CARLE, Giuseppe
Nacque a Chiusa di Pesio (Cuneo) il 21 giugno 1845 da Giuseppe e Maddalena Luciano, primo di tre figli, di cui il secondogenito Antonio ebbe fama come chirurgo. Compì gli studi secondari presso il Collegio regio e convitto nazionale di Mondovì, seguendo le classi di grammatica dal 1854 al 1857, di retorica dal 1857 al 1859, di filosofia dal 1859 al 1861, e vi ebbe docente di lingue e letterature classiche Michele Kerbaker da cui trasse la prima ispirazione per il proprio giobertismo, da allora non più smentito. Vincitore di un posto messo a concorso dal Collegio delle province, si iscrisse all'università di Torino nel 1861, per alcuni mesi nella facoltà di lettere e filosofia, quindi in giurisprudenza dove proseguì gli studi sino alla laurea, conseguita il 3 ag. 1865 a soli vent'anni.
Nella facoltà giuridica torinese, arricchitasi dopo la riforma Alfieri (1846)di vari insegnamenti storici e filosofici, il C. ebbe maestri Pier Carlo Boggio, Carlo Bon Compagni, Pasquale Stanislao Mancini, Matteo Pescatore. Per la filosofia del diritto seguì nell'anno accademico 1864-1865 le lezioni di Francesco Bertinaria, che insegnava anche filosofia della storia come supplente di Terenzio Mamiani, ministro nel gabinetto Cavour (1861) e poi senatore (1864). Nel discorso Sull'indole e le vicende della filosofia italiana (Torino 1857), Bertinaria sostenne la tesi, di cui il C. si fece fervido sostenitore per tutta la vita, secondo cui il genio della filosofia italiana, da Pitagora in poi, si era rivelato nell'operare una feconda sintesi delle opposte teorie dell'ontologismo e dell'idealismo.
Laureatosi con una dissertazione in diritto internazionale, seguita dal Mancini, Della condizione giuridica degli stranieri (Torino 1865), l'anno seguente concorse, ancorché giovanissimo, alla cattedra di diritto e procedura penale dell'università di Parma, scrivendo per l'occasione una seconda monografia, Dell'autorità delle leggi penali in ordine ai luoghi ed alle persone (Torino 1867). Pur essendo stato dichiarato vincitore, non ottenne la cattedra perché il concorso fu annullato. Essendosi quindi proposto di presentarsi al concorso di aggregazione presso la facoltà torinese in procedura civile e ordinamento giudiziario per l'anno 1867-1868, scrisse una nuova memoria, Dell'appellazione in materia civile (Torino 1868); ma il giorno della lezione orale, fissata per il 15 aprile 1868, non ebbe animo di continuare e, come si legge nel verbale della commissione d'esame, "iniziata la lezione l'avv. Carle dopo 17 minuti dichiara di recedere dal concorso".
L'anno dopo concorse contemporaneamente all'aggregazione presso l'università di Torino per il diritto internazionale e al concorso bandito dalla R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli sul tema: "La dottrina giuridica del fallimento considerata nel diritto internazionale privato". Col Saggio di una teorica di diritto internazionale privato applicata al fallimento (Torino 1870) vinse il concorso di aggregazione su altri sette concorrenti, onde il 28 maggio 1870, giovanissimo (aveva solo venticinque anni), entrò a far parte del consiglio della facoltà torinese. Con lo stesso saggio riveduto e accresciuto, La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale (pubblicato negli Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, VII[1872]), vinse il concorso napoletano e acquistò meritata fama anche fuori d'Italia, essendo stato, questo saggio, tradotto in francese (Parigi 1875) e in greco (Atene 1880).
Tra la fine del 1871 e i primi mesi del 1872 scrisse la memoria De exceptionibus in iure romano (Torino 1873) per il premio Dionisio bandito dalla facoltà torinese e lo vinse. Con questa chiuse, come scrisse il suo dotto biografa nonché successore alla cattedra di filosofia del diritto, Gioele Solari, "la fase propriamente giuridica della sua attività scientifica" (Lavita…, p. 22), e nello stesso tempo aprì la nuova fase, che fu non solo di filosofo del diritto, ma anche di storico del diritto romano.
Nell'ottobre del 1872, succedendo a Luigi Mattirolo, assunse l'incarico della cattedra di filosofia del diritto, che occupò, dal 1878 come professore di ruolo, sino alla morte. Il 26 nov. 1872 egli tenne la prolusione sul classico tema: "Dell'officio che è chiamata a compiere la filosofia del diritto nell'insegnamento legale". Nel 1874 a Torino pubblicò una prima opera di carattere generale nella disciplina cui avrebbe dedicato la parte maggiore e migliore dei suoi studi, una sorta di programma del lavoro futuro, nel campo sia degli studi sia della vita civile: Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto.
