PROCACCINI , Giulio Cesare
PROCACCINI (Procaccino), Giulio Cesare. – Nacque a Bologna il 30 maggio 1574, da Ercole e dalla sua terza moglie Cecilia Cerva, fu battezzato nella cappella di S. Tommaso del Mercato il 1° giugno (Arfelli, 1959, p. 458) ed ebbe per fratelli maggiori Camillo e Carlo Antonio, rinomati pittori. Verosimilmente, pur in assenza di specifici ritrovamenti documentari, la famiglia dovette trasferirsi a Milano nel 1587 (cfr. Berra, 2002, p. 64), alla ‘corte’ di Pirro I Visconti Borromeo – illuminato committente, già in rapporto con Camillo e Carlo Antonio (Morandotti, 2005, pp. 136-138, 198-202, con bibliografia precedente) –, nel 1590 risultava abitante in S. Eusebio (Besta, 1933, p. 454) e il 7 novembre 1594 venne iscritto nel registro di cittadinanza (Pevsner, 1929, p. 323). È datato 17 maggio 1600 il contratto di dote tra Giulio Cesare e la moglie Isabella Visconti (Brigstocke, 1989, p. 45), insieme alla quale nel 1607 risiedeva nella parrocchia di S. Pietro in Campo Lodigiano.
Procaccini fu l’unico della famiglia a dedicarsi anche all’arte scultorea, cui si consacrò in maniera esclusiva dal 1590-91 al 1599, con qualche eccezione (Berra, 1991, pp. 72, 75 s.) che si intrecciò all’attività pittorica. Gli esordi avvennero dunque nel campo delle arti plastiche: verosimilmente maestro di Procaccini fu Francesco Brambilla, protostatuario della Fabbrica del duomo di Milano dal 1585 e dal 1587 alle dipendenze di Pirro I Visconti Borromeo insieme a Camillo e Carlo Antonio per la villa di Lainate, cantiere in cui, secondo Alessandro Morandotti, debuttò il giovane Giulio Cesare (2005, pp. 87 n. 296, 239 s., 248 n. 117).
Al 20 dicembre 1590 risale la prima menzione del «Procacino» nelle ordinazioni capitolari del Duomo di Milano, per cui realizzò una statua marmorea di S. Marcellina (Berra, 1991, pp. 13, 22 s.), una S. Eufemia (pp. 23 s.), un S. Ambrogio su modello di Brambilla (pp. 27-30) e «Duoi termini» in marmo posti all’altare di S. Giuseppe (pp. 25-27).
Il 13 agosto 1595 iniziarono i contatti tra Procaccini e i rappresentanti del santuario di S. Maria presso S. Celso, in particolare Carlo Brivio, che lo definì «pittore e scultore» (p. 39), lasciando intendere che a quella data la sua produzione pittorica fosse già stata avviata.
Per il quarto ordine della facciata di S. Celso egli realizzò due rilievi marmorei raffiguranti la Visitazione e la Natività della Vergine, pagati tra il 1595 e il 1598 (p. 41); ideò ed eseguì poi una coppia di Angeli in marmo da porre come reggicorona sulla statua dell’Assunta, opera di Annibale Fontana e posta sull’altare della Vergine dei Miracoli (pp. 44-48).
Il 4 dicembre 1597 Procaccini venne assoldato dai fabbricieri del Duomo di Cremona per due statue grandi quanto il naturale «sotto il titolo de Ss. Gioanni e Mateo» da porsi nella cappella del Ss. Sacramento (pp. 49-60). La vicenda fu complessa e si trascinò fino al saldo dell’8 aprile 1625, quando le sculture erano finalmente pronte.
Il 7 giugno 1599, nuovamente per il Duomo di Milano, a Procaccini si commissionò un S. Satiro per l’altare di S. Agnese che non eseguì (p. 31), mentre nel 1601 venne pagato per i modelli in cera per le maniglie dei battenti della sacrestia di S. Vittore (Morandotti, 2005, pp. 137, 141 n. 60, con bibliografia precedente). Allo stesso anno risale una delibera dei fabbricieri ancora di S. Maria presso S. Celso, con cui si affidava la decorazione a fresco e a stucco delle cappelle laterali a Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, a Giovan Battista della Rovere, detto il Fiammenghino e a Procaccini (Rosci, 1993, p. 16).
