GUERRA, Giuseppe
Non sono note la data e la città di nascita del G., annoverato da De Dominici tra i discepoli di Francesco Solimena.
Dopo l'alunnato giovanile, probabilmente nei primi decenni del Settecento, presso lo studio napoletano di Solimena, il G. è documentato nella capitale partenopea come copista di opere del maestro, richieste dal mercato cittadino (De Dominici). L'impossibilità d'imporsi sulla scena artistica del capoluogo, proprio in conseguenza delle schiaccianti presenze di artisti quali lo stesso Solimena, Francesco De Mura e Corrado Giaquinto, fino al 1727 residente stabilmente a Napoli, spinse il pittore a indirizzarsi verso i circuiti della committenza della provincia.
Ai primi anni Trenta - mercé l'intervento del padre provinciale Francesco di Atina - risalgono i suoi lavori nella chiesa dei Ss. Francesco e Antonino a Cava dei Tirreni: l'Ultima Cena per l'altare maggiore, i due grandi tondi con la Presentazione della Vergine al Tempio e Il Redentore, nonché S. Pasquale e gli angeli per il soffitto del coro.
Le vibrazioni cromatiche e la ricerca di un moderato equilibrio compositivo e plastico di matrice solimenesca, costituiscono i punti nodali per la comprensione della sua successiva produzione. In particolare, rispondono a queste peculiarità le tre tele riportate con S. Francesco che riceve l'indulgenza, S. Giovanni da Capestrano e S. Francesco che converte l'acqua in vino, collocate nel soffitto della chiesa di S. Maria degli Angeli a Nocera Inferiore.
A Napoli nel 1750, il G. si offrì a re Carlo di Borbone in qualità di restauratore delle pitture antiche che, copiose, giungevano dagli scavi ercolanensi. L'esiguo compenso accordatogli lo indusse però a rifiutare l'incarico e a trasferirsi definitivamente a Roma, dove intraprese la lucrosa attività di falsario di pitture pompeiane. Il numismatico Jean-Jacques Barthélemy, inviato nella capitale pontificia dalla Corona francese tra il 1755 e il 1758 come custode del medagliere reale, nelle lettere romane indirizzate ad Anne-Claude-Philippe de Tubières conte de Caylus, fornisce una circostanziata testimonianza degli accadimenti che videro il G. vendere falsi lacerti di affreschi pompeiani a illustri personaggi quali il cardinale Alessandro Albani, il re d'Inghilterra Giorgio II, il barone Christian Heinrich Gleichen, ambasciatore danese a Napoli, e ad altri prestigiosi collezionisti presenti a Roma per il grand tour. Aperto uno studio come pittore-restauratore nelle stalle di palazzo Chigi, il G. perpetrava l'inganno dichiarandosi abile nel mondare le pitture che, clandestinamente in carri di fieno, giungevano da Pompei. Si trattava di falsi realizzati con la tecnica dell'encausto su un intonaco molto duro e un arriccio piuttosto bianco, secondo un procedimento che aveva indotto Johann Joachim Winckelmann, l'abate Carlo Fea e il conte de Caylus a dubitare della loro autenticità; stante che le perplessità erano avvalorate dai misteriosi caratteri, derivati né dal greco né dal latino, inseriti a commento delle figure.
Tra il 1754 e il 1755 il G. fornì ai gesuiti, per il Museo Kircheriano di Roma, oltre quaranta opere, due delle quali sono oggi ancora conservate al Museo nazionale romano. L'abate Mattia Zarillo, custode del Real Museo di Capodimonte e accademico ercolanense, trovandosi a Roma, fu invitato dai gesuiti a stimare il valore di tali rarità. Giudicatele autentiche, Zarillo informò il governo borbonico delle esportazioni clandestine da Pompei verso lo Stato pontificio. Il marchese Bernardo Tanucci, primo ministro del Regno, ordinò di aprire un'inchiesta che, in breve tempo, identificò nel G. lo spacciatore delle pitture. Sottoposto a interrogatorio, egli palesò la truffa dichiarandosi autore dei falsi (Consoli Fiego). L'accaduto fu causa di un incidente diplomatico tra la corte napoletana e la Curia pontificia. Alle pressanti richieste d'incarcerazione del colpevole mosse da Tanucci, ostò la ferma volontà del cardinale Alberico Archinto, segretario di Stato di papa Benedetto XIV, di insabbiare la vicenda e di proteggere il G., per il quale si rivendicava il diritto di imitare gli antichi maestri. Ancora nel settembre del 1760, padre Paolo Maria Paciaudi scriveva a Caylus: "Guerra fa ogni giorno delle pitture di diverse grandezze, secondo i desideri de' compratori. Tutti lo sanno ma lui sostiene fermamente che le ha trovate fuori di Roma in alcune ruine che sono a sua sola conoscenza" (Correspondance, I, p. 207).
Definito da De Dominici (p. 682) "uomo dabbene, e di esemplari costumi", il G. morì, probabilmente a Roma, nel 1761.
Fonti e Bibl.: B. De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli 1742, pp. 681 s.; J.J. Winckelmann, Sendschreiben von den herculanischen Entdeckungen, Dresden 1762, p. 48; J.-J. Barthélemy, Voyage en Italie, Paris 1802, pp. 33, 93, 99, 104; Correspondance inédite du comte de Caylus avec le p. Paciaudi, théatin, a cura di C. Nisard, I, Paris 1877, pp. 207 s.; G. Consoli Fiego, False pitture di Ercolano, in Napoli nobilissima, n.s., II (1921), 4, pp. 84-88; M. Cagiano de Azevedo, Falsi settecenteschi di pitture antiche, in Boll. dell'Istituto centrale del restauro, I (1950), 1, pp. 41-43; M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell'arte italiana, X, Conservazione, falso e restauro, Torino 1981, pp. 156 s.; L. Barroero, La pittura a Roma nel Settecento, in La pittura in Italia. Il Settecento, I, Milano 1990, p. 423; G. Carabelli, Veneri e Priapi: culti di fertilità e mitologie falliche tra Napoli e Londra nell'età dell'Illuminismo, Lecce 1996, p. 24; O. Rossi Pinelli, Il secolo della ragione e della rivoluzione. La cultura visiva nel Settecento europeo, Torino 2000, p. 59; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XV, pp. 239 s.