In quest'opera sono contenuti alcuni temi fondamentali che costituiscono il nerbo del suo pensiero e saranno via via sviluppati nelle opere successive: a) la funzione civile della filosofia del diritto, in quanto la filosofia non è "puro pascolo della ragione" ma deve contribuire all'umano incivilimento; b) la concezione dialettica della filosofia italiana, per cui questa nelle sue più alte manifestazioni, Vico, Romagnosi, Gioberti, è sempre andata al di là dell'opposizione tra razionalismo ed empirismo, tra idealismo e realismo, tra spiritualismo e materialismo, offrendo soluzioni di sintesi che tengono conto della esigenza in cui si trova il pensiero umano nei momenti di maggiore maturità di superare le antitesi troppo radicali; c) una concezione organica del diritto, avverso la dottrina meccanicistica dei giusnaturalisti, una concezione, cioè, secondo cui "il diritto non è una matematica pura di rapporti, immutabili nel tempo e nello spazio, ma è per contro un elemento organico della società vivente, che sotto l'impero di ragione si svolge praticamente con le forme, con le impressioni, con tutti gli elementi insomma dell'umana civiltà" (p. 14).
Questa concezione storica del diritto e delle varie forme che aveva assunto nei diversi tempi la riflessione sul diritto lo indusse a concepire e a tentare di delineare non tanto una filosofia del diritto quanto una filosofia della storia del diritto, cioè una visione d'insieme dello svolgimento del diritto e delle teorie del diritto dalla antichità ai tempi moderni, allo scopo di mettere in rilievo il contributo dato dai diversi popoli alla creazione degli istituti fondamentali delle nazioni civili che avevano collaborato alla formazione del più cospicuo prodotto dell'incivilimento, lo Stato moderno. All'attuazione di questo programma dedicò le due opere maggiori cui diede mano negli anni della maturità: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica (Torino 1880; 2 ediz., ibid. 1890), e La filosofia del diritto nello Stato moderno (Torino 1903).
Nonostante il suo anacronistico vichismo di principio, che si risolveva in un eclettismo di fatto, presentato sotto le mentite spoglie di un'antica sapienza italiana, mai esistita, il C., si rese conto della trasformazione che andavano compiendo le scienze sociali per effetto della diffusione del positivismo, che avvenne proprio negli anni in cui iniziò gli studi universitari (tanto la celebre memoria di Pasquale Villari, La filosofia positiva e il metodo storico, quanto la non meno celebre prolusione di Salvatore Tommasi, Il naturalismo moderno sono del 1866).
Ottenuto nel 1874 anche l'incarico di scienza sociale, lesse, commentò e discusse i principali filosofi positivisti, si avvicinò con mente aperta alla sociologia trionfante, che del resto non era difficile inserire senza troppe forzature in quella linea di pensiero italico, alieno dalle astrattezze e dalle astruserie metafisiche, che aveva per santi numi Vico e Romagnosi, e accettare come la giovane e robusta erede della ormai decrepita filosofia della storia. Nel 1875 pubblicò a Torino un volumetto, Saggi di filosofia sociale, contenente, oltre la prolusione del 1873-74, "Il principio di responsabilità nel campo del diritto", di carattere ancora prevalentemente giuridico, la prolusione del 1874-1875, "Le leggi storiche e la libertà dell'uomo", in cui sosteneva che "molte buone cose" potevano essere apprese dalle nuove scienze sociali, e una lettera al ministro Bonghi "Sulla necessità di istituire una cattedra di scienza e di filosofia sociale negli atenei del Regno d'Italia", ove, ricollegando la diffusione delle scienze sociali alla preminente importanza della questione sociale e richiamandosi alla tradizione della filosofia italiana di Vico, Jannelli, Romagnosi, Stellini, Cattaneo e Gioberti, caldeggiò l'introduzione dell'insegnamento della filosofia sociale, intesa come sintesi della filosofia giuridica, economica ed etica. Nell'avvertenza riassumeva il proprio pensiero dicendo che si era proposto di "provare ad un tempo che il metodo positivo, oggi di tanto in favore, anziché dover respingere affatto il metodo ideale deve invece conciliarsi e armonizzarsi con esso" (p. IV).
