PAPPACODA, Giuseppe
– Nacque il 12 maggio 1692 a Centola, in Principato Citra, cadetto di Domenico, primo principe di quella terra, nonché marchese di Pisciotta e signore di Cuccaro, San Serio e Molfa, e di Giovanna Pappacoda dei principi di Triggiano.
La famiglia, ascritta al seggio di Porto della città di Napoli, aveva accresciuto il proprio prestigio sotto gli Angiò-Durazzo grazie ad Artuso, che era stato condottiero e consigliere dei re Ladislao e Giovanna II e che, tra l’altro, aveva voluto sancire il successo conseguito facendo edificare nella capitale partenopea la cappella Pappacoda, ubicata nei pressi della basilica di S. Giovanni Maggiore. I discendenti di Artuso avevano adito al possesso feudale e tra Quattro e Cinquecento avevano dato origine a diversi rami del lignaggio che avevano mantenuto saldi legami nel tempo. Cadetto dei baroni di Massafra, castellano di Bari e favorito di Bona Sforza, ultima duchessa della città adriatica e regina di Polonia, intorno alla metà del XVI secolo Gian Lorenzo Pappacoda era stato investito di alcuni feudi in Terra di Bari, tra cui Triggiano e Capurso, che, all’inizio del Seicento, erano passati alla sua ultima discendente diretta, la nipote Giovanna, coniugata con Ercole Pappacoda del ramo di Pisciotta e omonima ava della principessa di Centola.
Il fratello maggiore di Giuseppe, Salvatore Francesco, nato a Pisciotta il 28 giugno 1688, successe nel 1723 al genitore nei beni e nei titoli familiari e fu il secondo principe di Centola. Si impose sulla scena politica napoletana all’avvento di Carlo di Borbone, allorché, entrato nella Giunta del buon governo costituita alla partenza dell’ultimo viceré austriaco, insieme con gli altri membri della deputazione e gli Eletti di Napoli, il 9 aprile 1734 si recò a Maddaloni per rendere omaggio all’infante. Al cospetto di Carlo pronunciò una breve ma incisiva Orazione e, offrendogli le chiavi della città, chiese e ottenne la conferma degli antichi privilegi napoletani. Per l’abilità dimostrata si guadagnò la benevolenza di Manuel Benavides y Aragón conte di Santiesteban, che, figura chiave della cerchia del giovane sovrano, favorì la sua successiva ascesa nella vita pubblica.
Di lì a breve, quando tra i maggiori feudatari filoborbonici si designarono i vicari generali da inviare nelle province del Regno con il grado di maresciallo di campo e con poteri straordinari, al fine di ottenere il giuramento di fedeltà delle popolazioni, Salvatore Francesco entrò in una terna di cavalieri di prestigio, composta pure da Giambattista Filomarino della Rocca e Francesco Carafa di San Lorenzo, e fu selezionato per ricoprire la carica in Principato Citra. Da Salerno relazionò sul disordine vigente nella provincia, denunciando la presenza di disertori e di imbarcazioni nemiche dedite al contrabbando.
Nel 1736, allorché furono istituite alcune giunte per promuovere il rinnovamento del sistema ammnistrativo, fece parte della Giunta delle università, costituita da ministri e cavalieri, che fu chiamata a vigilare sull’amministrazione delle comunità del Regno. Nello stesso anno, costretto alle dimissioni Marcello Carafa, reggente di Vicaria durante la dominazione austriaca, ottenne l’incarico rimasto vacante che era «il solo a cui aplica e vien destinato soggetto fra la nobiltà napoletana» (Dispacci, 1992, p. 406) e che rivestiva grande importanza per le ampie prerogative godute dal titolare e, in particolare, per la funzione giurisdizionale e di polizia esercitata in Napoli e nei casali.
Resse l’ufficio sino alla fine del 1738, quando chiese d’essere esonerato poiché da alcuni mesi era entrato nel Consiglio di Stato, il principale organo di governo e di direzione politica nei primi anni di regno di Carlo di Borbone, occupando il posto resosi disponibile per l’improvvisa morte di Michele Imperiali di Francavilla. Per ottenere quel ruolo molto ambito, si avvalse dell’appoggio di Santiesteban, il quale, in declino nell’universo politico napoletano ma ancora dotato di grande potere, di lì a poco provò, se pur invano, a candidarlo a viceré di Sicilia, per sostituire Bartolomeo Corsini, che avrebbe voluto a Napoli come suo successore.
