione che nasce nel 1875 (con r.d. 27 maggio 1875 nr. 2552) e acquista una sua compiuta definizione nel 1963 (d.p.r. 30 sett. nr. 1409), era il Ministero dell’Interno ad occuparsi degli archivi storici; ciò avveniva attraverso gli archivi di Stato presenti in ogni capoluogo di provincia, l’Archivio centrale dello Stato con sede a Roma, che con i primi aveva il compito di conservare e concentrare la documentazione prodotta dagli uffici statali periferici e centrali, e le soprintendenze archivistiche, presenti in ogni capoluogo di regione, con la funzione di vigilanza sugli enti pubblici e privati, le quali avevano l’obbligo di conservare la documentazione nelle proprie sedi, garantendo alcuni requisiti di corretta tenuta e di fruibilità pubblica. Questo modello era (ed è) caratterizzato da tre principi: il primo di natura formale, sulla base del quale è la natura giuridica dell’istituto produttore di archivio a determinarne il destino conservativo; il secondo di natura politica, che conferma il grado di autonomia istituzionale degli enti locali, riservando allo Stato il potere di tutela; il terzo di natura culturale in senso ampio, secondo il quale la documentazione, soprattutto quella pubblica, rimane negli stessi luoghi o aree geografiche nella quali è stata prodotta ‒ scelta dettata non solo dalla convinzione dell’importanza del contesto storico-istituzionale per la lettura dei documenti, ma soprattutto dal rispetto verso le memorie locali come riflesso del particolarismo istituzionale caratteristico della storia italiana.
Nasce quindi un modello contraddistinto da fenomeni di concentrazione e disseminazione, regolato sulla base di un principio formale di natura dominicale e governato da un diverso livello di controllo da parte dello Stato: una forma diretta di conservazione attraverso gli archivi di Stato, una forma indiretta di tutela per gli archivi di enti pubblici e privati attraverso le soprintendenze. Il disegno organizzativo agli inizi degli anni Settanta vede nello Stato il fulcro dell’attività conservativa e di tutela secondo un’ottica che privilegia la documentazione statale con strutture disposte in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, e caratterizzato da un sostanziale accentramento amministrativo secondo un modello gerarchico tipico dello Stato ottocentesco.
La normativa registrava e sosteneva (e continua ancora a farlo) una realtà caratterizzata da una molteplicità di luoghi-istituti di conservazione pubblici e privati la cui varietà e disseminazione erano il prodotto dello stretto e fecondo legame tra il patrimonio archivistico e il contesto storico-istituzionale che rende quello archivistico un bene diffuso sul territorio al pari degli altri beni culturali italiani. Non è questa la sede per analizzare se il modello del policentrismo della conservazione sia sorto da un «consapevole disegno istituzionale» oppure da «spontanee dinamiche sociali e culturali» (S. Vitali, Realizzare poli archivistici intesi non come magazzini ma come istituti di conservazione di tipo nuovo, «Museo in-forma», 2012, 45, p. 16). In realtà il rapporto con il territorio ha sempre caratterizzato la fisionomia e le attività degli istituti archivistici di qualsiasi natura che nella loro formazione e nel loro sviluppo hanno costituito un pezzo significativo delle dinamiche di costruzione di memorie e identità locali. Significative furono, nel corso dell’Ottocento, le iniziative di società e deputazioni di storia patria, eruditi locali, bibliotecari e archivisti volte a recuperare le fonti storiche locali per salvaguardare e rafforzare le tradizioni e le identità locali all’interno dei processi di nation-building. In quel periodo, le élites politiche locali si impegnarono a non disperdere il «patrimonio economico e morale della città» rappresentato dai suoi archivi e a fare in modo che la documentazione locale non andasse trasferita altrove.
Molti sono gli esempi di una storia ancora da ricostruire che mostrano questa tutela «dal basso» in nome della rappresentatività locale degli archivi: a Verona tra il 1867 e il 1868 si costituirono presso la biblioteca comunale gli Antichi archivi veronesi con i fondi storici dell’archivio comunale, delle corporazioni religiose soppresse dal regime napoleonico, di alcune magistrature giudiziarie e fiscali del periodo preunitario; a Padova l’Archivio civico antico fu collocato presso il museo civico, dove si concentrarono anche fondi di antiche magistrature (Vitali 2011, p. 124). Nel 20° sec., ma sempre come espressione delle dinamiche locali, a Pistoia, per sostenere la battaglia politica per l’istituzione della provincia, tra il 1927 e il 1936, presso la Biblioteca Forteguerriana furono collocati numerosi fondi storici risalenti al periodo del principato mediceo, del granducato di Toscana e della dominazione napoleonica (C. Vivoli, Alla ricerca di una tradizione cittadina: la conservazione delle fonti storiche pistoiesi fra la nascita della Società di storia patria e l’istituzione dell’archivio di Stato, «Bullettino storico pistoiese», 1998, 33). Molte di queste realtà archivistiche divennero archivi di Stato, soprattutto in seguito alla legge del 1939 (nr. 2006 del 22 dicembre).
Ma numerosi archivi erano (e sono) conservati anche presso le biblioteche o i musei locali. Storie diverse e di antica data avevano creato l’accumulazione di un importante patrimonio documentario nelle grandi biblioteche di conservazione e nelle numerose istituzioni bibliotecarie diffuse sul territorio nazionale, che avevano subito un incremento grazie agli «smistamenti» dei beni librari e archivistici intrapresi in seguito alla soppressione di ordini e congregazioni religiosi (r.d. 7 luglio 1866 nr. 3036, in partic. l’art. 24). Sulla natura e sulla prospettiva di questa convivenza, si discusse all’indomani dell’Unità d’Italia, in occasione del dibattito che accompagnò la formulazione della nuova normativa per archivi e biblioteche sulla base di una dottrina archivistica che nel corso dell’Ottocento aveva incominciato a individuare le specificità dei complessi archivistici rispetto alle raccolte librarie (Sul riordinamento degli archivi di Stato. Relazione della commissione istituita dai ministri dell’Interno e della Pubblica Istruzione con decreto 15 marzo 1870, nota come Commissione Cibrario dal nome del suo presidente, «Archivio storico italiano», 1870, pp. 210-22).
Le biblioteche e i musei locali, per la loro presenza diffusa sul territorio, hanno continuato a rappresentare un punto di riferimento sicuro e vicino per mettere a riparo carteggi, materiale epistolare e documentazione varia di personalità o di altri enti privati che avevano legami più o meno profondi con la storia locale, documenti che spesso rappresentavano il naturale completamento di fondi librari. Una realtà ricca e composita per la quale a volte è difficile stabilire una demarcazione tra le diverse tipologie documentarie. Su tali documenti, seppure di natura archivistica, le soprintendenze bibliografiche avevano esercitato nella prassi una qualche azione di tutela, spesso avvalendosi della normativa del 1909 sulle cose d’arte (Cavalcoli 1997, p. 143).
Pertanto la normativa statale, che avrebbe dovuto dare un’ordinata regolamentazione alla formazione e allo sviluppo del reticolato archivistico, doveva (e deve) fare i conti con una realtà in cui la percezione pubblica da una parte, e i processi conservativi dall’altra, erano molto meno stabili e definiti. Prova ne sia il ruolo inclusivo e aperto che gli archivi di Stato hanno svolto, almeno fino alla fine degli anni Novanta, verso la documentazione di interesse locale non statale. Anche se in maniera molto diseguale, sia dal punto di vista geografico, con addensamenti nell’area del Centro-Nord e rarefazioni nell’Italia meridionale, sia dal punto di vista dell’impegno delle élites locali e dei risultati conseguiti, nelle città operavano molteplici istituzioni culturali che, pur appartenendo a diverse amministrazioni, raccoglievano e conservavano memorie archivistiche legate alla storia delle comunità e delle istituzioni locali.
Come già anticipato, nel 1972 il legislatore intervenne adottando una formula anodina che, pur riconoscendo l’interesse locale degli archivi storici non statali, non metteva in discussione il modello della tutela (come aveva fatto per le biblioteche) esercitato a quella data dal Ministero dell’Interno. La soluzione apriva più problemi di quanti ne risolveva, di natura interpretativa e politica, lasciando scontenti sia coloro che sostenevano le prerogative statali, ambiguamente lambite dal decreto, sia coloro che, auspicando un intervento più deciso verso la regionalizzazione della tutela, interpretavano la dizione normativa in maniera estensiva. L’attribuzione così mal definita costituì oggetto di una disputa tra Stato e regioni giocata prevalentemente sull’interpretazione giuridica, che si è protratta per anni e che ha impoverito, almeno nella prima fase della politica regionale, lo sviluppo di iniziative coerenti e concordate di più ampio respiro, ma non ha comunque impedito, come vedremo, sia gli interventi legislativi e finanziari da parte delle regioni sia la realizzazione di accordi tra istituzioni diverse. Un’altra conseguenza di questa situazione è la scarsità di riflessioni da parte della comunità archivistica, «tanto più sorprendente se paragonata al numero delle iniziative regionali in materia di archivi» (A. Mulè, Rassegna delle disposizioni normative regionali in materia di archivi, «Archivi per la storia», 1997, 1, p. 135).
Una lettura circoscritta e ristretta del decreto del 1972 fu prontamente rilasciata dal Ministero dell’Interno (circolare del 10 luglio 1972 nr. 10), con la esplicita raccomandazione di riferire la norma «soltanto ad archivi e materiale archivistico di terzi che per avventura possa essere pervenuto a vario titolo (acquisto, dono, deposito) alle biblioteche e ai musei anziché agli archivi propri degli enti locali», escludendo pertanto con decisione le competenze regionali «sia sugli archivi storici propri degli enti locali, anche nel caso in cui essi risultassero materialmente uniti a biblioteche e a musei, sia [su]gli archivi ed il materiale archivistico di terzi conservato negli archivi degli enti suddetti».
Questa posizione ministeriale fu ribadita qualche anno dopo anche dal Ministero per i Beni culturali e ambientali (circolare 23 febbr. 1984) che, in seguito all’emanazione di leggi regionali che tendevano a un’interpretazione estensiva (era datata 27 dic. 1983 la l. reg. nr. 42 dell’Emilia-Romagna), invitava i soprintendenti archivistici a seguire con attenzione le iniziative legislative regionali in materia «al fine di consentire ogni opportuna azione a salvaguardia di funzioni che lo Stato non ha né trasferito né delegato alle Regioni» (E. Lodolini, Regioni a statuto ordinario e archivi di enti locali, «Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», 1999, pp. 7-22).
Sul fronte regionalista, si schierò immediatamente la Toscana particolarmente attiva nel sostenere l’idea che il nuovo soggetto politico regionale potesse meglio «rappresentare […] l’interesse delle popolazioni e degli studiosi per una più attiva azione di difesa e valorizzazione del patrimonio storico e artistico». La proposta di legge per la riforma dell’amministrazione di tutti i beni culturali presentata dalla Toscana nel 1973, anche per condizionare il dibattito allora in atto per la formazione del nuovo ministero, era costruita su un concetto di bene culturale ampio e unitario che comprendeva musei, archivi e biblioteche concepiti «non [come] magazzini, e quasi obitori, ma istituti di progresso culturale» (Beni culturali e naturali, proposta della Regione Toscana per un’iniziativa legislativa delle regioni per la riforma dell’amministrazione dei Beni culturali e naturali, 1973, p. 3). Numerosi erano gli elementi innovativi della proposta. Tra questi, era il riconoscimento degli archivi quali istituzioni culturali, accezione non scontata anche in quegli anni di acceso dibattito sulla formazione del nuovo ministero che registrava resistenze istituzionali, culturali, professionali e la riproposizione di una sostanziale emarginazione di questo settore del patrimonio storico.
