ROMITA, Giuseppe
– Nacque a Tortona (Alessandria) il 7 gennaio 1887 da Maria Gianelli e da Guglielmo, contadino e capomastro.
Crebbe in una famiglia numerosa – con due fratelli e tre sorelle – in condizioni di vita modeste. Frequentò le scuole inferiori e medie a Tortona; conseguì il diploma di geometra ad Alessandria, dove aderì, nel 1904, al Partito socialista italiano. Nel 1907, si iscrisse alla facoltà di ingegneria del Politecnico di Torino, insegnando matematica in una scuola serale. Fu attivo protagonista del movimento socialista torinese e del dibattito politico cittadino; il primo intervento pubblico avvenne nel 1909, in un confronto su Socialismo e cattolicesimo di fronte alla questione sociale, nel corso del quale emerse chiaramente il suo anticlericalismo, inteso ad «affermare la sovranità della scienza sul dogma» (Sapelli, 1978, p. 376). Aderì alla sezione torinese della Federazione italiana giovanile socialista (FIGS), divenendo corrispondente dell’Avanguardia, organo ufficiale della FIGS, e membro del consiglio nazionale della Federazione. Fu tra i fondatori del fascio giovanile socialista di Torino, impegnandosi nella propaganda antimilitarista.
Nel 1910, al congresso nazionale della FIGS, contestò la monarchia, chiedendo che il PSI si schierasse a favore della repubblica. In quegli anni cresceva fra i socialisti l’insofferenza per i governi giolittiani e, nel 1911, le manifestazioni contro la guerra di Libia aprirono la stagione dell’«intransigenza», alimentata dai risultati del congresso di Reggio Emilia del 1912 e dal direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, del quale Romita non condivideva, in particolare, la dura critica alle istituzioni solidaristiche di tradizione riformista. Laureatosi in ingegneria, nel 1913, divenne segretario della sezione socialista torinese e direttore del Grido del popolo, dimostrando buone capacità oratorie e non escludendo uno sbocco rivoluzionario della protesta politica. Nel 1914 fu condannato a due mesi di reclusione per le sue posizioni antimonarchiche e lo stesso anno fu eletto consigliere comunale a Tortona e a Torino.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, esonerato dal servizio militare, Romita fu tra i fondatori, nel 1916, del movimento antimilitarista Soldo al soldato. Protagonista della ‘rivolta del pane’ di Torino nel 1917, venne arrestato e trascorse alcuni mesi nelle carceri Le Nuove, fino al proscioglimento, nel 1918. Terminata la guerra, fu vicino al massimalismo di Giacinto Menotti Serrati e, nel 1919, venne eletto in Parlamento. Nel 1920 sposò Maria Stella, di origini tortonesi, dalla quale ebbe due figli: Gemma (1922) e Pier Luigi (v. la voce in questo Dizionario), il quale gli succedette in Parlamento nel 1958. Garantì alla sua famiglia una relativa agiatezza, grazie anche all’intensa attività come ingegnere libero professionista.
Durante il ‘biennio rosso’, nel 1920 Romita fu il primo degli eletti al Consiglio comunale di Torino; dalle pagine del Grido del popolo e del Popolo socialista, denunciò le divisioni interne al PSI e propose la costituzione di milizie operaie contro le squadre fasciste. Con la scissione di Livorno del 1921 e la nascita del Partito comunista d’Italia, rimase nelle fila socialiste e fu riconfermato in Parlamento. Al congresso nazionale del PSI del 1922, si schierò contro i massimalisti, ma non riuscì a evitare la fuoriuscita dei riformisti che diedero vita al Partito socialista unitario; confermò la sua adesione al PSI e nel congresso del 1923 difese l’autonomismo socialista, chiedendo una maggiore e più libera dialettica interna.
