GABUSSI, Giuseppe
Nato a Bologna il 5 ott. 1791 da Luigi, medico chirurgo, e da Cecilia Sandelli, si laureò in giurisprudenza nella città natale l'11 giugno 1812 e dal 1813 fu patrocinatore in corte d'appello. Fu tra quanti si entusiasmarono per il tentativo di Gioacchino Murat (marzo 1815); poi, tramontata rapidamente l'ultima illusione di una conquista dell'indipendenza e ristabilito il governo pontificio, ai suoi interessi politici non rimase altra via che quella delle cospirazioni. Così affiancò alla professione d'avvocato, che già lo aveva segnalato all'attenzione delle autorità per il suo anticonformismo, una piccola e fiorente attività di libraio-editore nelle pieghe della quale gli riusciva agevole lo smercio di pubblicazioni d'impronta anticlericale o antiassolutista, provenienti dall'esterno o da lui stesso prodotte. Presto la vocazione per la pubblicistica finì per assorbirlo quasi totalmente e gli procurò anche una certa agiatezza economica.
Nel 1831, estesasi rapidamente la rivoluzione dai Ducati alle Legazioni, il G. collaborò a varie testate affrontando soprattutto il tema dell'urgenza del trasferimento del potere dal monarca al popolo ma lavorando anche a costruire il consenso per il nuovo regime.
Tale era ad esempio l'obiettivo evidente di un articolo dedicato a La classe dei lavoranti, che il 24 febbr. 1831 apparve su La Sentinella della libertà, un foglio da lui fondato e diretto per breve tempo (ne uscì solo un altro numero il 3 marzo 1831), dopo le prime esperienze fatte con articoli apparsi su Il Monitore bolognese e Il Precursore.
La fase di normalizzazione aperta dall'intervento austriaco ebbe in lui un facile bersaglio, soprattutto per la sua opposizione - sia come autore di un opuscolo di Osservazioni sul Motu Proprio del 1° luglio 1831, sia come membro del Collegio dei causidici - a vari aspetti dell'opera riformatrice di Gregorio XVI. Di quest'epoca di turbolenza, destinata a protrarsi fino alla seconda occupazione austriaca (fine gennaio 1832), il G. fu uno dei protagonisti più attivi; i suoi "libelli incendiari" (Sforza, p. 382) lo esposero all'attenzione delle autorità.
Il marchio di elemento facinoroso restò impresso a lungo sulla figura del G. che per breve tempo fu anche affiliato alla Giovine Italia senza peraltro mai condividerne in pieno gli ideali. Tale militanza fu tuttavia sufficiente per esporlo ai colpi della giustizia pontificia: privato anzitutto dell'incarico di giudice aggiunto presso il tribunale d'appello di Bologna, il G. si vide subito dopo perquisire il negozio di libri, sequestrare molto materiale e incarcerare il 13 marzo 1833 con l'imputazione di spaccio di materiale sovversivo che nel successivo processo gli costò una condanna a vent'anni da scontare nel forte di Civita Castellana. Restò in carcere fino al novembre del 1836, quando il residuo di pena gli fu commutato in trentadue anni di esilio. Non privo di appoggi a Roma, il G. poté poi evitare l'espatrio forzato in Sudamerica e con un regolare passaporto raggiunse a Londra il fratello Vincenzo, che in Inghilterra aveva ottenuto un discreto successo come compositore.
Non fu solo per questo motivo che la musica ebbe un posto notevole nella vita del G.: proprio negli anni in cui lasciava il carcere la maggiore dei suoi sei figli, Rita, esordiva sulle scene come soprano. Col pretesto di doverne seguire la carriera che si preannunziava fortunata e che aveva preso a snodarsi tra Parma e Firenze, il G. ritornò nell'Italia centrale, sempre sorvegliato dalla polizia bolognese che di tanto in tanto lo costringeva a mutare luogo di soggiorno.