Uno dei principi su cui si basava la proposta toscana era quello del superamento delle distinzioni dominicali ‒ «pari essendo le finalità e i caratteri» ‒ sulla base delle quali si costruivano le appartenenze delle diverse istituzioni culturali allo Stato o agli enti territoriali. Contro i «nominalismi che privilegiano astrattamente e in contrapposizione» ora lo Stato ora le regioni, molti avevano preso posizione. In Lombardia, che fu anche la prima regione a organizzare una riflessione sul tema delle politiche regionali in materia di archivi storici, si alzò la critica di Ettore Rotelli che sottolineò come «lo Stato si era preoccupato essenzialmente di circoscrivere l’ampiezza del trasferimento delle attribuzioni, sia pure con il rischio di un trattamento difforme tra archivi e archivi, difforme non in rapporto al loro valore culturale ma in rapporto al caso che li aveva fatti finire presso una biblioteca comunale o altrove» (E. Rotelli, La Regione e gli archivi locali in Lombardia, «Esperienze amministrative», 1975, 1, pp. 3-15).
Scarso e prevalentemente caratterizzato dalla difesa delle prerogative dello Stato, sulla base dell’interpretazione restrittiva data dal Ministero dell’Interno, fu il dibattito portato avanti dagli archivisti la cui comunità agli inizi degli anni Settanta era quasi esclusivamente formata da funzionari statali in forza presso le soprintendenze, gli archivi di Stato e gli uffici centrali romani, ma che stava subendo una profonda trasformazione per l’immissione di una nuova generazione formatasi prevalentemente su studi umanistici e che vedeva per la prima volta una massiccia presenza femminile nei ruoli direttivi. In una parte di essi, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario aveva alimentato ottimismo e alcune aspettative.
Grazie all’intensificarsi dei contatti fra archivisti, bibliotecari, archeologici, storici dell’arte, architetti, iniziatisi ai tempi della Commissione Franceschini, ad alcuni «sembrò quasi che si fosse messo in moto un processo di unificazione dal basso che precorreva la sempre rinviata unificazione dall’alto» e che il confronto tra Stato e regione si potesse svolgere sul terreno operativo «delle garanzie che sia l’uno che l’altra devono offrire allo scopo di assicurare una corretta fisionomia ad archivi, biblioteche, musei, soprintendenze, eccetera quali organi destinati a soddisfare la domanda di fruizione dei beni culturali ad essi posta non solo dai ricercatori specialisti, ma dalla intera collettività dei cittadini» (C. Pavone, Gli archivi nel lungo cammino della riforma, «Rassegna degli archivi di Stato», 1975, 1-3, p. 157). Quelli che tra gli archivisti guardavano al fenomeno regionale senza pregiudizi, auspicavano che la nascita di un nuovo soggetto istituzionale potesse favorire anche per i beni archivistici lo sviluppo di istituti che, al di là dell’appartenenza soggettiva dei beni, fossero in grado di connotarsi maggiormente per l’azione culturale da svolgere sul territorio in collaborazione con gli altri enti gestori di beni culturali (Pavone, in «Quaderni di documentazione regionale», 1976, pp. 61-81; I. Zanni Rosiello, Regione e beni culturali. Un convegno della Regione Emilia-Romagna, «Rassegna degli archivi di Stato», 1971, 3, pp. 702-04).
Il risultato fu che se il legislatore nazionale lasciò inalterato il modello istituzionale di conservazione archivistica definito un secolo prima, continuando ad assicurare allo Stato la prerogativa della conservazione della documentazione concentrata negli archivi di Stato e (diversamente dalle biblioteche) della tutela di quella non statale conservata al di fuori degli stessi, nei fatti aprì uno spazio che le regioni riempirono in maniera difforme in relazione sia alla volontà politica dimostrata dalle nuove classi dirigenti di incidere su questo settore, sia alla vivacità locale e alle tradizioni culturali presenti storicamente sul territorio. Interventi legislativi, finanziari e di coordinamento che, seppure nella diversità di grado e di impostazione, incideranno nella realtà archivistica e contribuiranno a mutarne la mappa e in parte la rilevanza.
Le riflessioni successive si muoveranno su due linee che in molti casi e momenti si sono reciprocamente condizionate: da una parte le impostazioni e gli sviluppi degli interventi legislativi regionali, dall’altra la descrizione di alcune significative esperienze maturate.
L’incertezza della normativa di delega, non risolta con il d.p.r 24 luglio 1976 nr. 616, che nulla aggiungeva o specificava in merito alle competenze regionali in materia archivistica, oltre ad aver complicato con discussioni e interpretazioni giuridiche l’azione regionale, ne ha sicuramente impedito un’espressione legislativa coerente, ulteriormente indebolendo il settore archivistico nell’ambito dei beni culturali.
Al di là dell’unico dato comune rappresentato dall’inserimento del settore archivistico nella normativa relativa alle biblioteche o ai beni culturali nel loro complesso, il panorama legislativo si presenta molto differenziato in relazione sia alle soluzioni adottate, sia al grado di intervento nel settore. Un’esplicita volontà normativa anche nel campo degli archivi storici, intesi nel senso più ampio di enti locali e di interesse locale, è presente in leggi che ne fanno riferimento già dall’intitolazione. Si tratta dell’Umbria (l. reg. 3 giugno 1975 nr. 39, 3 maggio 1990 nr. 37), del Veneto (l. reg. 5 nov. 1979 nr. 82, 5 sett. 1984 nr. 50), della Lombardia (l. reg. 14 dic. 1985 nr. 81), dell’Emilia-Romagna (l. reg. 27 dic. 1983 nr. 42 e 24 marzo 2000 nr. 18), della Toscana (l. reg. 3 luglio 1976 nr. 33, 10 luglio 1999 nr. 35). Sono oggetto di attenzione solo nell’articolato del testo legislativo delle Regioni Piemonte (l. reg. 19 dic. 1978 nr. 78), Marche (l. reg. 10 dic. 1987 nr. 39, 9 febbr. 2010 nr. 4) e Lazio (l. reg. 8 marzo 1975 nr. 30, 24 nov. 1997 nr. 42). La prima legge della Liguria (l. reg. 20 dic. 1978 nr. 61) e quella della Calabria (l. reg. 19 apr. 1985 nr. 17), ancora in vigore, invece, si limitano ad accennare a «materiale d’archivio affidato agli enti locali». Il Molise (l. reg. 11 dic. 1980 nr. 37) preferisce accennare agli archivi storici ribadendo le prerogative dello Stato in merito.
Ci sono regioni che formulano più volte la legislazione in materia (Marche e Toscana per ben tre volte; due volte l’Emilia-Romagna, il Veneto, il Lazio, l’Umbria, la Liguria, la Lombardia); regioni che adottano una sola legge, successivamente emendata (Molise, Abruzzo, Piemonte, Calabria), e regioni che, pur adottando politiche di intervento e investendo risorse finanziarie, non hanno una normativa generale. È il caso della Puglia, per es., che, pur dotandosi sin dal 1979 di due leggi specifiche sulle biblioteche e sui musei, legifera sugli archivi storici solo per introdurre nel 1981 la dichiarazione di interesse locale, condizione necessaria per l’attribuzione di finanziamenti che cominciano ad arrivare in maniera significativa – sempre considerando comunque l’esiguità di risorse destinate al settore archivistico – quando, con la l. reg. 24 nov. 1982 nr. 34, vengono stanziati 200 milioni di lire per «contributi ai fini del miglioramento degli archivi storici»; ulteriori finanziamenti arriveranno in seguito alla l. reg. 26 marzo 1985 nr. 9, promossa per agevolare il lavoro dei giovani. Situazione analoga si verifica in Basilicata dove il riferimento al patrimonio archivistico in un testo legislativo avverrà solo con la l. reg. 6 ag. 2008 nr. 20 che aggiunge alle funzioni della Regione in tema di servizi di pubblica lettura e di interventi di edilizia permanente, la salvaguardia, la prevenzione, la conservazione e il godimento pubblico del patrimonio archivistico.
Le conseguenze di una mancata chiara definizione delle competenze in materia archivistica sono state molteplici per il settore; tra queste:
• il continuo accostamento alle biblioteche, se riproponeva con nuove motivazioni una tradizione conservativa molto diffusa a livello locale, non aiutava l’individuazione dei problemi che affliggevano il settore archivistico e delle possibili soluzioni;
• anche se le attribuzioni esercitate non hanno investito l’aspetto della tutela, che rimane una riserva di competenza dello Stato, la frequente sovrapposizione di attività, e a volte di uffici, ha impedito un esercizio proficuo della tutela e la produttività degli investimenti effettuati da parte delle regioni e, in alcuni momenti, anche dello Stato;
• l’ambiguità del decreto di delega ha di fatto lasciato alla volontà politica delle élites regionali di stabilire il grado e la natura degli interventi contribuendo a creare delle profonde differenze nella situazione conservativa e di valorizzazione degli archivi storici locali nelle varie situazioni regionali;
• anche in conseguenza della varietà degli approcci previsti dalle normative, i rapporti tra Stato e regioni sono stati impostati in maniera differenziata, creando contrasti istituzionali o collaborazioni virtuose in relazione alla gestione dei finanziamenti, all’elaborazione di progetti, al coordinamento scientifico dei lavori archivistici, alla formazione del personale.
Un riflesso significativo è evidente nella stessa struttura dei bilanci delle regioni che, salvo poche eccezioni (secondo Carla Bodo al 1985 solo Lombardia e Umbria tra le regioni a statuto ordinario), presentano un’unica voce per archivi e biblioteche. Ciò ha reso più complicato individuare il reale interessamento delle regioni al settore, con una conseguente difficoltà ad analizzarne le politiche. «Biblioteche e archivi sono strettamente connessi tra di loro, sia nella legislazione regionale, sia nelle decisioni di spesa: per questo motivo dobbiamo trattare insieme queste due materie, nonostante la diversità dei problemi che si sono collegati. Ma in pratica siamo costretti a dedicare poco spazio agli archivi, come del resto ha fatto la maggior parte delle Regioni, soverchiate dalla complessa e urgente problematica delle biblioteche» (Bodo 1985, p. 72).
Se quasi tutte le regioni, tra gli anni Settanta e Ottanta, intervengono sul settore archivi, solo alcune, come succede anche per le biblioteche, cercano di definire un modello di intervento.
