Giuseppe Alberigo
Giuseppe Alberigo è stato uno dei più autorevoli storici della Chiesa del Novecento. La sua opera, che ha goduto di una diffusione internazionale, ha abbracciato un ampio spettro di argomenti, che vanno dalle devozioni di età medievale e moderna alla storia della Riforma e della Controriforma, alla storia conciliare nonché a quella del papato in età contemporanea. La sua figura resta legata in modo particolare all’Istituto per le scienze religiose di Bologna, che ha diretto per oltre quarant’anni, facendone un punto di riferimento internazionale per lo studio delle scienze religiose e contribuendo in modo decisivo alla formazione scientifica di numerosi ricercatori che si sono dedicati alla vicenda cristiana sotto i più diversi aspetti (esegetico, storico, teologico), nonché all’edizione di prestigiose collezioni di fonti e studi.
Giuseppe Alberigo nasce a Cuasso al Monte (Varese) il 21 gennaio 1926. Frequenta la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), diventando presidente della sezione di Varese, e il movimento giovanile della Democrazia cristiana; nel 1948 si laurea in giurisprudenza all’Università cattolica di Milano con una tesi in diritto amministrativo (relatore Francesco Rovelli). Nel 1950 si sposa con Angelina Nicora (dal loro matrimonio nasceranno tre figli) con la quale intesse anche un fondamentale scambio intellettuale.
In questi anni avviene l’incontro con Giuseppe Dossetti (1913-1996), che determina una svolta nella sua vita professionale. Abbandona, infatti, l’incarico di direttore amministrativo di un ospedale lombardo e segue Dossetti a Bologna, dove nel 1953 viene costituito il Centro di documentazione, un istituto di laici che intendono dedicarsi allo studio delle scienze religiose. Alberigo, che nel frattempo affianca Dossetti come assistente volontario all’Università di Modena, incomincia una serie di ricerche incentrate sul Concilio di Trento, per intraprendere le quali soggiorna in Germania entrando in contatto con Hubert Jedin (1900-1980), e collabora alla redazione del volume Conciliorum oecumenicorum decreta (1962), opera che dà rilievo internazionale all’attività del Centro.
Dal 1957 è assistente di Delio Cantimori all’Università di Firenze, nel 1959 consegue la libera docenza in storia della Chiesa e nel 1962 assume la direzione del Centro di documentazione. Nel 1967 ottiene la cattedra di storia della Chiesa presso la nascente facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna e prosegue le sue ricerche dedicandosi allo studio delle istituzioni di governo ecclesiastiche, concentrandosi in particolare sulla tematica della collegialità e le sue declinazioni conciliari e curiali. Entra a far parte del comitato di redazione della rivista internazionale «Concilium», tra le più impegnate nella stagione postconciliare per la promozione di un processo di riforma ecclesiale nella direzione di quanto espresso dal Concilio Vaticano II e per l’incentivazione del dialogo ecumenico.
All’inizio degli anni Settanta Alberigo viene quindi impegnato particolarmente, sotto il duplice profilo della ricerca e dell’intervento nel dibattito ecclesiale, nel contrastare il progetto della promulgazione di una Lex ecclesiae fundamentalis ‒ una sorta di costituzione per la Chiesa cattolica ‒ formulato da Paolo VI. Il progetto verrà effettivamente bloccato, determinando più tardi un suo parziale recupero mediante la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico (1983), ma segnerà nell’immediato e per i decenni successivi una crescente difficoltà di rapporto tra Alberigo e la gerarchia ecclesiastica italiana.
All’inizio degli anni Ottanta, poco dopo aver fondato la rivista «Cristianesimo nella storia», Alberigo avvia un nuovo importante cantiere di ricerca incentrato sulla figura e l’opera di Angelo Giuseppe Roncalli-Giovanni XXIII, coinvolgendo una giovane leva di ricercatori dell’Istituto per le scienze religiose (già Centro di documentazione). Così, nel volgere di un decennio, promuovendo un vasto scavo archivistico e patrocinando l’edizione di studi e fonti, Alberigo ridisegna radicalmente il profilo del «papa buono», rivelandone un volto ben più articolato di quello affermatosi sino a quel momento; e proprio in virtù di questo lavoro, alla fine degli anni Novanta verrà chiamato a collaborare alla stesura della Positio per la beatificazione di Giovanni XXIII.