Vagheggiò l'idea di scrivere un volume di Istituzioni di filosofia sociale, che avrebbe dovuto compendiare i tre insegnamenti; ma il progetto era troppo ardito e non ebbe mai neppure un principio di attuazione. Si tenne al corrente dei progressi della sociologia: oltre al Wundt, da cui trasse ispirazione per la sua ultima opera che esalta il metodo psicologico, cita e discute Tarde e Durkheim, Giddings e Ward, Gumplowicz e Novikov, Mosca e Pareto. Da un programma del corso libero di scienza sociale per l'anno accademico 1888-1889 risulta che iniziava le sue lezioni esponendo il pensiero dei principali sociologi italiani e stranieri e le terminava con la presentazione della psicologia collettiva di cui considerava promotori, non ancora il Wundt, cui si avvicinerà più tardi, Vico e Jannelli, Romagnosi e Cattaneo, Lazarus e Steinthal.
Il 20 sett. 1875 si unì in matrimonio con Matilde Giartosio da cui ebbe sei figli. Il 14 marzo 1878 fu promosso ordinario nella facoltà giuridica dell'università torinese a soli 33 anni: la prolusione, dettata iniziando l'insegnamento nell'anno accademico 1877-1878, Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica (Torino 1878), contiene in nuce le tesi principali dell'opera maggiore, di cui è una sintetica e vigorosa anticipazione: la Vita del diritto, apparsa a Torino nel 1880.
Quest'opera è una storia filosofica del diritto e delle dottrine giuridiche, dai popoli primitivi, attraverso l'età classica e il Medioevo, sino all'età moderna e contemporanea, per entro la quale si succedono la scuola razionale, la scuola storica e la scuola positiva, di cui l'autore, fedele al metodo della composizione delle antitesi (che chiama "dialettico" e ritiene prerogativa del genio latino e italiano in ispecie), cerca una sintesi eliminando da ogni dottrina il troppo e il vano: storia "filosofica" nel senso che le varie tappe dell'incivilimento sono considerate alla maniera di Vico o di Hegel, come successive manifestazioni di una indefettibile legge di sviluppo dello spirito umano, che è prima azione, poi volere, infine conoscere (il possevelle e nosse di vichiana memoria), onde il diritto si attua prima come potestà, poi come atto di volontà (legge), e infine come dottrina o scienza; e dai tempi storici in poi, ogni popolo ha dato il suo specifico contributo a ognuna delle fasi predette, se pure in ordine inverso, la Grecia alla scienza, Roma alla legge, i popoli germanici al potere. Di triade in triade (Vico e Hegel dictantibus)distingue nell'età moderna tre grandi scuole secondoché il diritto sia considerato come scienza, come legge o come potestà, e all'interno di ognuna di esse altre tre, secondoché la scienza sia risolta nell'osservare (scuola positiva), nel comparare (scuola storica) o nel riflettere (scuola ideale), la legge sia considerata dal punto di vista dell'utile (scuola utilitaristica), del giusto (scuola giuridica) o dell'onesto (scuola dei moralisti), e la potestà sia intesa come individuale (individualismo), sociale (socialismo) o come individuale e sociale insieme (contrattualismo).
Già socio dal 1879 dell'Accademia delle scienze di Torino (di cui sarà anche presidente dal 1894 al 1901), sull'onda della notorietà acquistata con la Vita del diritto, funominato nel 1884 socio della Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, nella categoria delle scienze giuridiche allora costituita. Nel 1885 ebbe, oltre l'insegnamento ufficiale della filosofia del diritto e quello del corso libero di scienza sociale, il primo incarico dell'allora istituito insegnamento di storia del diritto romano, inaugurando il quale svolse a guisa di prolusione il tema: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma (Torino 1886). Dal fervido impegno con cui coltivò questa disciplina trasse il grosso volume Le origini del diritto romano, che reca come sottotitolo Ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato romano (Torino 1888), nel quale tentò un'ampia e documentata ricostruzione della formazione del diritto e dello Stato romani, partendo dalla teoria allora variamente diffusa e discussa, che considera la gens come la prima forma di organizzazione sociale, quindi analizzando i singoli istituti attraverso i quali dall'organizzazione gentilizia nacque la civitas prima patrizia, poi patrizia e plebea, sino alla legislazione decenivirale, mediante un processo che egli chiamò di "selezione" per distinguerlo dal processo graduale, organico e inconscio, teorizzato da Spencer.