«Se negli archivi storici è conservata la memoria di un popolo, negli archivi locali lombardi è conservata la memoria della Lombardia» scrisse Sandro Fontana (1936-2013), all’epoca assessore regionale alla cultura. La Regione Lombardia si pone per prima il problema in quanto «l’urgenza e la gravità della situazione escludono che, prima di agire, sia opportuno attendere la definizione compiuta dei limiti e delle competenze dello Stato e della Regione. Anzi, proprio l’avvio di una sperimentazione può consentire di tracciare in futuro tali limiti e fissare competenze in maniera meno aprioristica che nel passato, e può consentire di risolvere ogni questione nei termini di una collaborazione, che, anche in questo campo, è quanto mai necessaria» («Quaderni di documentazione regionale», 1976, retrocopertina).
Già dal 1972, si registrano i primi contributi finanziari a favore di archivi storici. Ma è con la l. reg. 4 sett. 1973 nr. 41, in particolare con gli articoli 3, 10, 13, che vengono date alcune prime indicazioni che si presentano però alquanto generiche e confuse e che comunque segnano il percorso caratterizzato dall’inquadramento degli archivi storici all’interno delle strutture bibliotecarie.
L’attività regionale della Lombardia si manifesta anche nel tentativo di avviare con gli altri attori istituzionali (in primo luogo con le regioni) un confronto che, al di là delle dispute strettamente giuridiche a proposito della ripartizione delle competenze, sempre comunque presenti nel dibattito, potesse promuovere un’azione comune. È a cura della Regione Lombardia il primo incontro nazionale sul tema del rapporto tra ente regionale e archivi locali, svoltosi a Brescia nel maggio 1975 allo scadere della prima legislatura e in occasione dalla formazione del nuovo Ministero per i Beni culturali e ambientali. La situazione che emerge non è positiva: la mancata partecipazione di rappresentanti regionali, ma anche dei comuni dimostrava quanto scarse fossero state negli anni precedenti le iniziative in questo settore, mentre la massiccia presenza di archivisti di Stato era il segno di interesse e disponibilità, ma anche del «timore che l’attivismo regionalista [potesse] in qualche modo invadere il campo finora coltivato da chi per tradizione di preparazione e di competenze ritiene di avere le carte in regola per continuare a farlo» (I. Zanni Rosiello, La regione e gli archivi locali, «Rassegna degli archivi di Stato», 1975, 1-3, p. 398).
Un’impostazione più organica viene data dalla Regione Toscana con la l. reg. 3 luglio 1976 nr. 33 che si pone come obiettivo la promozione dello «sviluppo delle biblioteche di enti locali e d’interesse locale e la tutela degli archivi affidati ad enti locali» (art. 1) con un’impostazione che lasciava ampio spazio a un intervento regionale qualificato. Alcuni punti della legge toscana faranno scuola: la delega delle funzioni amministrative e di gestione delle risorse finanziarie ai comuni e alle province; l’istituzione e la promozione di sistemi territoriali di biblioteche e archivi; lo stimolo alla formazione di consorzi (previsti anche dalla normativa statale d.p.r. 30 sett. 1963 nr. 1409); la possibilità di collocare le sezioni storiche degli archivi comunali nei locali della biblioteca «qualora ciò risulti opportuno allo scopo di agevolarne la consultazione ed assicurarne la conservazione» (art. 10); l’intervento della regione nel sostegno di attività scientifiche, tecniche, di promozione anche attraverso pubblicazioni, di ricerca in collaborazione con le università e altri enti. Risente dell’impostazione toscana, anche se con una maggiore attenzione alle competenze statali in materia di tutela e di indirizzo tecnico-scientifico, la prima legge regionale veneta (5 nov. 1979 nr. 82) che ripropone la centralità dei sistemi, la collocazione delle sezioni storiche degli archivi comunali nelle biblioteche, il sostegno alla formazione di consorzi «organizzati in ambiti territoriali da individuare di concerto con la Soprintendenza agli archivi, con riferimento alle concrete realtà storiche ed archivistiche proprie di ogni area territoriale» (art. 38).
Un ruolo innovativo è svolto anche dalla Regione Emilia-Romagna il cui intervento nel campo dei beni culturali si caratterizza per una forte volontà di autonomia anche scientifica, per il riconoscimento delle diversità territoriali all’interno dei propri confini amministrativi, per l’assegnazione di responsabilità agli enti locali e, di conseguenza, per la vocazione al coordinamento tecnico e progettuale delle iniziative per i beni culturali. Di questa ispirazione è espressione l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali, struttura tecnica ideata in qualità di strumento di programmazione e consulenza per gli enti locali e istituita proprio nello stesso anno in cui nasce l’allora Ministero per i Beni culturali e ambientali (1974). «Chi volle la fondazione di un Istituto come il nostro ‒ scrisse Ezio Raimondi, che per molti anni ne fu presidente ‒ pensava che occorresse partire da un rapporto profondo tra territorio e cultura e che ogni bene culturale andasse riconosciuto e interpretato all’interno di un insieme, complesso e policentrico quale la Regione» (Uno sguardo d’insieme, «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», 1995, 3). L’Emilia-Romagna approva una legge per le biblioteche e gli archivi solo nel 1983. Le novità presenti in questa normativa – riprese e sviluppate anche nelle leggi successive ‒ riguardano in particolare l’introduzione del tema della qualità dei servizi erogati da biblioteche e archivi, misurabile in termini di possesso di requisiti necessari a rendere «adeguata ed efficiente» l’azione culturale sul territorio. Se per il mondo bibliotecario l’organizzazione dei servizi era un aspetto centrale e vitale, su cui rifletteva da tempo anche la comunità dei bibliotecari, per gli archivi e gli archivisti – e non solo per quegli degli enti locali o di interesse locale – era un tema poco frequentato, così come quello della promozione e della valorizzazione.
In omaggio alla tradizione del riformismo emiliano, fatto di concretezza e pragmatismo nelle scelte innovatrici, la Regione propone come base, per sviluppare un servizio efficiente anche per gli archivi, il sistema bibliotecario che, grazie alla sua collaudata articolazione, può fornire sedi, personale, cultura organizzativa. Nella legge del 1983 si ribadisce in più punti che gli archivi storici fanno parte dell’organizzazione bibliotecaria ed è il sistema bibliotecario a decidere la più adeguata collocazione fisica del patrimonio archivistico a rischio. In maniera precoce si parla di integrazione tra patrimoni culturali diversi e di cooperazione tra Stato e regioni. Inoltre, l’ampia delega ai comuni e alle province per l’organizzazione e il coordinamento dei sistemi bibliotecari e archivistici conferma, anche in questi settori, il tentativo da parte dell’élite regionale di coniugare il carattere di «sistema metropolitano policentrico», tipico del modello emiliano, con il potere di coordinamento del nuovo ente in grado di «sviluppare un’efficace rete di servizio a supporto degli anelli più deboli della catena produttiva» (R. Balzani, Le tradizioni amministrative locali, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di R. Finzi, 1997, pp. 645-46).
Grazie alla fenditura della delega del 1972, negli anni Settanta e Ottanta molte regioni intraprendono interventi, in alcuni casi in accordo con le soprintendenze archivistiche statali, con caratteristiche che spesso si ripresentano in diversi contesti regionali, facendo emergere che:
• l’attenzione iniziale è diretta prevalentemente agli archivi storici dei comuni;
• le prime attività finanziate riguardano i censimenti diretti a conoscere la situazione in cui versano gli archivi storici presenti sul territorio;
• i finanziamenti del settore sono esigui in relazione agli altri beni culturali;
• l’interesse prevalente nei primi due decenni è rivolto principalmente a finanziare lavori di ordinamento e descrizione archivistica, mentre scarsa è l’attenzione nei confronti della conservazione fisica degli archivi, spesso a rischio di dispersione e perdite;
• nella maggior parte dei casi, gli interventi sono demandati agli enti locali, che rappresentano il livello operativo in cui si concretizza il decentramento amministrativo;
• la programmazione delle iniziative è limitata, così come scarsi sono la progettualità e il coordinamento tra i vari attori istituzionali che operano sullo stesso territorio in particolare tra Stato e regione;
• in questa prima fase gli operatori che svolgono i lavori di ordinamento e descrizione non sono forniti di preparazione professionale adeguata;
• i rapporti tra regione e soprintendenze archivistiche sono variabili e spesso si definiscono sulla base del livello di collaborazione personale instaurato;
• i risultati, in termini sia quantitativi sia qualitativi, si misurano anche in relazione al grado di collaborazione sviluppato tra gli enti territoriali e statali, collaborazione che garantiva il necessario apporto metodologico e contribuiva alla definizione di una progettualità più ampia.
Come già accennato, poche sono le riflessioni sulle politiche che le regioni hanno sviluppato nel settore degli archivi storici. Un primo tentativo è stato fatto nel 1994 da Domenica Porcaro Massafra, per lunghi anni soprintendente archivistica per la Puglia, che, per il periodo dal 1975 alla seconda metà degli anni Ottanta, sottolinea «la mancanza di una vera e propria strategia alla base della […] azione politica. Ci si limitava, in genere, a parte qualche lodevole eccezione, a promuovere le richieste degli enti e a finanziarle senza badare granché a coordinarle con altre iniziative, a verificarne l’utilità e l’efficacia e a controllarne i risultati» (Stato e regioni nella politica di valorizzazione degli archivi storici degli enti locali, in Gli standard per la descrizione degli archivi europei. Esperienze e proposte, a cura del Ministero per i Beni culturali e ambientali, 1996, p. 443). Sono gli anni dei più acuti conflitti tra soprintendenze e assessorati, caratterizzati dalla duplicazione delle direttive a volte contrastanti. Ed è anche il periodo di finanziamenti a pioggia e del «mito di risolvere tutto e subito con grandi risorse e con personale» spesso non fornito di adeguata preparazione, politiche che almeno fino alla fine degli anni Ottanta hanno accomunato Stato e regioni.
Nonostante i limiti, frutto dell’incertezza normativa e delle difficoltà proprie di un settore ‘diffuso’ quale quello degli archivi storici di interesse locale, che avrebbe necessitato sin dall’inizio dell’esperienza regionale di una forte iniezione di coordinamento di risorse e condivisione di progetti, l’istituzione delle regioni rappresentò per il settore archivistico una grande opportunità rendendo possibile «iniziative […] su archivi che un tempo si dovevano lasciare a se stessi» (A. D’Addario, Stato e regioni. Metodologia archivistica, in Storiografia e ricerca, Relazioni e comunicazioni XVIII Congresso nazionale archivistico, L’Aquila, 4-7 nov. 1978, 1981, p. 57).
Le prime forme di intervento a favore degli archivi storici sono state i contributi finalizzati prevalentemente a progetti di censimento, riordinamento e inventariazione, pubblicazioni di inventari, formazione del personale. Tali obiettivi sono presenti anche nei decenni successivi, quando l’introduzione massiccia delle tecnologie informatiche ha contribuito a sviluppare gli interventi archivistici all’interno di sistemi informativi territoriali. I primi censimenti relativi ad alcune tipologie archivistiche (in particolare archivi dei comuni, degli enti comunali di assistenza e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) rispondevano non solo all’esigenza di costruire strumenti di ricerca per gli studiosi ma anche alla necessità di fornire alle amministrazioni regionali informazioni e dati in grado di meglio definire le linee di politica culturale, la progettazione di interventi, l’elaborazione di normative.