Nel 1988 promuove quindi il progetto per la redazione di una Storia del Concilio Vaticano II, per la cui realizzazione costituisce un’équipe internazionale che, in un solo quinquennio (1995-2001), avvia e conclude l’edizione italiana (alla quale seguiranno traduzioni nelle principali lingue): il progetto prevede la più vasta raccolta di fonti extravaticane mai realizzata e mette in luce, superando ogni lettura confessionale o apologetica, la pregnanza storica dell’evento conciliare e l’articolazione delle posizioni mantenute dall’episcopato mondiale sui temi all’ordine del giorno, che si era riflessa da ultimo nella stesura delle decisioni conciliari.
Nell’ultimissima fase della sua vita Alberigo ridà impulso alla ricerca su Giovanni XXIII promuovendo l’Edizione nazionale dei suoi diari (2003-2008) e imprime nuovo slancio allo studio del tema della sinodalità: avvia una nuova edizione, articolata secondo differenti scansioni e integrata da nuove fonti, dei decreti dei concili (Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta, 2006). Contestualmente a questo lavoro propone di affrontare il nodo sinodale non più e non solo da un punto di vista ‘meccanico’, ma evidenziandone soprattutto la dimensione liturgica. Le sue ultime settimane di vita coincidono con una netta presa di posizione contro le pretese dirigistiche della Conferenza episcopale italiana rispetto al voto dei parlamentari cattolici. Colpito da un ictus, Alberigo muore il 15 giugno 2007 a Bologna, pochi giorni dopo aver ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano le insegne di cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana.
Alberigo esordisce nel campo della ricerca storico-religiosa come uno studioso dell’età moderna. Lo fa attraverso un tema che lo accompagnerà sino alla conclusione della sua vita, vale a dire lo studio dei concili. Le sue prime ricerche si incentrano infatti sul Concilio di Trento, che costituisce indiscutibilmente, ancora a metà degli anni Cinquanta, una matrice potente per la comprensione della situazione del cattolicesimo contemporaneo. Alberigo viene instradato in questa direzione da Dossetti, dal quale mutua l’idea che i concili costituissero un luogo privilegiato per la comprensione degli snodi che avevano accompagnato la vicenda cristiana.
Sotto la guida di Jedin, allora impegnato nella redazione della sua Geschichte des Konzils von Trient (4 voll., 1949-1975), Alberigo affronta questo studio secondo un approccio particolare: abbandona l’idea di considerare il Tridentino secondo gli schemi più consueti, che si soffermavano soprattutto sulle relazioni politiche intercorse tra le potenze europee prima e durante lo svolgimento del concilio, ma sceglie di vagliarne quasi esclusivamente la dimensione religiosa e di farlo mediante un’analisi selettiva dell’attitudine tenuta dai vescovi italiani durante una fase dei lavori del lungo concilio. La prospettiva scelta, che si riflette nella prima monografia pubblicata da Alberigo nel 1959 (I vescovi italiani al Concilio di Trento), era senza dubbio originale e condusse il suo autore, per un verso, a rafforzarsi nell’idea che vi fosse una dimensione-evento del concilio capace di incidere profondamente sull’identikit dei vescovi partecipanti, a prescindere dagli orientamenti pregressi, e sulla qualità del loro apporto ai lavori sinodali. D’altra parte, in un contesto storiografico come quello italiano tutt’altro che orientato in questa direzione, Alberigo si persuase dell’importanza di procedere, per il futuro, con lavori di taglio biografico: solo in questo modo era per lui possibile studiare in concreto la cosiddetta ricezione del Tridentino. Darà effettivamente applicazione a quest’idea in vari saggi dedicati alla figura e all’opera di Carlo Borromeo, tutti accomunati dalla preoccupazione di rimarcare la profonda metanoia derivata in questo più che illustre esponente della Chiesa milanese dall’impegno profuso per l’applicazione delle decisioni del concilio, diventando di fatto un modello vivente per la sua applicazione.
La tematica conciliare si riaffacciò immediatamente dopo questi primi lavori mediante l’intenso impegno profuso da Alberigo con i colleghi del Centro di documentazione nell’edizione dei Conciliorum oecumenicorum decreta: l’iniziativa era importante anzitutto da un punto di vista scientifico perché, mentre per alcuni concili si disponeva già dell’edizione degli atti, mancava uno strumento che, in forma critica, ricomprendesse in maniera sistematica tutte le maggiori decisioni dei cosiddetti concili ecumenici.