Iniziarono così le sue peregrinazioni, che in poco tempo lo portarono a Torino, in Francia, in Svizzera e a Vienna, dove nel maggio 1840 il ministro sardo notò con stupore la sua presenza nel salotto di Metternich "un soir que sa fille y a chanté" (M. Degli Alberti, La politica estera del Piemonte sotto Carlo Alberto…, II, Torino 1915, p. 253). Nell'insieme il suo comportamento non preoccupava più la polizia bolognese, cui però non era sfuggito che dal 1839 egli aveva preso dimora a Firenze. Tra i suoi interessi sembrava rientrare ora soprattutto la lirica, come confermavano le sue occasionali collaborazioni al periodico fiorentino Il Ricoglitore: in realtà era solo un momento di transizione.
Con l'elezione di Pio IX il dibattito politico si riaprì e il G. fu pronto a inserirvisi con un opuscolo su Pio IX e Carlo Alberto (Paris [ma Bastia] 1846), in cui, sotto il velo di un anonimato che più tardi lui stesso avrebbe infranto (Memorie, I, p. 46), sminuiva la portata innovatrice dei primi atti del nuovo papa, mentre dava un più positivo giudizio su Carlo Alberto, re assoluto anch'egli ma con ambizioni che rendevano inevitabile lo scontro con l'Austria. Malgrado una successiva apertura all'ipotesi di un costituzionalismo monarchico (Delle condizioni e dei pericoli d'Italia, Paris [ma Bastia] 1847), si profilava la decisa opposizione del G. al giobertismo, in nome più di un'ispirazione bonapartistica che democratica, quasi un recupero della giovanile passione murattiana. Intanto la polizia toscana gli teneva gli occhi addosso, e a Livorno, nel luglio del 1847, gli proibiva di pubblicare un foglio, L'Indicatore, al quale aveva già chiamato a collaborare F.D. Guerrazzi, M. Montecchi e T. Riboli, mentre poco dopo il 19 agosto lo sfrattava da Pisa per i suoi presunti eccessi demagogici. Imperterrito, il G. continuava a inondare il Granducato di opuscoli e bollettini spesso anonimi: sul Ricoglitore del 19 giugno 1847, ad esempio, criticava il riformismo granducale perché interno a una logica di rafforzamento del potere assoluto; altrove invece si era detto certo del prossimo scoppio della guerra (Quali eventualità potrebbe produrre un'intervenzione austriaca nella media e bassa Italia, Rimini 1847) e aveva salutato con favore la legge toscana sulla stampa (Ragionamento sulla convenienza e necessità della censura preventiva, Firenze 1847).
Nell'insieme non sembrava che avesse addolcito la propria critica al moderatismo: tanto più sorprendenti appaiono dunque talune sue scelte successive all'autunno del 1847, quando, fruendo dell'amnistia, passò a Roma, prese contatto con i riformisti, entrò nelle grazie di qualche cardinale e il 15 febbr. 1848 pubblicò sulla Bilancia, un foglio romano non certo di area democratica, una serie di articoli nei quali spiccava il concetto per cui la politica del papa, non più giudicata come opera di mera dissimulazione, potesse realizzarsi fino a conseguire l'indipendenza nazionale purché affidata a un ceto politico-amministrativo sinceramente votato al progresso. Il G. fu premiato con un posto di direttore straordinario di polizia a Pesaro, dove restò poco più di un mese venendone rimosso, a suo dire, per non aver voluto colpire gli elementi ultraliberali, più probabilmente per alcune misure intempestive ai danni degli ordini religiosi atte più a rinfocolare le passioni che a placarle.
Nel '48 il G. seguì le vicende della guerra da una posizione oscillante tra il radicalismo e il realismo moderato: restio a far parte di un movimento organizzato, ricorreva ancora all'opuscolo d'occasione per invocare nell'ottobre del '48 che l'Italia facesse da sé e non attendesse aiuto dall'esterno (Delle condizioni d'Italia e dei pericoli che la minacciano, Roma 1848). A fugare ogni incertezza vennero finalmente la fuga di Pio IX da Roma e la convocazione della Costituente, in vista della quale il G. presiedette un comitato elettorale che propagandò il principio del suffragio universale e della forma repubblicana dello Stato.