Nei primi anni, obiettivo privilegiato per quasi tutte le regioni furono gli archivi storici degli enti locali, in particolare dei comuni. A stimolare i primi interventi regionali verso questo segmento documentario giocarono diversi fattori: l’interesse da sempre manifestato dagli studiosi di storia locale, una storiografia ancora non aperta a nuove curiosità documentarie, lo stretto legame con le vicende dei diversi ‘campanili’, la preziosità dei documenti che, soprattutto nei comuni del Centro-Nord, risalivano all’Alto Medioevo a testimonianza delle autonomie politiche cittadine. Erano questi i documenti, preziosi per la storia locale e nazionale, che spesso si trovavano in uno stato di conservazione così precario da non garantirne la consultazione e la sopravvivenza nel tempo.
Non solo gli archivi storici dei comuni, comunque, furono oggetto di censimenti. Tra gli anni Settanta e gli Ottanta si registrò un fermento, frutto di una rinnovata sensibilità storiografica e della presenza di giovane personale tecnico-archivistico negli uffici statali, che, grazie alle risorse economiche delle regioni, portò all’emersione di inediti segmenti documentari. A proposito della Toscana, scrisse Augusto Antoniella nel 1992, «basti pensare a quali effetti dilatanti abbia prodotto un certo tipo di interventi avviati in Toscana negli ultimi anni, con il contributo determinante della Regione, che mentre hanno scavato a fondo, per la prima volta, nelle memorie locali per recuperare gli archivi storici comunali – che costituivano allora un punto di attenzione primario e quasi esclusivo – hanno portato in luce (certo anche in virtù di spinte e sollecitazione di altra natura) la realtà sommersa degli archivi di impresa, quella semisommersa degli archivi ecclesiastici, evidenziando concretamente, al di là dell’isola originaria, un vasto arcipelago archivistico in gran parte da esplorare. Se la crescita è stata tardiva, per altro verso, improvvisa e perfino imprevista: caratterizzata, e in ultima analisi indotta, dall’ingresso sulla scena di nuovi interlocutori – le regioni in primo luogo ma contemporaneamente o quasi le provincie e gli altri enti locali – che hanno portato nuovi impulsi e sollecitazioni e soprattutto le prime disponibilità finanziarie sollevando così le soprintendenze archivistiche da una condizione di solitudine» (Archivi non statali: realtà e prospettive, in Archivisti davanti al presente. Tra problemi di tutela e di valorizzazione, a cura di M. Brogi, 1992, p. 18).
La Regione Lombardia, tra i primi interventi, finanzia iniziative di riordino di archivi comunali e, per una quota minore, altre tipologie archivistiche (alla fine degli anni Novanta risultano inventariati circa 500 archivi storici di comunità locali e un centinaio di archivi di altri enti) e gestisce direttamente numerosi censimenti e pubblicazioni su archivi storici degli enti ospedalieri che in seguito alla riforma del sistema sanitario erano a rischio dispersione; archivi comunali e dei cessati enti comunali di assistenza; archivi di impresa dell’area milanese; carteggi e fondi speciali delle biblioteche lombarde (1986-91); archivi parrocchiali della provincia di Sondrio, della diocesi di Bergamo; archivi sindacali ed editoriali (R. Grassi, La politica regionale in materia di archivi storici, «Archivi & computer», 1993, 2, pp. 117-22; R. Grassi, La Lombardia, in Id. et al., Sistema informativo unificato delle soprintendenze archivistiche e sistemi archivistici locali, «Bollettino d’informazioni. Centro di ricerche informatiche per i beni culturali», 2001, 2, pp. 29-31).
Nel Lazio la situazione degli archivi storici dei comuni all’inizio dell’esperienza regionale era «disastrosa» non solo per le condizioni materiali in cui versavano ma anche per la «totale noncuranza o insensibilità degli amministratori locali». La politica regionale dei primi anni fu episodica e basata essenzialmente sulle richieste dei comuni. Una prima strategia di intervento si registra a metà degli anni Ottanta quando, in collaborazione con la Soprintendenza archivistica per il Lazio, viene predisposto e attuato il «progetto archivi storici» (E. Cento, Il Lazio, in Id. et al., Sistema informativo unificato delle Soprintendenze archivistiche e sistemi archivistici locali, cit., pp. 26-29), con una programmazione articolata in piani triennali e incentrata sull’individuazione di gruppi di comuni omogenei per vicende politico-amministrative per i quali si finanzia il lavoro di ordinamento, inventariazione, restauro, sistemazione dei locali, formazione degli operatori, valorizzazione (M. Tonali, Sulla politica archivistica della Regione Lazio: un interessante esempio di programmazione, «Archivi & computer», 1991, 1, pp. 95-6).
In Toscana, grazie a una «felice e collaudata collaborazione» (P. Benigni, Gli archivi storici comunali toscani: spunti per una “politica” di gestione, in Gli standard per la descrizione degli archivi europei, cit., p. 430) tra Soprintendenza archivistica e Regione, basata su di una radicata e antica sensibilità nei confronti degli archivi storici, in particolare di quelli dei comuni (Gli archivi storici dei comuni della Toscana, a cura di G. Prunai, 1963), sono stati portati avanti numerosi interventi di aggiornamento di guide già esistenti; avviate pubblicazioni di strumenti di ricerca come quelli dedicati agli archivi di personalità del Novecento (Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ’800 e ’900. L’area fiorentina, a cura di E. Capannelli, E. Insabato, 1996; Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ’800 e ’900. L’area pisana, a cura di E. Capannelli, E. Insabato, coordinamento di R.P. Coppini, 2000); intrapresi censimenti come quelli degli archivi editoriali, fotografici, orali e audiovisivi; sostenuti progetti di ricerca come quelli dell’associazione Archivio per la memoria e la scrittura delle donne. Un elemento che caratterizza questo impegno è la centralità degli enti locali, in particolare delle province che con la l. reg. nr. 33 del 1976 diventano soggetto attivo della progettazione e della gestione delle risorse nella politica di valorizzazione dei beni archivistici locali.
La Regione Piemonte, oltre che sugli archivi storici dei comuni e degli enti ecclesiastici, ha indirizzato i propri contributi finanziari per la salvaguardia e la valorizzazione di alcune realtà archivistiche in sintonia con la storia regionale: la collocazione montana del territorio ha stimolato l’attenzione verso il patrimonio storico delle comunità montane sulla base di un progetto che poi diventerà l’attuale Archivio del Piemonte; lo sviluppo industriale e sociale della regione ha spinto nel 1990 verso il recupero del patrimonio e dei valori storici delle società di mutuo soccorso, degli archivi sindacali e politici e, successivamente tra il 1997 e 1998, al primo censimento delle imprese (http:// www.regione.piemonte.it/cultura/cms/patrimonio-culturale/archivi.html).
In Emilia-Romagna i censimenti degli anni Ottanta relativi agli archivi storici degli enti locali e al patrimonio documentario delle istituzioni ospedaliere e assistenziali ‒ quest’ultimo particolarmente esposto a rischi di perdita e dispersione in seguito alla soppressione e ai passaggi di competenze previsti dalle leggi delega degli anni Settanta ‒ «hanno fornito il necessario supporto informativo per l’avvio di programmi specifici di sostegno agli enti locali impegnati nella salvaguardia dei propri fondi documentari e nell’organizzazione o nel potenziamento di servizi di consultazione» (B. Argelli, L’Emilia-Romagna, in Id. et al., Sistema informativo unificato delle soprintendenze archivistiche e sistemi archivistici locali, cit., p. 23). Un esempio di precoce collaborazione tra Stato e regioni, prima che questa venisse istituzionalizzata con le normative degli anni successivi, è la ricognizione generale delle sezioni storiche degli archivi degli enti locali avviata dall’Istituto nel 1979 con il duplice scopo di raccogliere informazioni sulla situazione gestionale degli archivi storici degli enti locali al fine di individuare modelli organizzativi di servizio archivistico locale e di aggiornare i dati descrittivi sul patrimonio documentario già presenti nella guida degli archivi storici comunali dell’Emilia-Romagna redatta dalla soprintendenza archivistica statale negli anni 1966-73 (Archivi storici in Emilia-Romagna. Guida generale degli archivi storici comunali, a cura di G. Rabotti, 1991).
Nelle Marche interventi di sostegno finanziario sono presenti già con la prima l. reg. 30 dic. 1974 nr. 53; poi con la specifica legge per biblioteche e archivi 10 dic. 1987 nr. 39. Un impegno particolare si registra con il Piano speciale archivi 1997-1998 con il quale sono stati finanziati complessivamente 91 comuni per 40 progetti di riordinamento e inventariazione, 17 di restauro, 29 interventi per attrezzature e impiantistica e 5 azioni di valorizzazione.
La totalità delle esperienze sopradescritte come esemplificazione delle iniziative che sono state portate avanti nel corso degli anni Ottanta e Novanta dalle regioni maggiormente attive nel campo della valorizzazione dei beni archivistici, è stata realizzata grazie anche alla collaborazione maturata tra organi statali e regionali. Questo dato istituzionale fu sottolineato da Renato Grispo, che è stato a lungo direttore generale dell’allora Ufficio centrale per i beni archivistici. Grispo riconobbe, infatti, come dalla metà degli anni Ottanta «in alcune regioni più sensibili alle problematiche dei beni culturali e in particolare alla importanza e al significato del patrimonio archivistico, quale strumento di lettura delle proprie radici storiche e di interpretazione del presente, l’opera di recupero, di riordinamento e di inventariazione degli archivi vigilati procedeva a ritmo serrato, in un quadro di fattiva collaborazione tra istituti statali e strutture culturali degli enti locali» (R. Grispo, Presentazione, in Archivi storici in Emilia-Romagna, cit.).
In realtà, risultati importanti si sono ottenuti in quelle aree del Paese dove l’intervento regionale si è innestato in una situazione in cui già operava una tradizionale attenzione verso il patrimonio archivistico locale sia da parte degli organismi statali sia da parte degli stessi enti locali.
È la Regione Toscana a formalizzare per prima con la legge regionale del 1976 la possibilità che gli archivi storici degli enti locali, ordinati ed inventariati, trovino «collocazione nei locali della biblioteca, qualora ciò risulti opportuno allo scopo di agevolarne la consultazione ed assicurarne la conservazione» (art. 10). Tale indicazione, quasi mai espressa in maniera vincolante, verrà ripresa, a volte con identiche parole, da molte altre regioni a statuto ordinario: Liguria (l. reg. 20 dic. 1978 nr. 61, art. 3), Molise (l. reg. 11 dic. 1980 nr. 37), Emilia-Romagna (l. reg. 27 dic. 1983 nr. 42, art. 17), Veneto (l. reg. 5 sett. 1984 nr. 50, art. 39), Calabria (l. reg. 19 apr. 1985 nr. 17, art. 3), Lombardia (l. reg. 14 dic. 1985 nr. 81, art. 20.3), Marche (l .reg. 10 dic. 1987 nr. 39, art. 7). Alcune di queste (Toscana, Molise, Emilia-Romagna e Veneto) dispongono inoltre che, per favorire la consultazione della documentazione archivistica storica prodotta dagli enti locali, presso le biblioteche vengano comunque depositati gli inventari di tutti gli archivi. Poche (Calabria, Marche, Umbria) precisano la necessità di assumere personale specializzato per il trattamento degli archivi.