D’altro canto, Alberigo vive, negli anni del Concilio Vaticano II (1962-65), un’esperienza davvero inconsueta per un laico e uno storico: quella cioè di assistere l’arcivescovo di Bologna nella sua attività conciliare, mettendo immediatamente a frutto gli studi svolti nel decennio precedente. È anche attraverso esperienze scientifiche e personali così intense che la questione sinodale diventa per lui sempre più centrale, sino a intrecciarsi potentemente con quelle che sono le esigenze che lui vive come ‒ e si ricorre a una sua precisa formulazione ‒ «cristiano comune». Quell’antica idea sulla centralità dei concili nella storia del cristianesimo aveva trovato per lui conferma nell’esperienza diretta del Vaticano II, che aveva anche dimostrato tutte le virtualità insite in un confronto collegiale tra i vescovi.
In Alberigo si rafforza in tal modo il desiderio di approfondire lo studio della meccanica sinodale, soprattutto per mettere in luce come la collegialità costituisse in verità la prassi più veneranda per la vita della comunità cristiana, solo soffocata dalla progressiva e inarrestabile esaltazione del primato romano. È da questo desiderio che scaturisce la sua seconda importante monografia, pubblicata nel 1964 (Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale), che, con una paziente indagine tra gli autori dei secoli 16°-19°, dimostrava appunto tale deviazione, rassicurando al contempo i vescovi del Vaticano II che la scelta della collegialità non sarebbe stata né bizzarra né, tantomeno, eversiva rispetto alla tradizione.
Ciò che in ogni caso emergeva in maniera sempre più evidente con l’accumularsi delle sue pubblicazioni era il fatto che per Alberigo, sia da un punto di vista dell’impegno di ricerca sia in un’ottica più strettamente personale, restava cruciale il nodo della riforma nella vita della Chiesa: studiata sì con il rigore scientifico che un simile argomento esigeva, ma allo stesso tempo invocata come la sola prassi che poteva consentire all’istituzione ecclesiastica di assolvere pienamente al proprio compito. L’edizione di una fortunata antologia di testi dedicati alla Riforma (La Riforma protestante, 1977) mostrava poi come davvero questo tema lo interessasse in senso lato, impegnandolo anche a una debita comprensione delle dinamiche ecclesiologiche e istituzionali che esso implicava. Ma, a partire dal 1965, è soprattutto lo studio del Vaticano II, del quale rimarca costantemente le potenzialità rimaste implicite, a incarnare la centralità di questo tema, prima mediante la più comune attività di commento dei decreti conciliari e successivamente attraverso un’attività di studio più analitica, che produrrà, tra l’altro, una indicizzazione dei testi del concilio (Indices verborum et locutionum decretorum Concilii Vaticani II, 1968-1986) nonché una preziosa sinossi della costituzione Lumen gentium (Constitutionis dogmaticae Lumen gentium synopsis historica, 1975) che mostrava il ribaltamento di prospettiva ecclesiologica determinatosi al Concilio Vaticano II.
Contestualmente a ciò, e proprio alla luce di quanto stabilito dal Vaticano II, Alberigo si fa latore di precise istanze di riforma dei meccanismi di governo della Chiesa, a partire dalla curia romana: l’idea fondamentale che muove queste proposte è quella di ripristinare in modo sistematico e istituzionalizzato una prassi di maturazione condivisa delle decisioni che interessano la vita della Chiesa, dimostrando anche in questo caso come si trattasse di recuperare abiti e strutture che avevano connotato per secoli la vicenda cristiana. In questo senso, anche le ricerche sulle origini del cardinalato, sfociate nel 1969 in una terza importante monografia (Cardinalato e collegialità), puntano a mettere in luce come le stesse origini del Sacro collegio andassero individuate nell’esigenza di affiancare al romano pontefice non semplicemente un gruppo di collaboratori, bensì persone deputate a svolgere un ministero di servizio collegiale e di interlocuzione attiva con il papa. Per questa ragione, Alberigo non dissimula mai le proprie riserve sulle modalità di funzionamento del Sinodo dei vescovi e, tanto per i conclavi del 1978 come per quello del 2005, si fa latore presso i cardinali di proposte intese a dare a questa struttura un’effettiva capacità deliberativa.
