PECCI, Giuseppe
PECCI, Giuseppe. – Nacque a Carpineto Romano (vicino a Roma) il 13 dicembre 1807 dal conte Lodovico, colonnello dell’esercito di Napoleone, e da Anna Prosperi-Buzzi di Rienzi, contessa di Cori e lontana discendente di Cola di Rienzo. Era il quinto di sette fratelli: Carlo, Anna Maria, Caterina, Giovanni Battista, i maggiori; Gioacchino e Ferdinando, i minori.
Si formò presso il Collegio dei gesuiti di Viterbo, dove era entrato – insieme al fratello Gioacchino – nel 1818. Qui, nel corso degli studi di grammatica, umanità, retorica e filosofia, Pecci si distinse nella composizione poetica, specialmente in lingua latina. Nel 1824, poco dopo la morte della madre, entrò nella Compagnia di Gesù, e proseguì i suoi studi filosofici e teologici presso il Collegio romano (la futura Università Gregoriana). Prese i voti nel 1828 e ben presto fu inviato nei collegi gesuitici di Urbino, prima, e di Forlì, poi, per insegnarvi – rispettivamente – umanità e retorica (ma anche matematica). Nel 1837 fu ordinato sacerdote e, per un breve periodo, risiedette a Roma, assistendo con generosità le vittime di un’epidemia di colera che in quello stesso anno aveva colpito la città.
Sempre nel 1837 fu trasferito a Modena e, nel 1838, a Reggio Emilia, dove insegnò matematica, fisica e filosofia. Durante il suo insegnamento negli Studi emiliani della Compagnia, conobbe il padre Serafino Sordi (l’incontro avvenne a Modena nel 1830, quando Sordi era docente di filosofia presso gli Studi gesuitici). Sordi lo introdusse alla comprensione dei testi di Tommaso d’Aquino e dimostrò poi sempre stima nei confronti del giovane collega – come avrebbe in seguito ricordato il cardinale Lucido M. Parocchi nel suo elogio funebre di Pecci.
Nel 1847 fu invitato a insegnare filosofia al Collegio romano, ma all’avvento della Repubblica romana, che aveva decretato l’espulsione della Compagnia di Gesù, si ritirò nella casa natale di Carpineto. Caduta la Repubblica, e di nuovo invitato a Roma, sia a insegnare sia a ricoprire incarichi ecclesiastici, preferì restare a Carpineto dedicandosi interamente allo studio del pensiero di Tommaso. Accettò invece, di lì a poco, l’invito del fratello Gioacchino che, diventato vescovo di Perugia, gli offriva un insegnamento presso il locale seminario vescovile, che durò dal 1849 al 1859. Sempre a Perugia collaborò con il fratello all’istituzione della locale Accademia di S. Tommaso, ispirata dal padre Sordi.
Perugia fu teatro, nel giugno del 1859, di una rivolta che intendeva preparare l’annessione della città al Regno sabaudo. I rivoltosi avevano minacciato il vescovo e Pecci fu costretto a nascondere il fratello nel proprio appartamento, per evitargli una probabile aggressione. Dopo l’occupazione piemontese della città (1860) tornò a Roma, dove il papa Pio IX gli offrì, all’Università La Sapienza, la cattedra di filosofia che era stata di Carlo Passaglia, e lo nominò membro della commissione teologica incaricata di preparare i lavori del Concilio Vaticano (1869-70). Dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870), Pecci fu tra i docenti che si rifiutarono di prestare giuramento al Regno. Si ritirò quindi dall’incarico, e tenne corsi di filosofia del diritto presso l’Istituto di conferenze giuridico-filosofiche di palazzo Spada (corsi poi pubblicati dal periodico parigino La Défense).
Nel 1878 il conclave, convocato dopo la morte di Pio IX, elesse al soglio pontificio il fratello Gioacchino, che assunse il nome di Leone XIII. Tra i primi provvedimenti del nuovo papa vi fu il riordino della Biblioteca apostolica Vaticana, ai fini della sua apertura al pubblico. Ne nominò prefetto Franz Ehrle SJ e bibliotecario il fratello Giuseppe: dal censimento da loro promosso emerse un patrimonio di circa 1.600.000 volumi. Nel concistoro del 1879 Pecci fu creato cardinale dell’Ordine dei diaconi (con la titolarità di S. Agata dei Goti): a tutt’oggi, ultimo membro della famiglia di un papa a essere diventato principe della Chiesa.
Nell’agosto del 1879 Leone XIII emanò l’enciclica Aeterni Patris, con la quale imponeva lo studio del pensiero tomista nei seminari e nelle scuole cattoliche. Nell’ottobre dello stesso anno, Leone XIII istituì la Pontificia accademia di S. Tommaso d’Aquino, della quale il primo prefetto fu proprio Pecci.
L’Accademia nasceva con il compito di formare nuove generazioni di studiosi tomisti e con l’intento di favorire la realizzazione di un’edizione critica dell’Opera omnia dell’Aquinate. Pecci fu, per breve tempo, anche prefetto della Sacra congregazione degli studi, carica dalla quale si dimise anzitempo per sopravvenuti problemi di salute.