Il deposito nelle biblioteche degli archivi storici degli enti locali, se da una parte registrava una situazione già in atto, dall’altra, rendendo possibile una soluzione facilmente percorribile, favoriva la deresponsabilizzazione degli amministratori locali nell’applicazione della normativa statale che prevedeva, e ancora prevede, la formazione di una sezione storica presso gli stessi enti produttori per garantire la fruizione pubblica senza spezzare il rapporto vitale che lega le diverse fasi di vita di un archivio (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42 modificato, art. 30).
Alla base della «bibliotecarizzazione degli archivi» (R. Cerri, Archivi storici affidati a bibliotecari: necessità o virtù?, in Gli archivi storici degli enti locali in biblioteca, a cura di M. Tani, 1999, pp. 63-73) vi sono sicuramente motivazioni di natura economica, soprattutto per i numerosi piccoli comuni che non sarebbero stati in grado di sostenere i costi per il funzionamento di una sezione separata. Scarsamente praticata, inoltre, si rivelò la possibilità, prevista dalla normativa nazionale, di istituire consorzi archivistici intercomunali per garantire il contenimento dei costi nell’organizzazione dei servizi, e che molte leggi regionali indicavano come possibile soluzione (una rilevazione dell’Ufficio centrale per i beni archivistici del 1993 segnalava a quella data solo quattro esperienze in Abruzzo, Lombardia, Lazio). Determinanti per questo fallimento si rivelarono i «conflitti di campanile, le difficoltà di ordine burocratico insite nella figura giuridica del consorzio, lo scarso interesse da parte degli amministratori ecc.» (R. Grassi, La conservazione degli archivi dei piccoli comuni: ipotesi di cooperazione e deposito in biblioteca, in Gli archivi storici degli enti locali in biblioteca, cit., p. 77).
Alla fine degli anni Novanta, in Lombardia vi erano circa un centinaio di archivi storici di comuni depositati presso le biblioteche, un dato in lenta e costante crescita, secondo Roberto Grassi. In Toscana, dall’indagine condotta sugli archivi storici degli enti locali tra il settembre e il dicembre del 1997 (M. Tani, La Toscana: Svezia degli archivi?, in Gli archivi storici degli enti locali in biblioteca, cit., pp. 9-32), risulta che il 32% degli archivi storici è gestito da biblioteche. Analizzando più da vicino questo dato, si legge che la più alta intensità di concentrazione di archivi nelle biblioteche si registra laddove le realtà bibliotecarie sono più organizzate e più forti, quindi nella parte est della Toscana (province di Arezzo, Firenze, Siena, Pistoia), e presso i comuni tra i 10 e 30.000 abitanti.
I dati rivelano, secondo G.B. Ravenni, come «nei piccoli comuni non c’è integrazione perché le biblioteche sono spesso solo ‘virtuali’, prive di una reale consistenza organizzativa. Nella fascia intermedia, dove le biblioteche cominciano ad assumere una precisa fisionomia, i comuni se ne servono sempre di più per rendere fruibili i loro archivi storici via via che vengono riordinati. Nei comuni maggiori, le maggiori dimensioni degli archivi e delle biblioteche generano modelli gestionali articolati su diverse strutture». (G. B. Ravenni, Gli archivi storici degli enti locali in biblioteca, in Gli archivi storici degli enti locali in biblioteca, cit., pp. 81-82). In Emilia-Romagna, al 2011, le biblioteche che risultano enti conservatori dell’archivio storico comunale sono 22, alle quali occorre aggiungerne altre 38 che svolgono le funzioni relative alla custodia e alla fruizione (R. Campione, Una missione comune, «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», 2011, 1).
Tuttavia, le motivazioni di razionalizzazione organizzativa non spiegano completamente le ragioni di questa indicazione. Innanzitutto le regioni prendevano atto di una situazione esistente che, come già fatto notare, registrava il ruolo di raccolta di materiale genericamente definito storico svolto dalle biblioteche locali. A esse veniva riconosciuta la funzione di istituti culturali che, grazie alla loro presenza diffusa sul territorio e ai servizi che garantivano, potevano assicurare anche per gli archivi storici dei comuni una più larga utilizzazione sul piano culturale. Una scelta questa che, in mancanza di condizioni logistiche adeguate presso la sede comunale, in alcuni casi venne caldeggiata anche dalle soprintendenze archivistiche. Gli archivi storici dei comuni e di altri enti locali avrebbero potuto in tal modo affiancarsi alla documentazione archivistica di personalità, famiglie, associazioni e di altri enti produttori che, per lo stretto legame con la storia dei luoghi, avevano già trovato riparo presso le strutture bibliotecarie presenti.
Inoltre, negli anni Settanta si assiste all’espansione del numero delle biblioteche e alle profonde modificazioni del loro ruolo nel contesto culturale territoriale. Parallelamente ai cambiamenti che si verificavano nella cultura e nella politica italiana all’indomani della stagione dei movimenti, la cui eco si registrava anche nei risultati delle prime elezioni per la formazione dei consigli regionali, le biblioteche pubbliche locali si caratterizzavano non tanto come istituti di acquisto, consultazione e conservazione del patrimonio librario quanto come luoghi di animazione culturale e sociale all’interno dei quali un posto di rilievo era occupato dalle attività di recupero delle testimonianze, non necessariamente scritte, della storia delle comunità locali anche allo scopo di favorire «la riappropriazione del passato» (F. Barbieri, Le comunali, in Biblioteche in Italia. Saggi e conversazioni, a cura di F. Barbieri, 1981, p. 126), soprattutto per quelle generazioni per le quali, in seguito alle trasformazioni della struttura economica e sociale e con l’innesto di popolazione di diversa provenienza, non era immediatamente riconoscibile il rapporto con il territorio. Le sezioni locali, quasi sempre presenti nelle biblioteche pubbliche degli enti locali, diventano centri dove, oltre ai tradizionali studi degli storici locali, si lavora per «l’acculturazione di massa» (G. Barone, A. Petrucci, Primo: non leggere. Biblioteche e pubblica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni, 1976), si sperimentano raccolte non scritte in grado di recuperare la cultura delle classi subalterne, si esercita una «vocazione alla iniziativa culturale di tipo divulgativo non necessariamente legata al mondo del libro» (Grassi, La conservazione degli archivi dei piccoli comuni, cit., p. 79).
Pertanto, il deposito dell’archivio storico dei comuni presso le biblioteche pubbliche, nel caso in cui si fossero presentate esigenze conservative che non potevano essere soddisfatte dagli stessi enti che avevano la responsabilità alla buona tenuta e conservazione, rappresentava, agli occhi degli amministratori locali, anche una soluzione per integrare e arricchire le varie espressioni in cui si materializzava la memoria storica dei luoghi, evitando, peraltro, possibili trasferimenti in sedi più lontane (per es., gli archivi di Stato presenti solo nelle città capoluoghi di provincia).
A tali motivazioni, va aggiunta la difficoltà a cogliere e trasmettere il valore culturale degli archivi. L’indissolubile connubio tra amministrazione e cultura, che rappresenta la caratteristica genetica dei documenti archivistici; le problematiche legate alla presenza di informazioni riservate e non liberamente consultabili che, non senza perplessità, continuano a giustificare il ruolo ancora oggi svolto dal Ministero dell’Interno; le difficoltà della ricerca archivistica: sono questi alcuni elementi che hanno sempre reso gli archivi un bene «elitario», di difficile consumo. Se a questo si aggiunge una sottovalutazione di lunga data da parte della comunità archivistica degli aspetti comunicativi, della ricerca di forme e occasioni per incontrare un pubblico più vasto di utenti al di là dei confini tradizionali segnati dalla frequentazione della sale di studio di storici e ricercatori – aspetti che incominceranno a far parte dell’agenda degli archivisti dagli anni Ottanta con le esperienze delle mostre documentarie e della didattica negli e degli archivi ‒, si può maggiormente comprendere come l’opzione del deposito presso le biblioteche appariva la modalità più facilmente percorribile per rendere possibile la fruizione culturale degli archivi. Del resto, la delega confusa e ambigua in materia di archivi storici non stimolò una maggiore consapevolezza da parte delle regioni e contribuì alla mancata assunzione di una responsabilità chiara per definire linee di intervento ispirate a criteri metodologicamente corretti e rispettosi delle specificità del settore archivistico.
Il rischio maggiore della «bibliotecarizzazione» risiedeva soprattutto nell’applicazione di metodologie di trattamento non adeguate alle specificità dei documenti archivistici. Purtroppo, non solo la normativa regionale ma anche la pratica presente negli enti locali non prevedeva, se non in rari casi, figure professionali dotate di adeguata e specifica preparazione tecnica.
Tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila si è parlato molto di valorizzazione e promozione, ma poca attenzione è stata prestata da parte delle regioni e degli amministratori locali al problema per molti aspetti drammatico della conservazione fisica degli archivi storici non statali, sottovalutando l’evidente considerazione che non si può procedere né alla tutela né alla valorizzazione se non si salvaguardia la sopravvivenza del bene. Purtroppo non abbiamo dati per un’analisi delle somme investite per la conservazione fisica del materiale archivistico per la quale sono necessari non solo interventi di restauro ma anche individuazione, ristrutturazione e adeguamento di edifici alle finalità di servizio pubblico. Tra le poche eccezioni, va segnalata la politica dell’Emilia-Romagna diretta a sostenere anche progetti per la creazione di spazi dove sia possibile organizzare una fruizione pubblica della documentazione archivistica secondo gli standard di qualità previsti dalla delibera regionale del 2003, su cui torneremo successivamente (R. Campioni, Nuove sedi per i servizi bibliotecari e archivistici di qualità, in IBC Dossier. Cantieri culturali. Nuovi spazi per biblioteche e archivi, a cura di L. D’Alfonso, estratto di «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», 2005, 1, pp. 60-63). La letteratura a questo proposito, farcita di lamentele circa lo stato di conservazione degli archivi storici degli enti locali e i pericoli di dispersione degli archivi storici di interesse locale, non lascia dubbi sul fatto che, se vi è un elemento che accomuna politiche statali e politiche regionali, esso riguarda sicuramente la difficoltà a intervenire sul problema della salvaguardia fisica della documentazione. Aspetto che ha occupato un posto nell’agenda delle amministrazioni solo quando gli edifici sono stati distrutti o resi inagibili in seguito a disastri ambientali provocati da alluvioni o terremoti.