L’impegno in S. Celso partì dalla quarta cappella a sinistra, per cui disegnò gli stucchi (Berra, 1991, pp. 66-71; sull’abilità grafica dell’artista si veda Neilson, 2004, con bibliografia precedente), realizzò gli affreschi ed eseguì la tela con la Pietà, già in loco nel marzo del 1604 (Rosci, 1993, pp. 56 s., con bibliografia precedente). Il linguaggio pittorico in particolare del dipinto risulta permeato da dettami controriformistici, secondo un ricercato patetismo devozionale, con echi a modelli di baroccesca e zuccaresca memoria, come svelano l’impaginato e i toni aciduli dei verdi e degli aranciati. Il lavoro proseguì con l’ideazione e la realizzazione dei decori per la quarta campata della cappella a destra, intitolata ai Ss. Nazaro e Celso celebrati nella pala d’altare firmata e datata al 1606 e caratterizzata da una potente violenza plastica, oltre a un’evidente riflessione su stilemi ceraneschi e impeti di matrice tintorettesca (pp. 58 s.).
All’incirca agli stessi anni è da ricondurre anche la Trasfigurazione con tre santi martiri, già nella piccola chiesa di S. Celso attigua al santuario di S. Maria presso S. Celso e oggi a Brera (P. Vanoli, in Seicento lombardo a Brera, 2013, p. 158, n. 36, con bibliografia precedente), l’opera che Agostino Santagostino battezzò come «la prima pittura ch’egli fece doppo aver cambiato lo scarpello in pennello» (1671, 1980, p. 26), senz’altro una tra le prime prestigiose commesse pubbliche. Richiesto nel 1609, ancora per S. Celso, è il S. Sebastiano martire, oggi a Bruxelles ed efficace esempio di cura per una resa anatomica ispirata alle trascrizioni plastiche già sperimentate (Cannon-Brookes, 1974-1980, pp. 127-146; Ferro, 2012, p. 289, con bibliografia precedente) e di attenzione a modelli parmensi. Tra le prime suggestioni che incuriosirono l’ispirazione pittorica dell’artista si riconoscono infatti stilemi di matrice correggesca e parmigianinesca, dovuti a una conoscenza della pittura emiliana acquisita forse grazie a un viaggio tra Roma, Venezia e Parma cui accennava Carlo Cesare Malvasia (1678, 1974, p. 220) o, più verosimilmente, a un probabile soggiorno a Parma a inizio Seicento quando l’artista risultava assente da Milano (Berra, 1991, pp. 13, 69 n. 174).
Per la parrocchiale di Domaso, sul lago di Como, compì la pala con la Vergine, il Bambino e i ss. Pietro e Paolo, databile al 1605, in prossimità della conclusione degli affreschi della cappella di pertinenza (Brigstocke, 2002, pp. 16-18, 122). Ancora nel 1605 venne incaricato di eseguire dieci dipinti per la cappella dei Signori nel tribunale di Provvisione, di cui solo tre sono stati identificati, tutti conservati alla Pinacoteca del Castello Sforzesco: S. Sebastiano, S. Barnaba (a cui forse può riferirsi un pagamento del 16 novembre 1606) e la Presentazione a Costantino delle reliquie della Passione, firmata e datata 1620, a riprova di quanto questo incarico si fosse protratto nel tempo.
Questa richiesta, così come l’articolato impegno per S. Maria presso S. Celso e la committenza di una grande Deposizione – firmata e datata al 1606 (Rosci, 1993, pp. 22 s.) – per Appenzell, avamposto cattolico in una cittadina scissa tra protestanti e cattolici, provano l’affermata posizione di Giulio Cesare in ambito borromaico.
Fatta eccezione per gli affreschi in S. Maria presso S. Celso, le perdute pitture in S. Angelo (Malvasia, 1678, 1974, p. 218) e i contatti del 1613, poi non concretizzati, per il decoro della cupola della Beata Vergine della Ghiara a Reggio Emilia (Brigstocke, 2002, pp. 124-127), Procaccini si specializzò nell’olio su tela, trovando presto una capacità personalissima di far scaturire le forme dal puro impasto cromatico, dando vita al celebre «abbozzo autonomo» (Longhi, 1966, pp. 25-29), ispirato da un’indubbia perizia tecnica e fantasia compositiva.