Dagli opuscoli filosofici che di Pecci sono rimasti (tutti in lingua italiana) emerge il profilo di uno studioso severo e sottile, che – non senza addentramenti originali – restituisce nella sua vivacità il pensiero di Tommaso d’Aquino, assumendo come oggetti polemici privilegiati le filosofie di Immanuel Kant e di Antonio Rosmini, secondo una propensione controversistica ereditata con ogni evidenza da Serafino Sordi.
La sua proposta filosofica è strettamente legata alla testualità tommasiana, in genere letta secondo il Cajetanus, la cui linea interpretativa viene privilegiata rispetto a quella degli altri tomisti moderni (ad esempio, Francisco Suárez). Lo si coglie bene dalla Parafrasi e dichiarazione dell’opuscolo di S. Tommaso De ente et essentia (Roma 1882), dove Pecci individua nell’ilemorfismo (e nell’inconsistenza della «pura materia») la base dell’intera filosofia tomista (p. 15). Quanto alle controintuitività cui alcuni aspetti di tale filosofia sembrano dar luogo, egli osserva che «le difficoltà [non] possono mai essere […] una ragion sufficiente per negare una cosa, la quale altronde si prova necessaria e incontestabile» (p. 9).
Il testo più organico che resta di Pecci sono gli Studi sulla psicologia (Roma 1889), dove egli ricostruisce alcuni capisaldi della psicologia filosofica tomista, insistendo sul carattere universalmente aperto che caratterizza l’intendere e il volere degli esseri umani rispetto a quello degli animali bruti, capaci di aprirsi solo a oggetti particolari (pp. 253-254). L’«appetito dei bruti» (pp. 317-326) è sì capace di confrontare tra loro dei beni finiti (virtus aestimativa), valutandone comparativamente vantaggi e nocumenti, ma lo fa senza riferirli all’orizzonte del bene in quanto tale, e quindi senza riflettere sul proprio giudizio (perciò senza «elezione» e senza possibile alternativa nell’esito degli apprezzamenti).
Pecci difende dalle critiche di Rosmini (Antropologia in servizio della scienza morale, l. III, sez. 2, a. 2) la circolarità che Tommaso propone tra intelletto e volontà (Summa theologiae, I, 78, 4), mostrandone il carattere non vizioso: ciascuna delle due facoltà, avendo portata trascendentale, può assumere e relativizzare l’altra come oggetto entro il proprio orizzonte (Studi sulla psicologia, pp. 263-270). Mette poi accuratamente a tema la figura del libero arbitrio, che è l’esercizio della volontà in vista del fine ultimo, quando manchi l’immediata evidenza della configurazione concreta di tale fine e, di conseguenza, del suo determinato nesso con le azioni accessibili al soggetto (pp. 272-295). L’atto di scelta (electio) può essere inteso come una struttura ilemorfica, in cui l’appetizione è l’elemento «materiale» e il giudizio che la flette su un certo contenuto è l’elemento «formale» (p. 297).
Anche su questo tema indugia nella polemica con l’antropologia rosminiana (siamo – non va dimenticato – nel periodo del decreto Post obitum). Nella fattispecie, comunque, la polemica appare non aderente, in quanto impostata sul rifiuto pregiudiziale del platonismo rosminiano per cui la ‘forma’ dell’intelletto (e quindi della volontà) coincide con l’oggettività dell’essere (pp. 312-317). Una notevole attenzione Pecci dedica al «giudizio ultimo pratico»: momento culminante della scelta, cui Tommaso allude in De veritate, 24, 2 (parlando di «judicium de particulari operabili») e che sarebbe stato oggetto di accaniti dibattiti, nella seconda scolastica, tra Roberto Bellarmino che lo enfatizza (De gratia et libero arbitrio, III, VIII) e Suárez che lo nega (Metaphysicae disputationes, XIV, VI). Per prevenire aporie, Pecci riconosce un ruolo al giudizio ultimo pratico, ma non cogente rispetto al volere.
In generale, Pecci riflette sul ruolo del giudizio nella scelta. Anche nella scelta consapevolmente maliziosa si dà seguito a un giudizio di convenienza: la scelta infatti, anche quando non è conforme a ragione, non è mai priva di ragioni (consistendo sempre nella, pur disordinata, scelta di un bene). La malizia, insomma, contraddice il giudizio «speculativo», ma non quello «pratico»: per cui, se anche so che rubare è male, posso giudicare che per me qui e ora (in particulari) sia preferibile al non rubare. In realtà, quanto più amiamo il bene ultimo, tanto più saremo attenti nella scelta dei beni infravalenti più efficaci a perseguirlo (benché di nessuno di essi compaia il nesso necessario con il bene ultimo; Studi sulla psicologia, pp. 303-312).