Dopo la metà degli anni Novanta sono venute maturando soluzioni diverse rispetto al deposito presso le biblioteche. In molti casi sono le stesse sezioni storiche di città che si pongono come punto di riferimento per la concentrazione di documentazione storica relativa al territorio e la formazione di poli territoriali o provinciali. In altri casi le regioni stesse hanno costituito il proprio archivio storico, configurandolo come istituto di concentrazione degli archivi di interesse regionale, e stanno muovendo i primi passi per sostenere la nascita di poli archivistici territoriali che superino le tradizionali barriere istituzionali in maniera da favorire non solo una economia di scala per i servizi ma anche una valorizzazione più unitaria del patrimonio archivistico (S. Vitali, Gli archivi delle regioni: un contributo alla discussione, «Le carte e la storia», 2006, 2, pp. 5-12; M. Guercio, L’archivio territoriale: nuovi modelli di conservazione per le fonti contemporanee, «Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», 2010, pp. 191-206). Alcune esperienze sono in via di realizzazione: le Regioni Toscana (I. Pescini, Tradizione e innovazione nel sistema documentale della P.A. nel percorso verso la dematerializzazione, in Il diritto governa la tecnica?, Atti del seminario del CNEL, 2009, pp. 59-70) ed Emilia-Romagna (http://parer.ibc.regione.emilia-romagna.it/), per es., hanno costruito poli che si offrono come luogo per la conservazione della documentazione cartacea e come depositi certificati per la conservazione a lungo termine del patrimonio documentale informatico dell’intero territorio regionale.
La seconda fase legislativa continua a registrare la presenza di una doppia velocità tra regioni che confermano la leadership in questo settore, riprendendo a legiferare e innovando alcuni aspetti ‒ Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e in qualche misura Lazio ‒, e altre che si limitano a modificare le leggi esistenti oppure intervenire su aspetti organizzativi e di servizi.
Anche per il settore archivistico le regioni, attraverso la normativa e i criteri di distribuzione delle risorse, tendono a sollecitare gli enti locali affinché sviluppino sistemi in grado di incrementare la fruizione pubblica in una logica di economia di scala e di integrazione dei beni culturali del territorio. Si tratta di sistemi subregionali, intercomunali, oppure su basi provinciali. È il caso, nel Modenese, del sistema archivistico tra i comuni di Nonantola, Ravarino, Bomporto e Bastiglia, che ricalca quello già esistente tra le biblioteche degli stessi comuni; del Sistema bibliotecario archivistico novenese in Piemonte; del Coordinamento degli archivi storici della Bassa Val di Cecina; del Sistema archivistico intercomunale Acuto, Paliano, Piglio, Serrone nel Frusinate. Nella maggior parte dei casi sono i sistemi bibliotecari, che hanno una maggiore esperienza, che godono anche di maggiori risorse e di riconoscibilità in termini di funzione sociale, a costituire la maglia su cui poggiano i servizi archivistici.
È la Toscana che, con la l. reg. 10 luglio 1999 nr. 35, individua nelle reti documentarie la forma organizzativa in cui si attua la cooperazione, la condivisione di risorse, l’integrazione degli strumenti tra archivi, biblioteche, centri di documentazione e lo strumento organizzativo. Da quella data, in maniera non modificata nella nuova legge del 2010 (l. reg. 25 febbr. nr. 21), «la rete locale costituisce la modalità ordinaria di gestione delle attività e dei servizi documentari integrati. Essa è lo strumento che realizza la condivisione delle risorse interne e la piena utilizzazione di quelle esterne alla rete» (art. 5). Non è facile appurare in che misura questa volontà di integrazione abbia favorito l’emersione degli archivi storici e avviato a risoluzione i problemi dei servizi archivistici e del loro non facile rapporto con l’utenza. Una risposta non del tutto positiva emerge se analizziamo il dato della presenza degli archivi storici nello spazio web utilizzato dalle reti documentarie (informazioni gestionali e di contenuto sugli archivi storici solo nelle reti di Firenze, Arezzo, Siena, Lucca e Pisa).
Nelle normative regionali di questi anni si afferma la tendenza a considerare gli archivi storici istituti culturali a pieno titolo, attribuzione questa che da una parte favorisce la dimensione della valorizzazione e della fruizione del patrimonio archivistico e dall’altra pone l’accento sulla necessità che anche per gli archivi si adottino i parametri basati sulle modalità di erogazione del servizio per accedere ai contributi regionali. È interessante notare come in questa fase, l’individuazione delle realtà «meritevoli» di sostegno finanziario passi da un criterio di tipo amministrativo basato sulla dichiarazione di interesse locale da parte delle regioni (Veneto e Puglia) a uno di tipo funzionale misurato sulla base della qualità dei servizi erogati al pubblico. Questo approccio è evidente nelle politiche della Regione Lazio dal 1997 (l. reg. 24 nov. nr. 42) ma soprattutto in quelle dell’Emilia-Romagna che fa del tema della qualità un aspetto centrale degli interventi in campo archivistico facendo seguire alla nuova l. reg. del 2000 (nr. 18 del 24 marzo) una delibera di giunta (3 marzo 2003 nr. 309) che dedica un intero capitolo agli standard di funzionamento ‒ per le attività, il personale, le sedi – dei servizi archivistici.
Costante, invece, è la scarsità di risorse destinate a questo settore. Nella prima conferenza nazionale per gli archivi organizzata a Roma nel 1998, fu presentata una nota relativa alle risorse pubbliche destinate al settore degli archivi storici non statali: da essa emerge che le regioni con competenza concorrente hanno stanziato, almeno negli anni immediatamente precedenti la conferenza, per gli archivi meno del 2% del bilancio per la cultura, mentre gli enti locali, sempre nell’ambito della cultura, devolvono agli archivi storici il 5% del bilancio. Da tale rapporto emerge anche che gli stanziamenti a favore di interventi tradizionali diventano irrilevanti rispetto alla tendenza di favorire l’informatizzazione dei lavori archivistici. Secondo Paola Pavan e Daria Viviani è la «mancata responsabilizzazione primaria di Regioni ed enti territoriali» a contribuire a legittimare il ridotto sostegno agli archivi storici locali che registrano «l’impegno di risorse globalmente e in assoluto minore in comparazione ad altri settori culturali su cui gli enti territoriali hanno autonomia regolamentare e di iniziativa» (Ministero per i Beni e le Attività culturali 1999, pp. 421-23).
Con le leggi Bassanini di delega al governo, in particolare con il d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112 per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali, e sulla spinta di una pressione politica orientata all’introduzione di dosi massicce di federalismo, si avvia una nuova redistribuzione delle funzioni amministrative alle regioni e agli altri enti territoriali che investe anche il settore dei beni culturali.
Nonostante la ribadita centralità dello Stato e la permanenza del tradizionale assetto delle responsabilità nel campo degli archivi storici, anche questo settore è investito dai processi di riforma. In quanto riconosciuti a pieno titolo come beni culturali per il loro essere «testimonianza avente valore di civiltà» (art. 148), i beni facenti parte del patrimonio archivistico diventano oggetto, al pari delle altre tipologie dei beni culturali, delle funzioni di valorizzazione («ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione») e di promozione («ogni attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali») attribuite alle regioni a statuto ordinario. Novità che imporranno la scrittura del testo unico del 1999 (d. legisl. nr. 490 del 29 ottobre) e che saranno riconosciute nel Codice del 2004 (d. legisl. nr. 42 del 22 gennaio). Queste novità furono (e lo sono ancora oggi) oggetto di accesi dibattiti nella comunità archivistica tra chi riteneva che la fusione in un solo testo aveva diluito la specificità dei beni archivistici e quindi reso più difficile l’esercizio dell’attività di tutela (P. Carucci, Alcune osservazioni sul Codice dei beni culturali, «Archivi», 2006, 1, pp. 23-40) e chi invece sottolineava i benefici in termini culturali e di efficacia applicativa derivanti dall’approccio unitario a tutta la materia del patrimonio culturale (M.G. Pastura, Tra codice dei beni culturali e codice della privacy: cosa cambia nella disciplina di tutela, conservazione e valorizzazione degli archivi e nel diritto di consultazione e di accesso, «Archivi & Computer», 2004, 4, pp. 37-48).
Non è questa la sede per riportare i dubbi e le osservazioni critiche che, in nome di una tutela intesa come funzione trasversale, furono sollevati da tecnici e studiosi di diritto dei beni culturali nei confronti di una artificiosa differenziazione tra attività di conservazione, conoscenza, valorizzazione, fruizione (solo a titolo esemplificativo, A. Poggi, La difficile attuazione del titolo V: il caso dei beni culturali, http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/poggi_beni.htm; L. Casini, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, «Giornale di diritto amministrativo», 2004, 5, pp. 478-86). La costituzionalizzazione nel 2001, con la riforma del titolo V, della distinzione tra tutela e valorizzazione assunta come linea di confine per la perimetrazione delle competenze tra Stato e regioni non ha attenuato né le dispute né i contrasti, come hanno provato il continuo dibattito e i conflitti istituzionali.
Per quanto riguarda gli archivi, però, la nuova normativa offrì strumenti e spazi per legittimare una collaborazione tra Stato e regioni che, anche se in maniera diseguale sul territorio nazionale, aveva dato dei frutti nella salvaguardia del patrimonio archivistico non statale. Come ebbe a riconoscere Maria Grazia Pastura nella Conferenza nazionale degli archivi del 1998: «Lì dove si è realizzata questa collaborazione ha costituito un punto di forza per un’azione capillare di tutela: risultato che certamente non sarebbe stato possibile raggiungere con i soli mezzi dello Stato o degli enti proprietari degli archivi» (Programmazione e concertazione: strategie e risorse, in Ministero per i Beni e le Attività culturali 1999, p. 98).
Un punto particolarmente importante e innovativo fu la disposizione secondo la quale lo Stato, «anche con la cooperazione delle Regioni», definisce le metodologie comuni da seguire nelle attività di inventariazione e catalogazione (d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112, art. 149). Alla base di questa indicazione vi era la necessità di favorire l’integrazione delle numerose banche dati informatiche descrittive presenti a livello locale e prodotte da diverse istituzioni nonché di predisporre le condizioni per un lavoro comune reso possibile grazie alle potenzialità delle tecnologie web e divenuto improrogabile per rispondere alle nuove modalità di ricerca che richiedevano un approccio integrato alle risorse presenti sul web.
Due regioni in particolare avevano sviluppato il proprio software per la descrizione della documentazione archivistica: si tratta della Lombardia, che realizza la prima versione di Sesamo nel 1992, e del Piemonte, che elabora il programma Guarino nel 1994 per procedere al censimento degli archivi con il duplice obiettivo conoscitivo e gestionale. La normativa da una parte e le tecnologie dall’altra aiutarono i diversi attori istituzionali ad avviare un dialogo che, nel rispetto delle storie locali e delle specificità dei sistemi che nel frattempo erano stati costruiti sui diversi livelli territoriali, registrava una più consapevole percezione dei cambiamenti maturati nel rapporto della società e delle istituzioni con la propria memoria.