Per quanto più criticata che approvata, e criticata specialmente da P. Bonfante in una recensione sul Bollettino dell'Istituto del diritto romano (I[1888], pp. 236-50), questa opera rappresenta un tentativo ardito e in gran parte nuovo, per l'Italia, di una storia giuridico-sociale di Roma sulle orme lontane di Vico e su quelle più vicine di autori come il Maine e Fustel de Coulanges. Sarebbe dovuto seguire un secondo volume, destinato allo svolgimento del diritto pubblico, penale e privato nella Roma repubblicana di cui è rimasta traccia in alcuni quaderni conservati tra le sue carte, ora custodite presso l'Accademia delle scienze di Torino.
Nella prolusione del 1878, già citata, Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, il C.aveva visto nella formazione dello Stato nazionale a cui i diversi popoli, secondo la loro diversa indole, avevano dato il proprio originale contributo, il passaggio dall'età di mezzo all'età moderna. In una nota del 1891, Del processo formativo dello Stato moderno, presentata all'Accademia delle scienze di Torino (XXVI [1890], traccia una breve storia della nascita dello Stato moderno, per un verso dall'aggegazione delle istituzioni feudali e municipali caratteristiche del Medioevo, e per l'altro verso dalla dissoluzione dell'unità imperiale, onde "a quel modo, che la città antica venne ad essere costrutta coi ruderi di un periodo anteriore… così anche lo Stato moderno fu costrutto coi ruderi del medio evo e fu determinato dal coordinarsi dei feudi e dei municipi sotto una medesima autorità sovrana" (p. 12).
La seconda fase della sua attività di studioso può farsi cominciare dal 1890, data della seconda edizione (Torino) della Vita del diritto, che contiene un capitolo aggiunto sulla "Transizione dai feudi e dai municipi allo Stato moderno": in questo periodo si dedica in particolare, traendo ispirazione dal suo giovanile e non mai esaurito giobertismo e dall'insegnamento del Mancini, che si riflette nel discorso commemorativo, Pasquale Stanislao Mancini e la teoria psicologica del sentimento nazionale (pubblicato negli Atti della R. Acc. dei Lincei, classe di scienze fisiche e morali, s. 4, VI [1889], 1, pp. 548-567), allo studio del concetto di nazione, cui avrebbe voluto dedicare, se la varia e molteplice attività didattica e politica glielo avessero consentito, la sua opera definitiva. Dal 1880 al 1913 fu senza interruzione consigliere comunale del suo paese natio, Chiusa di Pesio, e dal 1887 anche consigliere provinciale; dal 1889 al 1905 consigliere comunale di Torino, e per alcuni anni (1891-1898) assessore all'ufficio legale. Nel 1898 fu nominato senatore. Al Senato i suoi interventi, non molto frequenti, toccarono in genere questioni giuridiche e scolastiche. Liberale all'antica, cioè conservatore, fermamente avverso al socialismo che fuorviava con false speranze coloro che stavano più in basso nella scala sociale, favorevole a una politica di educazione nazionale promossa dall'alto, aderì all'Unione liberale monarchica Umberto I, costituitasi alla fine del primo anno del secolo, e ne fu uno dei più attivi propugnatori. Fu anche preside della facoltà giuridica torinese dal 1894 al 1897; per due volte membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (1893-1897 e 1900-1904).
Nel 1903 pubblicò l'ultima grande opera, La filosofia del diritto nello Stato moderno, già citata, ma non fu l'opera definitiva, come aveva sperato, perché della ambiziosa costruzione che aveva in mente essa non rappresenta che una prima parte, poco più che un vestibolo. Il disegno generale della storia ideale (perché pur sempre di una storia ideale, che "corre in tempo" con la storia delle nazioni, si tratta) avrebbe dovuto spostarsi dalla storia del diritto e delle riflessioni sul diritto alla storia delle "aggregazioni sociali", che furono prima la gente, poi la città, infine lo Stato, che si viene affermando nella lotta secolare contro la Chiesa come potere laico e civile che riconosce a tutti gli uomini eguaglianza di diritti. Ma il disegno rimase in gran parte incompiuto.