Dopo la marcia su Roma, fu rieletto in Parlamento, nel 1924. Con lo scioglimento dei partiti, nel 1926, decise di restare in Italia, per proseguire l’attività professionale, ma fu arrestato nella sua casa, a Mongreno, sulle colline torinesi, e tradotto nelle carceri Le Nuove. Fu condannato per attività contraria al regime fascista a cinque anni di confino, prima a Pantelleria, poi a Ustica. Nel 1927 fu trasferito a Palermo, nel carcere dell’Ucciardone, con l’accusa di aver costituito un’organizzazione clandestina antifascista; fu poi condotto nel penitenziario di Salerno. Nel 1928 venne prosciolto e confinato a Ponza; ottenne, nel 1929, la libertà condizionata e fu espulso dall’albo degli ingegneri. Nel 1930, tornato a Torino, partecipò alla riorganizzazione del movimento socialista, ma fu arrestato nel 1931. Condannato nuovamente al confino, fu trasferito a Veroli (Frosinone), dove rimase con la famiglia fino al 1933, allorquando Mussolini ne dispose la libertà condizionata; lo stesso anno, si stabilì a Roma riprendendo l’attività professionale.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1942 Romita partecipò alla ricostituzione del PSI, di cui divenne segretario; suo punto di riferimento fu il Centro estero di Ignazio Silone, legato a posizioni riformiste, internazionaliste e pacifiste. Dopo il 25 luglio 1943 firmò il patto di unità d’azione con il Partito comunista italiano; subito dopo, il PSI si fuse con il Movimento di unità proletaria di Lelio Basso, dando vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), di cui Pietro Nenni fu nominato segretario, divenendo anche direttore dell’Avanti!. Romita entrò nella direzione del nuovo partito e, dopo l’armistizio dell’8 settembre, rappresentò il PSIUP nel Comitato di liberazione nazionale. Con la riconquista di Roma, nel 1944, fu nominato vicepresidente della Camera dei deputati e, nel 1945, con la liberazione del Nord Italia, fu chiamato a dirigere l’edizione torinese dell’Avanti!. Nominato ministro dei Lavori pubblici nel governo presieduto da Ferruccio Parri, entrò a far parte della Consulta nazionale.
A Parri succedette Alcide De Gasperi, nel dicembre del 1945, e nel nuovo governo Romita fu nominato ministro dell’Interno. A capo di una struttura in gran parte ancora fedele alla monarchia, fu il principale responsabile dell’organizzazione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946: mantenne l’ordine pubblico durante la campagna elettorale, respinse la richiesta monarchica di rinvio della consultazione referendaria e indisse, nella primavera del 1946, le elezioni amministrative in quei centri dell’Italia settentrionale dove – come ebbe successivamente ad affermare – era prevedibile un successo dei partiti repubblicani. «Fu questo – scrisse nel 1959 – il cardine della mia politica per portare in Italia la Repubblica. Non feci brogli, mai; non tolsi un voto alla Monarchia, non ne diedi uno alla Repubblica […]. Nell’orientarmi, quindi, per la scelta dei comuni dove si doveva votare nella prima tornata, verso quelli a prevedibile maggioranza repubblicana, ho la coscienza di non aver commesso alcuna scorrettezza, di aver svolto soltanto quel minimo di politica di parte, che ad ogni ministro deve essere consentita» (Dalla monarchia alla repubblica, 1959, pp. 108-110). Fu accusato dai monarchici di brogli a favore della Repubblica per il fatto che i risultati del referendum erano stati resi pubblici solo il 5 giugno; in realtà, Romita garantì l’ordine pubblico, poiché i primi dati che giunsero dal Sud Italia davano in vantaggio la monarchia, mentre, successivamente, con l’arrivo dei dati dal Nord, il risultato cambiò a favore della Repubblica. Tuttavia, sulla questione la storiografia resta ancora divisa.
I socialisti uscirono vincitori dall’elezione dell’Assemblea costituente, superando il PCI. Romita – eletto nella circoscrizione Piemonte Sud – coerentemente con le posizioni laiche del PSIUP votò contro l’articolo 7 e l’inserimento del Concordato nella carta costituzionale, opponendosi anche all’istituzione delle regioni, a tutela dell’integrità nazionale.
Con l’avvio della ricostruzione, Romita tornò alla guida del ministero dei Lavori pubblici nel secondo governo De Gasperi. Promosse le infrastrutture per favorire l’occupazione e gli impianti per la produzione di energia elettrica; ripristinò la grande viabilità e stanziò fondi per nuove linee ferroviarie e per opere idrauliche e marittime, sostenendo il Mezzogiorno attraverso la realizzazione di acquedotti e la creazione di consorzi fra enti locali.