Nel 1610, anno della santificazione di Carlo Borromeo, la Fabbrica del duomo commissionò una serie di ventiquattro teleri, di cui sei quadroni con i Miracoli di s. Carlo a Procaccini.
Le tele, esposte il 4 novembre 1610 ad apertura delle cerimonie di canonizzazione, vennero pagate 300 lire ciascuna, con però un’indennità speciale di 300 lire ai soli Cerano e Procaccini, a riprova di un talento ormai più che riconosciuto.
Nel 1609 venne eretta la cappella del senatore Ludovico Acerbi in S. Antonio Abate dei Teatini, per cui, verosimilmente tra il 1610 e il 1611, Procaccini dipinse una tela con Tre angeli posta sopra l’altare, la Gloria di Dio Padre a tempera sulla volta e il celebre trittico con Annunciazione, Visitazione e Sacra Famiglia nella fuga in Egitto caratterizzato da impasti particolarmente ricchi, da cromie iridescenti e da un impianto potentemente protobarocco (Coppa, 1981, pp. 85-89).
Tra il 5 agosto e il 9 ottobre 1612, da Parma (Berra, 1991, pp. 77, 125-127), lavorò a un modello per una delle statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese a Piacenza, impresa poi aggiudicata a Francesco Mochi, che documenta però come ancora a quella data fosse viva la memoria delle sue abilità plastiche (pp. 72-77).
Negli anni Dieci iniziò anche il rapporto con l’illustre mecenate genovese Giovanni Carlo Doria, presentatogli da Fabio Visconti Borromeo – figlio di Pirro e cognato dello stesso Doria –, che fu suo collezionista senza pari, raccogliendo oltre novanta sue opere, pagategli dall’8 aprile 1611 fino a dopo l’aprile 1622 (Farina, 2002, pp. 179 n. L35, 183-185 n. D3 e ad ind.). Procaccini fu suo ospite a Genova nel 1618 (Soprani, 1674, p. 315), occasione grazie a cui ottenne nuove commesse – come la grandiosa Ultima Cena (oggi nella controfacciata della chiesa della Ss. Annunziata del Vastato) –, fece preziose conoscenze – come quella di Gian Vincenzo Imperiale, per cui dipinse e che incontrò di nuovo a Milano nel 1623 (Martinoni, 1983, pp. 53 s., 164 e ad indicem) – e poté confrontarsi de visu con la scuola genovese e le opere foreste presenti in città a quel tempo.
Tra i dipinti del secondo decennio, sempre più aperti a suggestioni barocche e al libero confronto su toni bolognesi-romani, si segnalano: la Madonna con il Bambino, i ss. Francesco e Domenico e angeli commissionata intorno al 1612-13 (Brigstocke, 2002, pp. 84 s.), già nella cappella di S. Francesco in S. Maria dei Miracoli di Corbetta, nel Milanese, oggi al Metropolitan Museum of art di New York; il S. Carlo, il Cristo morto e un angelo oggi a Brera, ma originariamente pala dell’altare maggiore della chiesa dei Ss. Carlo e Giustina a Pavia (Rosci, 1993, pp. 88 s.); la Madonna e santi della parrocchiale di Caravaggio, firmata e datata al 1615; L’arcivescovo Carlo Borromeo porta in processione il Sacro Chiodo, tela datata al 1616, conservata in S. Maria Assunta a Orta, e la Madonna immacolata e s. Antonio della parrocchiale di Masino sul lago d’Orta, già segnalata nel 1616. Richiesta nel 1613 ed eseguita nel 1616 è poi la magnifica Circoncisione di Gesù con s. Ignazio e s. Francesco Saverio già a Modena in S. Bartolomeo e oggi nella Galleria Estense, opera per cui l’artista si recò nella città emiliana, come ricorda Giuseppe Campori (1855, 1969, p. 390); mentre nel 1617 venne già registrato, dunque compiuto, il dipinto con i Ss. Carlo, Antonio abate e Rocco per l’oratorio di S. Carlo a Miasino, nel Novarese. Ancora al 1616 è riconducibile la committenza del Transito della Vergine, già nella cappella del Rosario in S. Domenico e oggi nella Pinacoteca di Cremona (Rosci, 1993, pp. 114 s.), mentre venne pagato nel 1617 lo Sposalizio della Vergine per la cappella di S. Giuseppe nella chiesa parmense della Steccata, oggi nella vicina Galleria nazionale (pp. 102 s.).