È sempre l’interesse per il nodo della sinodalità a dare un impulso definitivo, alla fine degli anni Ottanta, al progetto della redazione di una Storia del Concilio Vaticano II: Alberigo intuisce che è finita la stagione dei commentari dei documenti conciliari e abbandona il modello di una ricerca solitaria quale quello adottato dal suo maestro Jedin, ma ne mutua fedelmente il rigore storico-critico, puntando a una ricostruzione che documentasse il travaglio, ma anche la fecondità del confronto tra i vescovi che stavano dietro il Vaticano II. L’opera, apprezzata pressoché unanimemente dal mondo scientifico, verrà duramente recensita dagli ambienti più prossimi alla Santa Sede, i quali sostanzialmente ne rigetteranno la prospettiva che, documentando minutamente gli appoggi che la minoranza aveva ottenuto da Paolo VI frenando gli slanci più promettenti del Vaticano II, cancellava senza appello l’immagine edulcorata di un concilio perfettamente coerente con il magistero precedente, ma anche con la prima applicazione che papa Montini ne darà nel corso del suo pontificato. Ad Alberigo veniva così attribuita la responsabilità di aver elaborato una teoria della rottura o della discontinuità del Vaticano II rispetto alla stagione storica precedente, aggravata dall’accusa di non aver avuto un vero approccio storico al concilio, presentato più come un «evento» che doveva ancora produrre i suoi frutti più promettenti perché imbrigliato dalle resistenze curiali che per i suoi esiti concreti, ovverosia i documenti finali che avrebbero invece dovuto costituire il vero metro di giudizio per una valutazione storica del Vaticano II.
Anche il progetto di riedizione dei decreti conciliari avviato da Alberigo al termine della sua vita, pure enormemente apprezzato dagli ambienti scientifici internazionali, susciterà dure critiche nelle accademie ecclesiastiche romane. Ciò che in questo caso si obiettava era la scelta del curatore, peraltro coerente con le più recenti acquisizioni storiografiche, di prescindere dal più tradizionale elenco dei concili ecumenici compilato da Roberto Bellarmino e di distinguere tra concili ecumenici (cioè recepiti da tutte le confessioni cristiane) e generali (la cui validità era invece decretata dalla sola Chiesa cattolica). Quest’ultimo progetto era stato intrapreso contestualmente a un nuovo tentativo di rilancio dello studio della tematica sinodale, estremamente originale e interessante per le suggestioni che lo animavano, ma destinato a rimanere allo stato embrionale. Alberigo intendeva questa volta mettere da parte l’analisi delle dinamiche istituzionali per concentrarsi invece sulle implicazioni sottese all’intreccio tra la celebrazione eucaristica e la prassi sinodale, certamente molto importante nei primi secoli, che erano però anche quelli per i quali si disponevano minori informazioni.
Il tema della riforma percorre l’opera di Alberigo ben oltre lo studio del tema della collegialità e della sinodalità, riversandosi anche in altri filoni di ricerca. Anzitutto nelle ricerche compiute rispetto alle proposte di reformatio che avevano interessato il cristianesimo prima delle rivoluzioni determinatesi in Europa nel 16° secolo. Alberigo si interessa anzitutto di quei fenomeni collettivi che percorrono il cristianesimo nel delicato passaggio tra età medievale e moderna e che individuano nella penitenza personale un requisito indispensabile per il ripristino di una vita cristiana. Attraverso lo studio della devotio moderna lo studioso bolognese rintraccia così i segnali di una tensione costante nel tempo che muove i cristiani alla conduzione di una vita più pura e conforme ai dettami evangelici. Nel caso particolare dei disciplinati, Alberigo aveva appurato come fosse fondamentale per i laici battezzati la possibilità di accedere a un culto più degno e liberato dagli orpelli devozionalistici che ne avevano incrostato il volto. Sono quindi le proposte di riforma in capite et in membris avanzate nel Libellus ad Leonem X (1513) di Vincenzo Quirini e Paolo Giustiniani a catturare la sua attenzione. Alberigo coltiva sin dall’inizio della sua attività di ricerca il progetto di farne un’edizione critica, in cui soprattutto evidenziare il tessuto delle fonti neotestamentarie e patristiche che sottostavano alle proposte dei due camaldolesi; ma anche se questo programma editoriale non avrà un seguito concreto è evidente l’interesse mostrato per decenni dallo storico bolognese verso un documento che, anche al di là delle intenzioni dei suoi autori (che puntavano chiaramente a un recupero del prestigio della sede romana in un contesto in cui i potentati europei la stavano assediando), mostrava anzitutto uno sforzo di comprensione della crisi attraversata dalla cristianità, ipotizzando al contempo, in modo molto concreto, strategie e strumenti per superarla.