Non aderì alla scissione di palazzo Barberini del 1947 e alla nascita del Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), considerando l’iniziativa di Giuseppe Saragat un errore tattico; rimasto nel suo partito, che riassunse la denominazione di Partito socialista italiano, divenne il punto di riferimento degli autonomisti, denunciando l’unità d’azione con i comunisti e intensificando il dialogo con il PSLI. Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel terzo governo De Gasperi fino al maggio del 1947, quando le sinistre passarono all’opposizione, fu contrario alla costituzione del Fronte democratico popolare per le elezioni dell’aprile del 1948, anche se al congresso socialista, nel gennaio, la corrente autonomista si dichiarò, infine, favorevole a esso, a condizione che PSI e PCI presentassero liste separate. La proposta, tuttavia, restò minoritaria.
La sconfitta del Fronte – e dei socialisti, in particolare, che ottennero 42 deputati su 183 eletti nelle liste unitarie con i comunisti – portò a un congresso straordinario del PSI che vide prevalere i «centristi» di Alberto Jacometti sulla sinistra di Nenni; entrato in Senato come membro di diritto, Romita restò fuori dalla direzione. Fondò la rivista Panorama socialista, suscitando la disapprovazione della dirigenza del partito, e, in un clima politico condizionato dalla guerra fredda, presentò, nell’ottobre del 1948, con l’Unione dei socialisti (UDS) di Silone e la sinistra del PSLI, guidata da Ugo Guido Mondolfo, un documento per l’unificazione socialista. La direzione del PSI, a questo punto, lo sospese per sei mesi.
Nel congresso socialista del 1949 la sinistra riconquistò la maggioranza e Romita – contrario al Patto atlantico, in linea con le posizioni terzaforziste del Committee of the international socialist conference (COMISCO) – pubblicò con l’UDS un appello per l’unificazione, che suscitò la dura reazione di Nenni. Decise, quindi, di dimettersi dal PSI. «Alla scissione di palazzo Barberini – scrisse –, provocata dalla rapida messa al passo del partito da parte di un ‘apparato’, Nenni non credette e non agì per evitarla […]. Poi, fidandosi nella sua maggioranza sottovalutò la scissione già avvenuta, irrise Saragat […] e lo dichiarò finito, impose al partito il ‘Fronte’, che noi autonomisti non volevamo […]. Se Nenni avesse avuto la metà della nostra buona volontà unitaria […] oggi il partito sarebbe un unico grande forte partito socialista» (G. Romita, Nenni e l’unità socialista, in La Voce socialista, 1° novembre 1952, p. 1).
Fu costituito a Firenze, nel 1949, il Partito socialista unitario (PSU), che riuniva le correnti di centrosinistra del PSLI, l’UDS e gli autonomisti di Romita e che – ottenuto il riconoscimento del COMISCO – si schierò contro la collaborazione governativa, rifiutando il Patto atlantico e assumendo una posizione neutralista in politica estera.
Al secondo congresso del PSU, nel 1951, la mozione di Romita ottenne la maggioranza e ciò lo indusse a presentare con Saragat un documento per l’unificazione con il PSLI. Lo stesso anno nacque il Partito socialista – Sezione italiana dell’Internazionale socialista, che non entrò nel governo, pur accettando il Patto atlantico, ma come alleanza difensiva contro il comunismo. Romita fu anche favorevole alla creazione della Comunità europea di difesa, a sostegno del processo d’integrazione europea. «Non esistono, infatti, in occidente – precisava –, possibilità di affermazione socialista democratica se non nella cornice della difesa così del paese come delle istituzioni con le indispensabili alleanze […]. L’altra prospettiva […] del rovesciamento delle alleanze, della ripresa rivoluzionaria, non è una prospettiva seria […]. Per i socialisti lottare nella democrazia significa lottare senza avere dietro di sé i campi di concentramento della Siberia e del lontano nord, i colpi di stato delle democrazie popolari e la subordinazione alla politica sovietica. Significa […] lottare fuori da ogni compromesso con essi [i comunisti], su una base di democrazia senza riserve e sorprese» (G. Romita, Prospettive socialiste, in La Voce socialista, 5 giugno 1952, p. 1). Al congresso di Bologna del gennaio del 1952, il nuovo partito assunse la denominazione di Partito socialista democratico italiano e Romita ne divenne segretario nazionale. Pubblicò Origini, crisi e sviluppo del socialismo italiano (Roma 1952) e riprese il dialogo con il PSI, suscitando la dura reazione della DC e dell’ala moderata del PSDI, a tal punto che, nel successivo congresso dell’ottobre, la segreteria ritornò a Saragat.