Nell’opuscolo Sulla sentenza di Tommaso circa l’influsso di Dio sulle azioni delle creature ragionevoli e sulla scienza media (Roma 1885), Pecci affronta il tema della prescienza che, in prospettiva tomista, fa tutt’uno con quello della creazione. In polemica con molta seconda scolastica, esclude che Tommaso abbia parlato di «concorso» divino nelle azioni umane: egli parlava piuttosto di «mozione».
In effetti, Dio è l’unica fonte effettiva di ogni «atto primo» e «secondo», compreso l’agire umano. Più precisamente, Dio opera in ogni operante, anche in quanto è dator formarum: «l’influsso divino è conforme alle nature vere delle cagioni seconde; e quindi hoc ipso che Dio fa che l’operazione sia mia, fa pure che sia libera, se io sono un agente libero» (p. 15). Ogni realtà, dunque, è creata secondo una propria natura che, nel caso dell’uomo, è libera: per questo si può dire che l’azione umana sia tutta del Creatore e tutta dell’uomo, «secundum alium modum» (p. 7; Summa theologiae, I, 23, 5); e la volontà non ha bisogno (contro i bannesiani) di altre mozioni oltre a quella – radicale – al bene, in cui è costituita dal Creatore (Summa theologiae, I, 100, 3-4).
Dio conosce i futuri contingenti, in quanto implicati, non essenzialmente, ma di fatto, nella creazione. Allo scopo non deve moltiplicare la propria eternità in istanti, bensì stare nella immoltiplicabile eternità del suo punto di vista di Creatore. Pecci contesta quella trattatistica scolastica moderna che distingue, nella divina «scienza di visione», tra «rigorosa» e «media» (quest’ultima riguardante i futuri contingenti): a suo giudizio, mentre l’uomo ha dei futuri contingenti una conoscenza solo congetturale, Dio li conosce creandoli, e quindi come enti determinati e in atto (e non meramente logici) – benché rispetto a essi la Sua volontà sia «indifferente», cioè rispettosa della libertà umana. La «scienza media» – di ascendenza molinista – sarebbe invece un sapere previsionale ex hypotesi, per cui, se Dio dà a una persona una certa ispirazione ad agire, sa che ciò che Egli ha ispirato verrà – liberamente – attuato da quella persona (Sulla sentenza di Tommaso, pp. 25-49).
Nelle Osservazioni sopra alcuni errori di Kant (Roma 1886) Pecci si confronta non con la testualità kantiana, bensì con la recensione che, della Kritik der reinen Vernunft, offriva Pasquale Galluppi nelle sue Lettere filosofiche (Firenze 1840). Il suo autentico oggetto polemico è lo gnoseologismo moderno (di cui Kant rappresentava la variante più raffinata). Dire che noi conosciamo solo le idee delle cose può avere un unico significato non contraddittorio: che noi conosciamo le cose in forma ideale. Infatti l’idea è idea di qualche oggetto, e non un che di autoreferenziale (Osservazioni sopra alcuni errori di Kant, cit., pp. 5-6). Lo gnoseologismo pone, invece, contraddittoriamente, l’astratto (l’idea) come un concreto (p. 8). Del resto, sostenere che ciò che ci è noto non è la cosa in sé, ma solo una sua rappresentazione (l’esperienza della cosa), implica che ci sia nota anche la realtà in sé, cioè l’originale della rappresentazione (pp. 38-39).
Quanto al sistema kantiano, Pecci contesta l’apriorità dello spazio e del tempo, che sostiene siano – aristotelicamente – astrazioni tratte dalla concretezza dei corpi. In generale, a suo avviso, le «condizioni a priori dell’esperienza», in tanto in quanto non sono adeguatamente fondate a loro volta nell’esperienza, sono arbitrariamente introdotte (pp. 12-21). La distinzione tra giudizi analitici e sintetici pare a Pecci non adeguata, dal momento che il giudizio in quanto tale è articolazione analitica, in soggetto e predicato, di una sintesi. La vera differenza è tra i vari tipi di implicazione analitica: in alcuni, la negazione dell’implicazione dà luogo a impossibilità assoluta, in altri a impossibilità condizionale (pp. 47-50).
Nel 1888 – dopo un ictus, al quale ne sarebbe seguito un altro – Pecci fece bruciare dai servitori i suoi scritti (tra i quali un corso di filosofia e una storia critica dei sistemi filosofici moderni). Della sua produzione strettamente teoretica restano quattro brevi monografie e alcuni articoli pubblicati da La civiltà cattolica.
Morì a Roma l’8 febbraio 1890.
Fonti e Bibl.: B. Kühne, Unser Heiliger Vater Papst Leo XIII: in seinem Leben und wirken, Einsiedeln 1880, p. 247; Acta Leonis XIII PM, Romae 1881, Acta, I, 35 ff. Anonymus, Il Cardinale G. P., a cura della Sezione scientifico letteraria del Circolo dell’Immacolata della gioventù di Roma, Roma 1890; P. Dezza, Alle origini del neotomismo, Milano 1940, pp. 55-56, 105-110; N. Del Re, Il tomista G. P., in Atti dell’VIII Congresso tomistico internazionale, II, Città del Vaticano 1981, pp. 468-475.