Nel luglio del 1617 Procaccini fu contattato per scolpire un rilievo raffigurante Gesù nel Tempio da porsi nella parte esteriore del coro del Duomo di Milano, impegno che non onorò tanto da dover restituire il marmo il 18 febbraio 1619 (Berra, 1991, pp. 77 s.).
All’8 giugno 1619 risale il primo noto documento della chiamata di Giulio Cesare a Torino per alcuni lavori in Palazzo ducale, insieme al fratello Camillo (Rosci, 1993, pp. 17, 19), e a questo momento può riferirsi il cartone per il Paliotto oggi nella cappella della Sindone (Brigstocke, 2002, pp. 102-105), mentre firmato e datato 1623 è il Caino e Abele attualmente esposto alle Gallerie dell’Accademia Albertina di Torino (Rosci, 1993, pp. 136 s.).
Nel novembre del 1621 Procaccini era nuovamente a Milano, come prova la lettera che Simon Vouet scrisse al Doria raccontando la sua visita all’atelier dell’artista (Farina, 2002, pp. 177 s. n. L.30), impegnato, in quel frangente, a eseguire, proprio per il Doria, la serie dei Dodici apostoli, di cui oggi solo sette sono stati rintracciati e risultano conservati tra i Musei di Strada nuova di Genova e diverse collezioni private (Ferro, 2012, p. 275, con bibliografia precedente).
Il 2 dicembre dello stesso anno una nota lettera di Orazio Fregoso ancora a Giovanni Carlo Doria dava notizia che Procaccini era «assalito di febre acuta» (Brigstocke, 2002, p. 132).
Del 1622 è il gruppo in legno dorato dell’Angelo custode già in S. Monica e oggi nel Museo civico di Cremona (Berra, 1991, pp. 78-90), mentre tra il 1620 e il 1625 è tradizionalmente datato il celebre Quadro delle tre mani, ovvero il Martirio delle ss. Rufina e Seconda (Pinacoteca di Brera), dipinto da Procaccini, Cerano e Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone su probabile suggestione del collezionista Scipione Toso (P. Vanoli, in Seicento lombardo a Brera, 2013, pp. 150 s., n. 19, con bibliografia precedente).
L’ultima opera datata è l’Autoritratto del 1624 oggi a Brera, dove Procaccini esibisce una medaglia d’oro ricevuta dal granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici, a riprova di una fama ormai riconosciutagli anche fuori dai confini lombardi.
Morì il 14 novembre 1625 a Milano (Pevsner, 1929, p. 321) lasciando eredi la moglie e tre figlie, Cecilia, sposa del pittore Marco Antonio Ciocca, Prassede e Virginia, moglie di Filippo Pirogallo.
Il giorno prima aveva indicato il Cerano come esecutore testamentario e cinque giorni dopo la morte venne eseguito l’inventario dei dipinti rimasti in studio (Brigstocke, 2002, pp. 134-136): quarantaquattro tra grandi e piccoli, di cui tre definiti «sbozati», cinque «boza» o «sbozo» e due «machia», termini che alludono all’eccezionalità della tecnica procaccinesca. Per sua volontà Procaccini venne sepolto nella tomba di famiglia in S. Angelo a Milano (Valsecchi, 1973, p. 38).
Fonti e Bibl.: A. Santagostino, L’immortalità e gloria del pennello. Catalogo delle pitture insigni che stanno esposte al pubblico nella città di Milano (1671), a cura di M. Bona Castellotti, Milano 1980, p. 26; R. Soprani, Le vite de’ pittori, scoltori, et architetti genovesi, Genova 1674, p. 315; C.C. Malvasia, Felsina pittrice: vite de’ pittori bolognesi (1678), I, Bologna 1974, pp. 218-220; F. Baldinucci, Notizie de’ professori di disegno da Cimabue in qua (1681-1728), III, Con nuove annotazioni e supplementi per cura di F. Ranalli (1846), Firenze 1974, pp. 383 s.; G. Campori, Gli artisti italiani e stranieri negli stati estensi (1855), Roma 1969, p. 390.
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