Nel corso della sua brillante carriera, Salvatore Francesco godette della fiducia del sovrano, che l’ammise a corte, conferendogli la chiave d’oro di gentiluomo e favorendone il matrimonio con una ricca ereditiera, Costanza Eleonora Giudice. All’unione, celebrata nel 1737, concorsero anche ragioni familiari, in quanto la donna, vedova di Gian Francesco Caracciolo di Villa, era figlia del defunto principe di Cellamare, Antonio, cugino ex matre dello sposo. Assunto allora il titolo di duca di Giovinazzo, si trovò «nel diritto di patrono di tutte quelle ricche facoltà in grazia delle quali di mediocre cavaliere ch’era è andato a costituirsi all’istante un signore tanto per titoli che per sostanze de’ migliori che abbia il Regno» (Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli. Dispacci, 1992, p. 494).
Tra il quarto e il quinto decennio del XVIII secolo conseguì i maggiori successi nella vita pubblica: fu nominato cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro e insignito del prestigioso titolo di grande di Spagna di prima classe; fu stimato e apprezzato dalle più brillanti intelligenze del tempo e blandito da ministri e cortigiani, ma rimase estraneo a ogni volgare gioco di potere grazie alla «sua veramente solida onestà» (Tanucci 1980-2003, I, 1980, p. 475).
Godette di minor fortuna nella vita privata poiché in primo luogo patì per la mancanza d’intesa con la moglie, donna dal carattere difficile, legata agli ambienti romani e restia a integrarsi nella società napoletana, determinata a imporre al coniuge lunghi soggiorni nella capitale pontificia, distraendolo dagli impegni assunti nel Regno. In secondo luogo non ebbe discendenza, evento che vanificò «tutte le sue belle linee da lui dirette per lo innalzamento di sua casa, per cui s’è sagrificato» (Fraggianni, 1991, p. 501).
Ammalatosi gravemente, Salvatore Francesco morì a Napoli nell’aprile 1744, compianto dai suoi estimatori più che dalla vedova, smaniosa di rientrare a Roma e «tediata dalle importune sollecitazioni di mille Amanti che la ricercano» (Fraggianni, 1991, p. 501).
Con la sua morte naufragarono le mire della famiglia sulla pingue eredità dei Giudice, che in larga misura sarebbe passata ai Caracciolo di Villa, mentre invece il patrimonio Pappacoda venne trasmesso al fratello Giuseppe, già investito dei titoli familiari da quando il primogenito aveva assunto quello di duca di Giovinazzo.
Quasi nulla si conosce della formazione di Giuseppe, terzo principe di Centola. A detta del giurista e regio cattedratico Giuseppe Pasquale Cirillo, da giovane sarebbe stato allievo di Giovambattista Vico, da cui fu indirizzato agli studi di retorica, filosofia, lettere e antichità latine e greche, e in età più avanzata avrebbe intrapreso lo studio della matematica sotto la guida di Antonio Monforte e Agostino Ariani. Quanto alle competenze giuridiche, Bernardo Tanucci gli riconosceva, se non una preparazione ineccepibile, un sufficiente livello di informazione, acquisito attraverso ampie e assidue letture.
Partecipe della stima e del favore goduti dal fratello maggiore, Giuseppe Pappacoda fu ammesso nella corte borbonica prima come maggiordomo di settimana e poi come gentiluomo di camera; nel 1747 ottenne il cordone di S. Gennaro. Sebbene l’allontanamento da Napoli di Santiesteban avesse causato ripercussioni negative sulle sorti dei fratelli Pappacoda, suoi protetti, Giuseppe nel 1741 divenne reggente di Vicaria, grazie all’appoggio di Tanucci, che era riuscito a imporlo a José Joaquín Guzmán marchese di Montealegre, allora a capo del governo borbonico, a detrimento dell’altro candidato, Jacopo Milano, principe di Ardore e marchese di San Giorgio. Nel settembre dello stesso anno sposò una nipote del cardinale arcivescovo Giuseppe Spinelli, Anna Maria, figlia di Tommaso, marchese di Fuscaldo, e di Carotta Spinelli-Savelli dei principi di Cariati.
All’incarico in Vicaria, Pappacoda ne aggiunse altri, tra cui la presidenza della Giunta del codice che tentò di riordinare la legislazione vigente, complicata dal cumularsi nel tempo di norme e pratiche giudiziarie diverse, prima di sospendere ogni attività e di rinunciare a condurre a termine il lavoro. Confermato nel ruolo di reggente per molti anni, si vide obbligato a dipanare non poche ingarbugliate vicende che afflissero la vita napoletana, come in occasione della doppia condanna, pontificia e reale, inflitta alla massoneria, quando fu costretto a intraprendere un’azione repressiva nei confronti degli affiliati nobili e popolari. «Io mi trovo comodissimo con Centola savio, pratico, onesto, cristiano, sicuro» scriveva il segretario di Giustizia Tanucci, compiaciuto della lungimiranza dimostrata allorché ne aveva favorito la nomina al vertice della Vicaria, «su queste di lui virtù riposo e riposa il mio ministero, di cui questa carica è un ramo principale» (Tanucci, 1980-2003, III, 1982, p. 219).