Deputato in rappresentanza di Civitavecchia e Roma, il G. si espresse decisamente per la decadenza del potere temporale e la proclamazione della Repubblica, segnalandosi poi come sostenitore di un garantismo che, per voler evitare una concentrazione eccessiva dei poteri nel Comitato esecutivo e poi nel Triumvirato, poteva avere l'effetto, come notò il Saffi, di far cadere le istituzioni "in una completa nullità" (Assemblee del Risorgimento, p. 134). In verità della sottile tensione che pervase i rapporti tra Assemblea ed esecutivo il G. fu uno dei maggiori responsabili almeno fino a quando il 6 marzo 1849 fu designato con I. Guiccioli e F. Camerata a partecipare a una missione a Firenze che, per l'opposizione del Guerrazzi, non riuscì a raggiungere lo scopo di convincere la Toscana ad unirsi alla Repubblica Romana.
Una volta tornato a Roma, il G. entrò nella commissione incaricata della stesura della costituzione e confermò la propria opposizione al Triumvirato, e al Mazzini in particolare, difendendo senza successo la proposta di inserire nel testo della Costituzione l'articolo che riconosceva al cattolicesimo il carattere di "religione dello Stato". Ma al fondo del dissidio c'era stata una concezione della Repubblica strategicamente molto più limitata e locale di quella voluta dal Mazzini.
Lasciata Roma il 2 sett. 1849, il G. riparò a Genova. Più che a commentare la cronaca politica, aspirava ora a ricostruire e spiegare gli eventi di cui era stato testimone e talvolta protagonista. Perciò, dopo aver tradotto e pubblicato un opuscoletto di L. Blanc (L'Impero senza imperatore, Genova 1850), il G. avviò una riflessione sul passato stimolata dalla pubblicazione dei primi volumi dello Stato romano di L.C. Farini, che ve lo aveva ricordato come personaggio facinoroso quanto opportunista.
Mosso dal desiderio di individuare le cause del fallimento rivoluzionario, il G. si mise al lavoro e tra il 1851 e il 1852 pubblicò a fascicoli a Genova, che poi raccolse in tre volumi, le Memorie per servire alla storia della rivoluzione dello Stato romano dall'elevazione di Pio IX al pontificato sino alla caduta della Repubblica.
La periodicità della stesura condizionò la ricostruzione che, fondata in partenza su una documentazione molto ridotta, si arricchì strada facendo delle testimonianze epistolari di alcuni democratici; ma il racconto puntuale, obiettivo e "non rattenuto da riguardi o considerazioni d'amicizia" (I, p. 8) che il G. si era proposto, se risultò efficace e ben informato, lasciò molto a desiderare sotto il profilo dell'interpretazione. Da un lato c'era la distorsione con cui il G., fiducioso un tempo nell'iniziativa italiana, presentava se stesso come inascoltato sostenitore dell'intervento francese; dall'altro c'era il tono fortemente recriminatorio che faceva delle Memorie, in particolare del terzo volume dedicato alle vicende della Repubblica romana, una ininterrotta resa dei conti, una violenta requisitoria dalla quale quasi nessuno si salvava. Era strano quel collocarsi del G. nel campo della democrazia per poi infamarne o diffamarne i capi, primo tra tutti il Mazzini, al quale si attribuiva l'errore tattico di non aver portato l'insurrezione nel Regno meridionale e quello strategico di aver nutrito ambizioni dittatoriali tali da porlo fatalmente in conflitto con l'Assemblea. Unitario e antifederalista, il G. non poteva vedere altra alternativa al mazzinianesimo che in una confusa apologia dell'Assemblea romana, evocata ora come istituzione meramente locale, ora come nucleo fondante dell'unità nazionale. In un quadro così acrimonioso sarebbe occorso un ben diverso retroterra morale per pretendere credibilità; e fu questo, più che la limitata intelligenza dei fatti o l'incapacità di sfumature o la tendenza ad aggrovigliarsi troppo a lungo nel vano tentativo di dirimere questioni secondarie, a ridurre l'impatto delle Memorie.