Sono questi gli anni in cui sono fioriti molteplici e differenti sistemi informativi archivistici dando luogo a una «frammentazione inquietante» (F. Cavazzani Romanelli, Esperienze a confronto, in Ministero per i Beni e le Attività culturali 1999, p. 67) che, se da una parte rifletteva la resistenza a regole condivise e coordinamento, dall’altra restituiva la ricchezza di esperienze e le diversità di motivazioni politiche e culturali che stanno alla base della costruzione di reti e sistemi informativi. Un panorama che comunque ha prodotto spesso sovrapposizione, mancato recupero dell’esistente, indifferenza a quanto si stava producendo altrove in un’azione di continua sperimentazione spesso inutile oltre che dispendiosa. Competitività più che emulazione ha contraddistinto, per es., la messa in opera da parte dello Stato di ben tre sistemi informativi nazionali, oltre a quelli di alcuni archivi di Stato che hanno sviluppato autonomi sistemi locali: il Sistema informativo unificato per le soprintendenze archivistiche (SIUSA) (http://siusa.archivi.beniculturali.it/), il Sistema informativo degli archivi di Stato (SIAS) (http://www.archivi-sias.it/), il sistema Guida generale degli archivi di Stato (http://www.guidageneralearchivistato.beniculturali.it/). Solo dalla fine del primo decennio del Duemila, attraverso l’Istituto centrale per gli archivi, l’amministrazione statale sta lavorando per offrire l’aggregazione delle informazioni e «un punto di accesso alle informazioni sul patrimonio archivistico italiano pubblicate nel web dai diversi sistemi di descrizione archivistica che vi aderiscono» (http://san.beniculturali.it/web/san/home).
L’esistenza di diversi sistemi archivistici anche all’interno dello stesso territorio regionale portati avanti da differenti attori istituzionali e la presenza di iniziative di varia natura tendenti a marcare sul web la specificità dei patrimoni storici locali riflettono il duplice significato che oggi viene associato all’archivio: da una parte bene culturale per la sua natura di fonte storica per la conoscenza del passato, dall’altra veicolo di memorie alle quali si attribuisce un valore identitario che esalta i particolarismi locali (Giuva, Vitali, Zanni Rosiello 2007, pp. 67-134).
L’istituzionalizzazione della collaborazione, alla fine degli anni Novanta, avvia un rapporto più solido tra enti locali, regioni e soprintendenze archivistiche, alimentando una «semantica della cooperazione in virtù della quale il termine ‘nazionale’ non coincide più con funzioni tout court statali o centrali, ma con funzioni di interesse generale, con funzioni o servizi che riguardano l’intero Paese e in quanto tali ‘nazionali’ indipendentemente dal livello istituzionale [...] una semantica coerente con il policentrismo istituzionale à la Ostram ma anche con quel policentrismo che più in generale caratterizza la nostra storia e la nostra cultura» (C. Leombroni, Stato senza autonomie e regioni senza regionalismo, «Museo in-forma», 2012, 45, p. 11).
Tappe determinanti sono state due occasioni: l’implementazione del SIUSA, una banca dati descrittiva degli archivi storici non statali tutelati attraverso le soprintendenze archivistiche (M.G. Pastura, D. Iozzia, D. Spano, M. Taglioli, Il Sistema informativo unificato per le soprintendenze archivistiche, «Archivi & computer», 2004, 2, pp. 64-77; Riprogettare ‘Anagrafe’: elementi per un nuovo sistema archivistico nazionale, «Rassegna degli archivi di Stato», 2000, 2, pp. 373-454), e l’accordo del 27 marzo 2003 tra Ministero per i Beni e le Attività culturali, regioni, Province autonome di Trento e Bolzano, province, comuni e comunità montane. Quest’ultimo riconosce l’esigenza prioritaria di censire e inventariare il patrimonio archivistico nel suo complesso secondo criteri metodologici unitari e programmi coordinati in relazione sia alle attività da intraprendere sia alle risorse necessarie da destinarsi. Un’enfasi particolare viene posta sulla necessità di costruire sistemi informativi regionali che, ferma restando l’autonomia per le scelte organizzative e le articolazione subregionali, funzionino da strumento di raccordo tra le realtà locali e la dimensione nazionale.
Questa prospettiva è stata resa possibile anche dalla crescita professionale della comunità archivistica, che si è misurata sui temi della normalizzazione descrittiva, nonché dalle potenzialità dei nuovi linguaggi di marcatura funzionali ad architetture informatiche non centralizzate ma flessibili e aperte al dialogo e allo scambio con altri sistemi, peraltro non necessariamente archivistici.
Le esperienze più interessanti sono quelle che si sviluppano in alcune regioni. In Lombardia, grazie all’utilizzo del software Sesamo dal 1992, alle numerose campagne descrittive effettuate e, in ultimo, all’Accordo di programma quadro (APQ) firmato tra Stato e Regione nel 1999, viene elaborato con la Soprintendenza archivistica il Progetto lombardo archivi in Internet (PLAIN) con l’obiettivo di creare un polo locale di descrizioni archivistiche accessibili a distanza. Nel 2003, la banca dati archivistica, strutturata sulla base degli standard descrittivi e collegata con SIUSA, entra nel portale Lombardia storica, poi Lombardia beni culturali, allo scopo di inserire i dati archivistici in un ambito più vasto di risorse culturali (http://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/documentazione/).
In Piemonte l’esistenza fin dal 1992 del software Guarini, individuato dalla Regione come lo strumento per la catalogazione dei beni culturali artistici, storici, architettonici, demoantropologici presenti sul territorio piemontese, e dal 2001 arricchito con la specifica release Guarini Archivi, ha permesso alla regione di accumulare un notevole patrimonio informativo che si aggiungeva a quello già prodotto dalle campagne di inventariazione degli anni Ottanta e che oggi è confluito nel Portale archivistico piemontese, costituitosi nel 2008 (http://www.regione.piemonte.it/guaw/ MenuAction.do; G. Serratrice, Censimento e diffusione sulla rete Internet, «Rassegna degli Archivi di stato», 1999, 1-2-3, pp. 83-5). In Emilia-Romagna si costruisce il portale IBC Archivi con l’obiettivo di integrare e pubblicare on-line le descrizioni degli archivi storici effettuati con vari programmi informatici nonché le descrizioni derivanti dalla banca dati CASt-ER, sviluppata dal 2004 per monitorare lo stato conservativo e dei servizi degli archivi storici degli enti locali (Biblioteche e archivi di ente locale: il censimento 2004, a cura della Soprintendenza per i beni librari e documentari, «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», 2007, 3). Il portale è concepito anche per fornire una piattaforma informatica ai dati archivistici prodotti al di fuori della programmazione regionale purché coerenti e dotati dei necessari requisiti: è il caso del progetto ArchiviaMo promosso nel 2007 con un impegno finanziario dalla Fondazione Cassa di risparmio di Modena per la valorizzazione degli archivi storici del territorio modenese dei secoli 19° e 20° (http://archivi. ibc.regione.emilia-romagna.it/ibc-cms/).
In Veneto il progetto per un sistema archivistico regionale è dal 2010 in fase sperimentale (Regione Veneto, Memoria e innovazione. Nuovi strumenti, nuove esigenze, Atti della Prima giornata regionale degli archivi, Venezia 25 nov. 2011, 2012; http://www.regione.veneto.it/web/cultura/sistema-informativo-archivistico-regionale). Esso parte da una riflessione maturata sulla base di un’indagine conoscitiva sugli strumenti di consultazione archivistici in uso presso i comuni e presso i privati, svolta nel corso del 2004, e in seguito al ciclo di incontri seminariali Sistemi informativi archivistici. Strategie ed esperienze, tenutosi a Padova nella primavera del 2005. Ha alle spalle però l’importante esperienza Ecclesiae Venetae (http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?RicProgetto=ev) iniziata nella primavera del 1996 per l’iniziativa congiunta della Regione, del Ministero per i Beni e le Attività culturali, d’intesa con le autorità ecclesiastiche venete, in omaggio alla tradizione storiografica ecclesiastica locale e aperto al dialogo con il SIUSA e con la Conferenza episcopale italiana.
Spicca l’assenza della Toscana nell’elenco sopracitato. Il protagonismo degli enti locali delegati alla gestione delle risorse e dei progetti, nonché lo sviluppo delle reti documentarie locali, su cui dal 1999 si è appoggiata la politica toscana di intervento culturale nel settore degli archivi e delle biblioteche, hanno probabilmente limitato e ritardato la partecipazione diretta della regione all’elaborazione e al sostegno di progetti con un respiro regionale. Nel Piano della cultura 2012-2015 (l. reg. 25 febbr. 2010 nr. 21) è presente il progetto della realizzazione di un portale regionale per l’accesso unificato alle informazioni sul patrimonio archivistico toscano, che integri le banche dati derivanti da diversi progetti regionali (Censimento degli archivi di personalità tra ’800 e ’900 in Toscana, AST- Recupero e diffusione degli inventari degli archivi storici comunali); implementi il sistema stesso attraverso il sostegno a interventi di inventariazione e valorizzazione del patrimonio archivistico; sia in grado di dialogare con il Sistema archivistico nazionale (SAN).
Troviamo accenni a un sistema regionale nelle Marche, che però ancora non decolla. È del 2002, con un protocollo di intesa tra Soprintendenza archivistica e Regione, lo studio per la realizzazione del Sistema informativo marchigiano (SIAM) che dovrebbe prevedere la compatibilità con il Sistema informativo regionale per il patrimonio culturale (SIRPAC), banca dati costituita in collaborazione con le soprintendenze per i beni archeologici, architettonici e storico-artistici delle Marche (F. Emanuelli, Regione e archivi: realizzazioni e linee programmatiche, «Archivi & computer», 2006, 1, pp. 27-32).
In Umbria, invece, è già consultabile sul web il Polo informativo degli archivi umbri che ha creato un accesso unitario alle numerose banche dati frutto anche dei consistenti investimenti di risorse nazionali ed europee gestite dalla regione in seguito al terremoto del 1997 (M.V. Rogari, La politica della Regione Umbria nell’ambito degli archivi: realizzazioni, progetti, strategie, 2005, http://www.regione. veneto.it/static/www/cultura/Rogari.pdf; per il polo http://www.piau.regioneumbria.eu/default.aspx).
Nel Lazio la precoce esperienza di Rinasco (Recupero inventari archivi storici comunali) relativa all’informatizzazione degli inventari degli archivi comunali (http://www.maas.ccr.it/ProgettoRinasco/default. html) non ha portato alla costruzione di un sistema regionale. Nel Piano settoriale regionale del 2010-12 si indica la necessità di procedere a una ricognizione dei servizi archivistici e dello stato di conservazione e di fruizione della documentazione al fine di costituire una banca dati gestionale e descrittiva integrabile con quella di Rinasco (http://www.culturalazio.it/ binary/prtl_sistem_musei_resina/sm_argomenti/Schema_di_Piano_Settoriale_Regionale_2010_2012.pdf).
Anche in Puglia l’impegno della Regione e della Soprintendenza archivistica non si è ancora tradotto nell’elaborazione di un sistema informativo regionale. Sin dalla fine degli anni Settanta, grazie ai finanziamenti provenienti dalla legge sull’occupazione giovanile (l. 1° giugno 1977 nr. 285) gestiti dallo Stato e dalla regione, si sono realizzate campagne di rilevazioni che hanno prodotto inventari e la messa in sicurezza di molti archivi in particolare comunali e degli enti ecclesiastici, settore quest’ultimo che ha sempre goduto di una attenzione particolare da parte della soprintendenza archivistica e quindi della regione. Consistenti finanziamenti arrivano anche con l’Accordo di programma quadro (APQ) in materia di beni e attività culturali per il territorio pugliese del 2003, che recupera e integra da varie fonti di finanziamento, tra cui il CIPE e l’Unione Europea, 143 milioni di euro, di cui 5 vengono stanziati, in un bando specifico del 2005, per il «sistema archivi», indicato come obiettivo accanto al «sistema biblioteche» e al «sistema musei» (http://www.regione.puglia.it/index.php?anno=xxxvi&page=burp&opz=getfile&file=11.htm&num=51). Anche in questa occasione, preceduto da un’intesa tra Regione Puglia e Conferenza episcopale italiana, si darà spazio ai beni culturali ecclesiastici presenti sul territorio. Da una analisi svolta sul web, risulta che la sola Provincia di Taranto ha nel 2007 organizzato un sistema informativo territoriale archivistico che permette la fruizione a distanza del patrimonio archivistico posseduto dai comuni (http://archivistorici.provincia.ta.it/).