Il legame tra i due continuò, alternando momenti di acuta tensione a fasi di maggior distensione, anche quando Pappacoda, già membro del Consiglio di Stato dopo la morte di Bartolomeo Corsini, nel 1759 entrò nel Consiglio di reggenza, istituito alla partenza dal Regno di Carlo di Borbone che, chiamato a cingere la corona spagnola, lasciò sul trono napoletano il figlio minorenne Ferdinando. Tanucci, che in quel collegio costituì di fatto la personalità di maggior rilievo e cercò di orientarne l’indirizzo politico, si scontrò ricorrentemente con gli altri reggenti, propensi a difendere acriticamente interessi particolari, e si trovò spesso «in pericolo di rimaner solo, o col solo Centola» (1980-2003, IX, 1985, p. 22) a sostenere le proprie iniziative, come egli stesso comunicò alla corte madrilena nel 1760. In talune circostanze, tuttavia, Pappacoda fu un «ostinato contraddittore, quale è sempre quando si tratta di contrariare il fisco, la regalia, la casa reale, o di Piazze, o di nobiltà» (XII, 1997, p. 164), capace di sostenere caparbiamente la propria linea filoaristocratica e di difesa dei privilegi della capitale, dove egli godeva di grande carisma e autorevolezza. Nonostante i contrasti, Tanucci fu sovente propenso a giustificare Pappacoda, reputandolo «persona sicura» (X, 1988, p. 160) e non dubitando dell’integrità morale dell’avversario che agiva «non per spirito di fazione, ma perché è dubitante ed è sempre per la parte che non decide» (Tonucci, 1980-2003, XI, 1990, p. 694).
Pappacoda si trovò su posizioni divergenti da quelle del ministro toscano nelle questioni riguardanti il ceto togato, del quale assurse a tutore, e soprattutto nelle discussioni relative ai problemi ecclesiastici, nella risoluzione dei quali fu condizionato da uno spropositato zelo religioso e da innumerevoli scrupoli, alimentati dal suo confessore, il lazzarista Giovanni Alasia. Il conflitto si acuì nelle difficoltà della carestia che afflisse la capitale e il Regno negli anni Sessanta, quando Tanucci sarcasticamente stigmatizzò come «triplice alleanza» (1980-2003, XIV, 1995, p. 180) il rapporto che si venne a instaurare tra il suo più ostinato avversario, Domenico Cattaneo di San Nicandro, il reggente Jacopo Milano e Pappacoda, i «tre congiurati» (ibid.) mossi da comuni finalità e intenzionati a contrastare ogni misura invisa loro.
Gli intrighi femminili non rimasero estranei alla vita del Consiglio, e in alcune circostanze Pappacoda si trovò a essere manovrato dalla moglie, donna partecipe alla sociabilità napoletana, desiderosa di esercitare la propria influenza per conseguire i suoi obiettivi e garantire gli interessi dei suoi protetti, come quando si impegnò in «pratiche premurosissime» (XI, 1990, p. 694), volte a ottenere un avanzamento di carriera per un intrigante giudice che la serviva come cicisbeo.
Alla maggiore età di Ferdinando IV, Pappacoda mantenne il posto in Consiglio di Stato e continuò la sua vita pubblica senza tralasciare la cura degli interessi familiari. Provvide al restauro interno dell’antica cappella di famiglia che, fortemente invasivo, finì per rivelarsi dannoso e contribuì a snaturare l’identità del luogo.
Pappacoda morì a Napoli il 19 maggio 1773 e, nonostante le sue diverse disposizioni, l’unica figlia vivente delle tre nate dal suo matrimonio volle celebrare solennemente le esequie del padre.
Nel corso della cerimonia, che si svolse nella chiesa di S. Maria delle Vergini, con la partecipazione di un folto gruppo di nobili, magistrati e intellettuali e sotto la supervisione del benedettino Salvatore Spinelli, nipote di Pappacoda, fu recitata un’orazione funebre da Giuseppe Pasquale Cirillo, mentre un altro illustre esponente dello Studio napoletano, il grecista Giacomo Martorelli, elaborò alcune iscrizioni celebrative.
In base alle ultime volontà, il patrimonio fu ereditato dalla figlia Giovanna, che aveva sposato il principe d’Angri Giovanni Carlo Doria, genovese deciso a radicarsi stabilmente nel Regno di Napoli, che a sua volta avrebbe trasmesso alla famiglia coniugale beni e titoli appartenuti a quella d’origine.
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