Nell'esilio genovese il G. penò molto e talvolta subì anche qualche persecuzione poliziesca. Economicamente le Memorie non gli resero quanto aveva sperato e anzi lo misero spesso in lite con i venditori; politicamente, il suo isolamento si accentuò e delle poche relazioni che mantenne quella che lo vide inserito in un'organizzazione d'assistenza agli esuli nata nel 1854 durò poco, e l'altra con N. Fabrizi, con cui il G. era stato in corrispondenza nel 1852-53, terminò quando, dopo l'insuccesso del moto milanese del 6 febbr. 1853, la sua critica del mazzinianesimo assunse toni di inusitata violenza e il suo repubblicanesimo svanì nella definitiva accettazione del bonapartismo. Chi, come G. La Masa, nel 1856 chiese la sua adesione a un programma filosabaudo, ottenne in risposta un giudizio pessimistico sulla effettiva disponibilità di Vittorio Emanuele II a collaborare con la democrazia.
Altre iniziative giornalistiche tentate dal G. non ebbero fortuna, sicché dovette vivere di espedienti cercando favori e protezioni e ricevendo qualche soccorso solo dalla figlia. Nel 1859 tornò a Bologna con la vana speranza di ricevere un incarico pubblico. Amareggiato, si rituffò nelle riflessioni politologiche e nel 1860 pubblicò a Parma un opuscolo su Il papa e il suo regno possibile come contributo alla discussione aperta dallo scritto di L.-E.-A. de La Guerronière su Le pape et le Congrès.
Il G. morì a Genova il 6 febbr. 1862.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. del Museo centrale del Risorgimento, b. 57, Carte Gabussi: comprende le lettere dei venti corrispondenti interpellati dal G. durante la stesura delle Memorie. Presso il Museo del Risorgimento di Bologna (Carte Savini), la Bibl. Labronica di Livorno e lo stesso Museo centrale del Risorgimento sono alcune lettere del G. (a S. Savini, G. Montanelli e N. Fabrizi) in parte utilizzate da M.P. Rosati per la sua tesi di laurea sul G. discussa alla "Sapienza" di Roma nell'a.a. 1933-34 (relatore A.M. Ghisalberti), a tutt'oggi il lavoro più completo sotto il profilo della raccolta delle fonti. Se si prescinde dalle "voci" compilate da A.M. Ghisalberti per il Diz. del Risorgimento nazionale, III, ad nomem, e per l'Enc. Italiana, VI, ad nomem, manca un vera biografia del Gabussi. Il Ristretto del processo si trova in Arch. di Stato di Roma, Misc. carte polit. e riservate, fasc. 2824 (v. A.M. Ghisalberti, Il processo di G. G. (1834), in Rass. stor. del Risorgimento, XV [1928], pp. 127-159).
Altre notizie sul G. sono in: G. Sforza, La rivoluzione del 1831 nel Ducato di Modena, Roma-Milano 1909, ad ind.; Le Assemblee del Risorgimento. Roma, Roma 1911, III, passim; M. Menghini, La missione di L. Valerio… in una sua lettera a G., Imola 1926; G. Mazzini, Ediz. nazionale degli scritti, Imola 1928, XLIX, ad ind.; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1972, ad ind.; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluz. italiani, Milano 1974, ad ind.; G.M. Varanini, Sulla pubblicazione "Della guerra insurrezionale" di G. La Masa, in Rass. stor. del Risorg., LXII (1975), pp. 426 s., 434 s., 439, 442 ss., 446 s.; D. Marini, Un opuscolo di G. G. tra la stampa clandestina toscana del 1847, ibid., LXVII (1980), pp. 417-424; G. Luseroni, La stampa clandestina in Toscana (1846-47), Firenze 1988, ad indicem.