Sensibile a differenti impulsi che gli venivano anche da amici e colleghi come Dossetti o lo studioso domenicano Marie-Dominique Chenu (1895-1990), Alberigo finisce per intrecciare in modo sempre più diretto la sua riflessione sul tema della riforma con lo studio del cosiddetto regime di cristianità apertosi in epoca costantiniana: considerandone le importanti evoluzioni, ma intravedendone lucidamente l’inesorabile declino che doveva spingere appunto lo studioso come il cristiano comune a considerare in che modo riprogrammare l’azione evangelizzatrice nella società moderna. In maniera sempre più evidente Alberigo deplora l’immobilismo culturale che tale regime aveva finito per sortire, concludendo che
una delle caratteristiche comuni alle diverse realizzazioni della cristianità riguarda la tendenza a cristallizzare la simbiosi tra cristianesimo e società, circoscrivendola a alcune dimensioni evangeliche e una sola cultura. Si opera cioè una selezione non solo a favore di una cultura – quella latino-occidentale, ad esempio – ma anche a favore di alcuni aspetti della rivelazione cristiana. Si privilegia dunque una cultura, giudicandola cristiana o comunque più idonea di altre a ricevere il cristianesimo, ma si privilegiano anche alcuni contenuti dell’annuncio evangelico trascurandone altri sino a rischiarne l’implicita negazione (L’«officina bolognese», 1953-2003, a cura di G. Alberigo, 2004, pp. 197-98).
Alle ricerche di taglio istituzionale Alberigo inizia dunque ad affiancarne altre intese a considerare con particolare attenzione l’attitudine di quei cristiani che, identificati dal suo maestro Dossetti come casi di «sapientia exemplata», avevano appunto saputo reagire creativamente rispetto al contesto in cui erano inseriti, diventando in questo modo i più potenti contraddittori del regime di cristianità: era il caso ovvio di Francesco d’Assisi; ma anche quello di Caterina Vigri, Carlo Borromeo e, più tardi, Roncalli (nonché di persone a lui particolarmente prossime, come Giuseppe Lazzati e Dossetti). Per tutti costoro Alberigo si preoccupa sistematicamente di censire i caratteri più propri delle rispettive spiritualità, dimostrando come la loro «santità» andasse individuata anzitutto nella materialità del loro confronto con la congiuntura ecclesiale. Concludeva così che quelli che la tradizione cattolica riconosceva come santi svolgevano davvero una funzione singolare e inconfondibile:
Essi costituiscono le cerniere – i giunti elastici, si potrebbe quasi dire – tra le vicende della Chiesa nell’ordine storico e la linea misteriosa, ma reale della storia della salvezza, che è sottesa a quella come la corda al suo arco. Lo spessore più autentico di una santità impegnata direttamente nella storia risiede appunto nella dialettica, ora contraddittoria ora complementare, tra natura e grazia, tra ordine storico e ordine provvidenziale (H. Jedin, G. Alberigo, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, 1985, p. 139).
L’opera storiografica di Alberigo è quindi percorsa da un’idea fondamentale, anche questa indiscutibilmente mutuata dal suo maestro e amico Dossetti. E cioè che esiste una profonda compenetrazione tra le dinamiche ecclesiali e quelle sociali e che le prime ridondano pesantemente sulle seconde in un modo che non è immediatamente percepito nelle sue implicazioni più importanti e fondamentali, vale a dire quelle di natura culturale. Qui ci si trova di fronte a un elemento qualificante dell’opera storiografica di Alberigo, perché lo storico bolognese ha costantemente affiancato a quelle che sono ricerche centrate su tematiche e questioni che prescindono dalla pregnanza di questo nesso, altre riflessioni in cui esso viene invece attentamente analizzato, al punto da guadagnare al loro autore l’epiteto di storico «impegnato» (e questo chiaramente con un intento deprezzativo).