La battuta d’arresto dei partiti democratici alle elezioni amministrative del 1952 pose un problema di stabilità per la maggioranza governativa. Si temeva che nelle successive elezioni politiche del 1953 sarebbero prevalse le forze estreme. Per questa ragione, Romita, nonostante avesse per lungo tempo sostenuto il sistema proporzionale corretto, appoggiò Saragat e si dichiarò favorevole alla riforma elettorale – la cosiddetta «legge truffa» – con l’introduzione di un premio di maggioranza per la coalizione che avesse raggiunto il 50% dei voti. Ciò portò la corrente di sinistra a uscire dal PSDI e con il Movimento di Unità popolare, guidato da Piero Calamandrei e Tristano Codignola, a essere decisiva per non far scattare il premio di maggioranza. A questo punto, Romita, eletto alla Camera dei deputati, si dichiarò – in sintonia con Saragat – favorevole a un ritorno dei socialisti democratici nella compagine ministeriale, per impedire uno scivolamento del governo verso destra: gli venne nuovamente affidato il dicastero dei Lavori pubblici, prima nel governo diretto da Mario Scelba, poi in quello presieduto da Antonio Segni. Le sue iniziative, con il piano autostradale e quello per le case popolari, la costruzione di acquedotti e il rafforzamento del sistema portuale furono determinanti per l’avvio del «miracolo economico italiano».
Da ministro, Romita non abbandonò la sfida per l’unificazione socialista. Questa sua lunga battaglia conobbe un momento di slancio con l’incontro di Saragat e Nenni a Pralognan, nel 1956; lo stesso anno – eletto consigliere comunale a Torino e Roma – pubblicò a Roma Prospettive di una politica di unità socialista. «Noi siamo democratici – aveva dichiarato nel 1954 – perché pensiamo che solo in un ordine socialista libero la classe lavoratrice possa veramente emanciparsi. Nel comunismo noi ravvisiamo un grave ostacolo a questa effettiva emancipazione. Per noi il nemico è dovunque vi sia un tentativo di sottrarre ai lavoratori l’arma più potente delle loro lotte che è la libertà politica» (Atti parlamentari dell’assemblea, anno 1954, Camera dei deputati, 2ª legislatura, Discussioni, 28 gennaio 1954, I, Roma 1954, p. 5240). Al congresso del PSDI, nel 1957, la sua mozione raccolse il 22% dei consensi: la via per la riunificazione socialista era ancora lunga. Un obiettivo che Romita perseguì per tutta la vita e che si realizzò nel 1966, quasi dieci anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma, per un infarto cardiaco, il 15 marzo 1958.
Opere. Il nostro sì alla CED è un sì all’Europa, alla distensione internazionale, alla pace, Roma 1954; Panorama socialista, Roma 1956; Dalla monarchia alla repubblica, Pisa 1959; Taccuini politici (1947-1958), Milano 1980.
Fonti e Bibl.: Torino, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Fondo G. R.; Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, R. G. Inoltre: A. Sessi, Una vita per il socialismo, Roma 1963, ad ind.; R. Puletti, G. R. e la democrazia socialista (1900-1945), Parma 1974; G. Sapelli, R. G., in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci - T. Detti, IV, Roma 1978, pp. 375-380; F. Boiardi, G. R., in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia 1861-1988, XIV, 1946-1957, Repubblica e costituzione, Milano 1989, pp. 543-565; F. Fornaro, G. R.: l’autonomia socialista e la battaglia per la Repubblica, Milano 1996; Camera dei Deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/ deputato /giuseppe-romita-18870107#nav (16 gennaio 2017).