BECELLI, Giulio Cesare
Nacque, Verona nel 1686 da Giovanni Battista, da Cecilia Comer, di nobile famiglia. Frequentò le scuole dei gesuiti e vestì giovinetto l'abito della Compagnia; ma già nel 1710 ne usciva, adducendo giusti motivi. Ritornato allo stato laicale, si sposò, e condusse da allora una vita niisera ma dignitosa, sostentandosi con i pochi guadagni tratti dall'insegnamento e dai lavori compiuti presso stampatori e tipografi. Solo nel 1740, infatti, gli furono restituiti i beni famigliari confiscati. In quell'anno comincia per lui un periodo felice e fortunato di produzione creativa, che doveva chiudersi solo con la sua morte, avvenuta nel 1750.
La discreta fama raggiunta, almeno locahnente, dal B. è provata dalla raccolta di Rime e versi, apparsa in occasione della sua morte (Verona 1750) con una lettera dedicatoria agli Accademici Fluttuanti di F. Franca (fonte di quasi tutti i repertori biografici e bibliografici successivi). Sebbene la personalità del B. non spiccasse a suo tempo nell'ambiènte culturale e letterario italiano, vivace e costante dovette essere la sua partecipazione ai circoli intellettuali della sua città e della sua regione d'origine. Si sa che fu ascritto all'Accademia dei Filarmonici di Verona, presso la quale recitò varie lezioni, all'Accademia dei Ricovrati di Padova e a quella dei Fluttuanti del Finale di Modena. Nel 1721 risiedette per qualche tempo a Padova, dove frequentò la scuola dell'abate D. Lazzarini, allora celebre professore di lettere umane e di retorica. Ma il rapporto culturale più importante per la formazione e l'indirizzo della sua opera fu quello cori il marchese S. Maffei, il grande erudito e letterato del tempo, concittadino del B. e suo maestro, amico, protettore.
La testimonianza di questa reciproca stima e amicizia restano, da una parte, una lettera del Maffei, in cui il B. viene caldamente raccomandato come eventuale istitutore di nobili rampolli veneziani, dall'altra l'introduzione premessa dal B. al Teatro di S. Maffei (Verona 1730), che comprendeva la Merope, la commedia Le cerimonie e La fida ninfa. Un altro episodio di questa relazione è la parte presa dal B. nella contesa che oppose S. Maffei a L. Riccoboni, il famoso -comico italiano, più noto con il nome di Lelio. Quando infatti il Maffei si recò a Parigi, fu fatto segno ad attacchi violentissimi da parte dei suoi nemici italiani e stranieri; in sua difesa, e contro Lelio e l'abate Desfontaines, il cav. de Mouhy scrisse un Merite vengé (Paris 1736); Lelio rispose con una lettera all'abate Desfontaines e il B. intervenne allora con una Lettera ammonitoria a Lelio commediante che sta in Parigi, Venezia s. d. [ma 1736], pubblicata a quanto pare all'insaputa del B. stesso, e il cui valore non va al di là dell'occasione contingente che l'aveva provocata, poiché il suo autore non vi affronta nessuna questione teorica di rilievo.
Vasta e fin troppo eterogenea appare la produzione letteraria del B., il quale, può esser definito da questo punto di vista un mediocre cultore di forme e generi propri dell'età dell'Arcadia più che uno sperimentatore audace e originale. Tutto dipendente dai modelli forniti dal Maffei è, per esempio, il suo teatro Frigida e letteraria è la tragedia Oreste vendicatore, Verona 1728, che riprende gli sciolti della Merope, ma non la sua accademica e solenne dignità esteriore (di un'altra tragedia del B., Il Mustafà, sappiamo soltanto che restò manoscritta). Più vive ed interessanti le commedie, di cui apparvero a stampa - senza peraltro essere mai rappresentate - le seguenti: Li falsi letterati, Verona 1740; L'ammalato, ibid. 1741; L'ingiusta donazione, ibid. 1741 (è la stessa che inizialmente s'intitolava L'Avvocato); L'Agnese di Faenza, ibid. 1743 (tratta dalla V novella della V giornata del Decamerone); I poeti comici, Rovereto 1746 (scritta principalmente per difendere se stesso e le commedie precedentemente pubblicate); La pazzia delle pompe, Verona 1748; L'Ariostita e il Tassista, Rovereto 1748.