L'opera reca come sotto titolo: "Volume primo, sezione prima. Introduzione. Basi scientifiche. Teoria generale del diritto come scienza". In effetti il proposito del C. era di scrivere un'opera in due parti, una generale, in cui il diritto avrebbe dovuto essere trattato nel suo triplice aspetto di scienza, di legge e di potestà, l'altra, speciale, sui singoli istituti, o, con le sue parole, sulle "speciali configurazioni, che il diritto deve assumere nell'attuale momento storico" (p. XII). Ma l'unico volume pubblicato comprende la prima delle tre sezioni della prima parte, ovvero la trattazione del diritto come scienza, mentre la parte più nuova, rispetto alle opere precedenti, avrebbe dovuto essere la seconda. Ciò che ci è rimasto. nonostante la mole imponente (più di 500 pagine), è in gran parte una ripresa del tema che gli fu più caro, la storia delle dottrine giuridiche, intesa come anticipazione e preparazione di una filosofia del diritto che, superate e mediate le opposte tendenze dell'idealismo culminato con Hegel e del positivismo culminato con Spencer, deve mettersi al servizio della costruzione del nuovo Stato, nato dal processo di formazione delle nazioni moderne ed ora travagliato dalla lotta di classe, allo scopo di predisporre le strutture giuridiche adatte alle nuove esigenze e alla soluzione del problema principale del tempo, che è il problema della giustizia sociale. Quale fosse il compito dello Stato moderno egli indicò in quegli stessi anni con le parole di Gioberti, in occasione della celebrazione solenne per il primo centenario della nascita: "…lo stato moderno… deve organizzarsi in base alla unità nazionale, la quale raccoglie e concentra in sé il compito dello stato laico e civile, mentre alla città ed al municipio non può più appartenere che il compito amministrativo… Lo stato moderno ha per il Gioberti nel periodo attuale il grande compito di educare, di redimere, di innalzare le plebi coll'aiuto delle classi più elevate, e quello anche di attribuire agli ingegni quell'autorità e quell'influenza, che loro è dovuta in un periodo più progredito di aggregazione sociale" (Ilpensiero civile e politico di Vincenzo Gioberti, Torino 1901). Richiamandosi appunto al Gioberti che "nella mente sua, per quanto lo consentivano i tempi, aveva fatto quel lavoro di anticipazione sui mutamenti, che avrebbero dovuto introdursi col formarsi delle nazionalità moderne" (p. 314), nell'opera del 1903dichiara che "il grande compito della filosofia del diritto nello stato moderno consiste nell'elaborare il nuovo concetto di giustizia, quale esce dalla stessa psicologia, dalla storia e dalle nuove esigenze sociali" (p.312).
Nella sua prolissità quest'opera sembrò al suo apparire, e sembra ancor più oggi, un'opera della vecchiaia, nonostante la ricchezza delle informazioni e lo sguardo gettato con una curiosità che si sarebbe potuto dire giovanile sulla psicologia sociale del Wundt, che era penetrata allora in Italia. Di fatto, il C. non scrisse quasi più nulla dopo il 1903; dal 1904 si ritirò via via da tutte le cariche pubbliche sino allora ricoperte, e rinunciò anzitempo a gran parte degli obblighi accademici. Un volume di dispense universitarie dell'anno accademico 1911-1912 fu redatto sulla trama delle sue tripartizioni preferite dal discepolo, Gioele Solari, che ne ebbe dal 1909 al 1912 la supplenza (G. Carle-G. Solari, Lezioni di filosofia del diritto, Torino 1912).
Parlò in pubblico l'ultima volta in Senato nella tornata del 29 maggio del 1913, dedicata alla discussione di un progetto di legge che si proponeva di istituire una cattedra di filosofia della storia all'università di Roma, e che era già stato criticato duramente dal Croce. In un lunghissimo e disorganico discorso, che presenta tuttavia qualche interesse per alcuni cenni autobiografici, egli prese con veemenza le difese della filosofia della storia, riaffermando la propria fede in quella verace e sempiterna filosofia italiana che, nata in Roma, aveva trovato nella filosofia della storia la sua espressione più genuina.
Il C. morì in Torino il 17 nov. 1917, e la salma fu tumulata a Chiusa di Pesio.
Bibl.: Fondamentale, per la ricchezza e la precisione delle notizie, G. Solari, La vita e il pensiero civile di G. C., Torino 1928; e dello stesso autore, Imanoscritti di G. C. nella Acc. delle scienze di Torino, in Atti della Acc. delle scienze di Torino, LXXXV-LXXXVI (1950-1951), 2, pp. 130-145. Cenni in N. Bobbio, La filosofia del diritto in Italia nella seconda metà del sec. XIX, in Boll. dell'Ist. di filos. del diritto della R. univ. di Roma, III(1942), pp. 14 s.; G. Del Vecchio, Lezioni di filos. del diritto, Milano 1965, p. 516; G. Fassò, Storia della filos. del diritto, III, Ottocento e Novecento, Bologna 1970, p. 209.