È del marzo 2013 l’obiettivo della Regione Calabria di realizzare il sistema archivistico regionale, oltre che istituire l’archivio storico regionale.
Una tappa importante della collaborazione interistituzionale è la costruzione del Sistema archivistico nazionale (SAN) presentato in forma di progettazione già avanzata alla seconda Conferenza nazionale degli archivi, dal significativo titolo Fare sistema, tenutasi a Bologna nel 2009 (http://www.conferenzanazionalearchivi.beniculturali.it/), e realizzato con un accordo tra Ministero per i Beni e le Attività culturali, le regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano, le province e i comuni. Tra gli obiettivi previsti: l’armonizzazione e la cooperazione tra i sistemi informativi sugli archivi, anche attraverso l’unitarietà di indirizzo e l’omogeneità dei servizi offerti ai cittadini per la fruizione del patrimonio culturale in rete e il raccordo di iniziative regionali e locali con le politiche e le iniziative comunitarie e internazionali.
Nel dicembre del 1998, la Provincia autonoma di Trento organizza un convegno per riflettere sulla costruzione di sistemi in grado di integrare informazioni relative a diversi universi di beni culturali (L’informatizzazione degli archivi storici e l’integrazione con altre banche dati culturali, 2001; la citazione «l’originaria contiguità» che dà il titolo a questo paragrafo è presa da Cavazzana Romanelli, cit., p. 105). Diverso è l’approccio alla questione rispetto agli anni Ottanta, quando la ‘vicinanza’ archivi e biblioteche era stata prevalentemente subita in seguito ai limiti e alle ambiguità della legislazione nazionale e regionale, da una parte, e da sbrigative, anche se fondate, considerazioni di natura economica, dall’altra. Le potenzialità offerte dalle tecnologie più avanzate, l’attenzione verso aspetti disciplinari di confine, l’enfasi politica sulle capacità dei beni culturali di interpretare i tratti distintivi del territorio e di evidenziarne la ricchezza e le vocazioni, l’interesse verso realtà culturali che presentano uno stretto intreccio tra aggregazioni documentarie di diversa natura (pensiamo agli archivi di scrittori, delle case editrici, degli istituti culturali) hanno spinto i professionisti dei beni culturali a prendere in considerazione concetti, strumenti e interventi che rendano possibile la ricomposizione della memoria comune, la riconquista della complessità delle relazioni culturali, spezzate, per motivi di diversa natura, dai processi storici di aggregazione e trasmissione che hanno alimentato la formazione di differenti istituti di conservazione. MAB si chiama il coordinamento tra operatori degli archivi, delle biblioteche, dei musei, nato nella primavera del 2011 «per esplorare le prospettive di convergenza tra i mestieri e gli istituti in cui operano» (http://www.mab-italia.org/).
L’auspicio della costruzione di forme di scambio e di integrazione, o quanto meno di dialogo, fra i diversi settori che compongono il patrimonio culturale si era manifestata già da parte di alcuni rappresentanti regionali (Emilia-Romagna, Lazio, Veneto, Umbria, Piemonte, Lombardia) nel 2001 in occasione degli incontri per la formazione del SIUSA: «Anni di iniziative di censimento e inventariazione hanno prodotto presso molte Regioni preziose basi di dati, talvolta informatizzate, talvolta ancora organizzate in archivi cartacei, per le quali sono in corso iniziative volte alla pubblica fruizione. Molto spesso, presso assessorati e direzioni regionali competenti sull’intera materia dei beni culturali, si rende urgente inserire le copiose e preziose informazioni sui fondi archivistici censiti o inventariati nell’insieme delle banche dati regionali sui beni culturali, dove già sono fruibili le campagne di catalogazione di beni librari e di quelli artistici e architettonici. Rendere disponibili le basi di dati archivistiche per una interrogazione integrata con quelle degli altri beni culturali, non è soltanto una necessità urgente per la loro valorizzazione, ma è anche un importante servizio per gli utenti, nel momento in cui spesso gli archivi inventariati conservano informazioni utili ai fini della conservazione e del recupero di altri beni culturali in particolare quelli architettonici e artistici» (B. Argelli, E. Cento, R. Grassi, M.V. Rogari, G. Serratrice, Sistema informativo unificato delle soprintendenze archivistiche e sistemi archivistici locali, in Sistema informativo unificato per le soprintendenze archivistiche, cit., p. 36).
Il timore della perdita delle particolarità degli specifici beni culturali è stato manifestato soprattutto dalla comunità archivistica che, pur non sottraendosi al confronto, ha messo in guardia sia dall’accumulazione automatica di cataloghi e inventari sia dallo smarrimento delle specificità di contesto.
In molte normative e documenti di programmazione si parla di sistemi integrati. È il caso delle Marche, che lo ha affermato nella Prima conferenza programmatica regionale per la cultura del 2006; e del Lazio, che ne fa un obiettivo di programma nel Piano settoriale 2010-2012. Allo stato attuale, però, questa integrazione culturale tra sistemi informativi relativi a settori diversi dei beni culturali «è più auspicata che regolamentata, più prefigurata che normata» (A. Bettinazzi, Biblioteche, archivi e musei di ente locale: un dialogo impossibile? Spunti per un’impostazione del problema, 2010, p. 23) e soprattutto, anche nei sistemi informativi più avanzati ‒ come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, l’Emilia-Romagna – la cui architettura prevede l’apertura e il dialogo con altre basi di dati, non esistono esempi concreti di questa integrazione.
A distanza di circa quarant’anni dall’istituzione delle regioni, il panorama archivistico italiano è molto cambiato. Non tanto nell’impalcatura amministrativa ‒ che ripropone ancora il modello otto-novecentesco caratterizzato dalla centralità dell’azione dello Stato nella conservazione e nella tutela nonché da una distribuzione delle responsabilità conservative sulla base della natura giuridica dei soggetti produttori ‒ quanto nella fisionomia reale della mappa della conservazione e nel «diverso modo d’essere del circuito della produzione e conservazione della memoria storica» (Documento conclusivo, Seconda conferenza nazionale degli archivi, Bologna 2009, http://www.conferenzanazionalearchivi.it/documenti/CNA2009_DocumentoGeneraleFinale.pdf).
In particolare due sono i fenomeni che hanno inciso su tale trasformazione: uno di natura istituzionale relativo ai processi di redistribuzione dei poteri a livello territoriale; l’altro di natura culturale relativo al diverso rapporto che la società e le istituzioni hanno maturato nei confronti della propria memoria storica. Sono emerse nuove forme organizzate di concentrazione archivistica (gli archivi storici delle regioni, gli istituti e i centri culturali, le fondazioni politiche e culturali, le università, le strutture sindacali, gli stessi soggetti produttori che provano ad attrezzarsi per conservare la documentazione da essi prodotta, le grandi aziende), mentre gli istituti tradizionali, come le sezioni storiche dei comuni, rinnovano le loro funzioni presentandosi come collettori di archivi di interesse locale. Gli archivi di Stato, afflitti anche da cronici e sempre più drammatici problemi di scarsità di risorse, hanno perso la loro centralità sul territorio specularmente al ridimensionamento del ruolo dello Stato sullo stesso; anche in seguito a privatizzazione e a passaggi di funzioni dalla Stato a enti pubblici non territoriali, la documentazione che andrebbe versata negli archivi di Stato, se ci fosse lo spazio necessario, si è ridimensionata (dal punto di vista qualitativo, non certo quantitativo). Si è così prodotto un mutamento nella rappresentazione documentaria del potere pubblico sul territorio.
Le regioni sono state tra i protagonisti della trasformazione della mappa conservativa non solo in quanto nuovo soggetto produttore e conservatore, con grandi potenzialità attrattive verso gli archivi di interesse locale, ma anche perché hanno sollecitato la «pluralizzazione» archivistica e sostenuto il protagonismo degli enti locali nel campo delle politiche culturali attraverso normative e contributi finanziari.
La scarsità dei dati disaggregati (in particolare tra archivi e biblioteche) non ha permesso l’utilizzazione di informazioni di tipo seriale, ulteriore prova dell’attenzione residuale dimostrata nei confronti di questo settore. Comunque è possibile individuare alcune tendenze e sviluppare alcune osservazioni. La prima riguarda le ampie deleghe agli enti locali in materia di beni culturali che sembrerebbero confermare, anche in questo campo, il punto di vista di chi sostiene che in Italia i veri processi di decentramento si concretizzano attraverso il rafforzamento e il protagonismo degli enti locali territoriali. In tutti i casi, le regioni hanno svolto il ruolo di finanziatori, hanno intercettato e organizzato le risorse statali ed europee, le hanno ridistribuite sul territorio secondo criteri la cui definizione si è maggiormente affinata dalla fine degli anni Novanta quando, in seguito anche allo sviluppo della programmazione negoziata tra Stato e regioni attraverso le intese istituzionali e gli accordi di programma quadro, hanno assunto in maniera più consapevole un ruolo di coordinamento. In molte leggi regionali, soprattutto in Emilia-Romagna e Toscana, anche per la precocità e la chiarezza del loro intervento, questa «catena» di responsabilità era esplicita, normata, sollecitata. Del resto, per gli archivi, ma in genere per tutti i beni culturali, l’enfasi posta sul legame con il territorio, in termini addirittura identitari, comportava «sul piano istituzionale un legame prioritario con le autonomie locali» (Leombroni, Stato senza autonomie e regioni senza regionalismo, cit., p. 11).
Tutte le regioni italiane sono intervenute nel settore archivistico: alcune con normative più organiche, altre con poche norme, altre ancora solo con lo stanziamento di finanziamenti. Dal quadro emerge la presenza anche per gli archivi di una questione meridionale che si caratterizza non tanto per la carenza di fondi destinati alle regioni del Sud (che anzi sono privilegiate grazie alle risorse europee e ai finanziamenti derivanti dai progetti speciali dello Stato gestiti entrambi in larga misura della amministrazioni regionali) quanto per mancanza di progettualità e di programmazione. Potrebbe essere confermata la tesi di Robert D. Putman a proposito del ruolo svolto dalla civic community: le regioni che determinano le linee di sviluppo, investono in progettualità, disegnano modelli di interventi sono quelle che, per tradizione storica, vedono una maggiore partecipazione dei «portatori di interesse», un protagonismo della società civile anche a farsi carico di iniziative e progetti, la presenza di istituti archivistici statali che con il peso della loro tradizione e della vivacità culturale, hanno inciso nella creazione di circuiti virtuosi.
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Tutte le pagine web citate nel saggio si intendono visitate per l’ultima volta l’11 dicembre 2013.