In realtà, Alberigo rivela lungo tutta la sua cinquantennale attività di ricerca un approccio decisamente laico al proprio mestiere: già in un memorabile confronto con il suo maestro Jedin aveva affermato che la storia della Chiesa, a prescindere dalla peculiarità dell’oggetto che trattava, andava studiata con il più rigoroso metodo storico-critico; in aggiunta a ciò, Alberigo coglie la fecondità delle analisi che privilegiano il lungo periodo, le sole che appunto possono rilevare l’importanza o viceversa la natura effimera di determinati fenomeni. Il frutto di questa scelta metodologica si riflette costantemente nelle sue dense pagine, in cui risalta il rifiuto dell’apologetica che ancora intride pesantemente gli studi storici delle accademie ecclesiastiche, senza che tuttavia esso sfoci mai in riletture a tinte oscure o più banalmente scandalistiche. Aveva scritto alla fine degli anni Ottanta:
Contrariamente a un pigro luogo comune, le vicende della Chiesa sono ricche di dinamismo, di scontri anche acuti, di esiti sempre suscettibili di essere rovesciati o, almeno, riconsiderati e rivisitati creativamente. Ciò è particolarmente rilevante se non si dimentica che, soprattutto nei secoli più recenti, il cattolicesimo ha risentito del fatto di essere una delle tradizioni cristiane, fortemente caratterizzato dalla cultura latina e romana. Spesso questa condizione è stata vissuta con sentimenti di superiorità, talora come un limite: quasi sempre ha avuto esiti ambigui, dove si mescolavano creatività e fedeltà evangelica da un lato, ma anche campanilismo culturale e arroganza da un altro lato (La Chiesa nella storia, 1988, p. 10).
È precisamente questa rivendicazione di libertà intellettuale che, ad es., lo spingerà a prendere le distanze in modo sempre più visibile dalla Democrazia cristiana, ma anche a criticare un’esperienza come quella dei Cristiani per il socialismo, ai quali contesterà appunto l’incapacità di leggere la reale entità della coalizione di forze conservative che si era messa in moto nel corso degli anni Settanta per impedire un’effettiva promozione sociale dei più emarginati. Anche il suo reiterato rifiuto ‒ a dispetto di generose offerte ‒ a un impegno diretto in politica va compreso con la prospettiva di chi valutava come più urgente e fecondo un lavoro di tipo culturale, capace anzitutto di consentire una maturazione della società italiana. In tal senso le critiche mosse all’indirizzo della politica concordataria puntavano a denunciare come di fatto si voleva far passare come ecclesiali questioni che, in realtà, erano e restavano esclusivamente ecclesiastiche. In fondo, riconoscerà a metà degli anni Settanta, la stessa interpretazione che si era data per decenni del celebre articolo 7 della Costituzione non era l’unica possibile:
Con l’art. 7, cioè, non si introduceva il concordato nella costituzione, ma si diceva solo che per modificare il trattato-concordato si doveva seguire un procedimento di tipo costituzionale. Non si escludeva affatto, ad esempio, che si introducesse una politica di confronto tra la costituzione e il contenuto del concordato (Cristianesimo e società nell’età contemporanea, 1976, p. 20).
I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959.
Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo, Roma 1964.
Cardinalato e collegialità. Studi sull’ecclesiologia tra l’XI e il XIV secolo, Firenze 1969.
La riforma protestante. Origini e cause, Brescia 1977.
Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Brescia 1981.
La Chiesa nella storia, Brescia 1988.
Il cristianesimo in Italia, Roma-Bari 1989, 19972.
Nostalgie di unità. Saggi di storia dell’ecumenismo, Genova 1989.
Karl Borromäus: geschichtliche Sensibilität und pastorales Engagement, Münster 1995.
Storia del Concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voll., Bologna 1995-2001.
Dalla Laguna al Tevere. Angelo Giuseppe Roncalli da San Marco a San Pietro, Bologna 2000.
L’«officina bolognese», 1953-2003, a cura di G. Alberigo, Bologna 2004.
Breve storia del Concilio Vaticano II (1959-1965), Bologna 2005, 20122.
«Cristianesimo nella storia», 2007, 1, nr. monografico: Sinodi e liturgia, a cura di G. Alberigo.
Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009.
Vita di papa Giovanni: biografia di un pontefice, Bologna 2013.
U. Mazzone, Giuseppe Alberigo, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 2008, 73, pp. 247-58.
«Cristianesimo nella storia», 2008, 3, nr. monografico: Giuseppe Alberigo (1926-2007). La figura e l’opera storiografica.
N. Klein, Die Kirche in der Geschichte, «Orientierung», 2009, 24, pp. 261-63.
G. Miccoli, L’insegnamento fiorentino di Pino Alberigo. I preamboli di un’opera storiografica di inconsueto spessore, «Cristianesimo nella storia», 2010, 3, pp. 905-25.
G. Ruggieri, Lo storico Giuseppe Alberigo (1926-2007), in Storici e religione nel Novecento italiano, a cura di D. Menozzi, M. Montacutelli, Brescia 2011, pp. 33-52.