Il B., nella composizione di queste opere, risponde a una serie di esigenze assai diffuse nella cultura teatrale del tempo, e di cui il Maffei anche in questo caso aveva saputo cogliere, sia pure solo in un raffinato gioco di alchimia letteraria, gli echi e le sollecitazioni (non vanno poi dimenticate le esperienze tentate nei decenni precedenti non solo da personaggi come G. B. Fagiuoli, I. Nelli e G. Gigli, ma. anche e soprattutto proprio per certe particolari risonanze della commedia becewana, da un minore come N. Amenta, che nel campo del teatro napoletano aveva cercato di realizzare tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento una "riforma" di decoro etico e formale, per molti aspetti analoga a quella perseguita dal Becelli). Il B. desidera uscire, infatti, dalla vuotaggine in cui era caduta la commedia dell'arte, ed inserisce perciò nelle sue opere intenti di moderata satira letteraria e di costume, che valgano a restituire al teatro il suo precipuo intento di educatore morale: così ne Li falsi letterati, che punge la vanità e la goffa incompetenza di un gruppo di "dotti" cialtroni; così ne La pazzia delle pompe, tutta volta a condannare il lusso e le spese esagerate; così, soprattutto, ne L'Ariostista e il Tassista, che, approfittando dello spunto offerto dalla tradizionale contesa fra i sostenitori dei due scrittori cinquecenteschi, mette in burletta un certo mondo superficiale e vanesio della cultura. Il desiderio di mettere la commedia al passo coi suoi tempi non induce però il B. a tentare soluzioni apertamente realistiche, ma rifluisce nell'imitazione dei modelli cinqúecenteschi, considerati perfetti e insuperabili. Il tentativo del B. non esce, perciò da una fredda anche se dignitosa pulizia accademica. L'opera forse più interessante è L'Ariostista e il Tassista, in cui, se da una parte è presente l'attenzione di riprendere certe forme e aspettidel teatro aristofanesco, dall'altra, forse in maniera più diretta e sostanziale, c'è la reminiscenza d'un tipo di commedia letteraria che nel Seicento aveva avuto larga diffusione: si ricordi La rivolta di Parnaso di S. Errico.
Questo contemperamento di moderno e di antico, questo proposito d'innovare, non negando o scavalcando la tradizione, ma anzi ritrovando e imponendo la tradizione più corretta e feconda, si possono riconoscere anche nelle troppo lodate posizioni teoriche del B., critico intelligente e avveduto del passato più che profetico preannunciatoré del futuro. Peraltro notevoli ed acuti sono i suoi Della novella poesia, cioè del vero genere, e particolari bellezze della Poesia italiana libri tre, Verona 1732, per i quali il B. è stato definito il primo dei preromantici italiani, anticipatore delle posizioni del Baretti (E. Bertana, G. Toffanin).
Indubbiamente alcufte proposizioni fondamentali del B. colpiscono per la forza e la sicurezza con cui sono affermate. Lo scrittore veronese è convinto, innanzi tutto, che le letterature moderne d'Europa abbiano una loro particolarissima autonomia, che non discende affatto, come i più inveterati classicisti vorrebbero, dai caratteri e dalle forme delle letterature antiche, poiché "convenevole è' anzi alla bellezza e varietà della poetica arte dovuto, che la poesia di ciascun popolo meglio faccia a celebrare i suoi fatti, e le sue più fresche storie che i fatti altrui e le storie più lontane" (Novella poesia, p. 11). Le mutazioni dei tempi inducono una continua, instahcabile mutazione delle forme e dei contenuti letterari. Ne consegue che, laddove imitazione dei generi antichi c'è stata da parte dei modemi, il risultato è apparso tanto più alto quanto più nell'imitazione l'artefice ha saputo innovare, trasformare: questo è uno dei motivi per cui Petrarca è un grande poeta - e Chiabrera, che ricalca pedissequamente le orme degli antichi, soltanto un mediocre. Ma la conseguenza più rilevante di questo atteggiamento è che l'imitazione verso i classici non è considerata necessaria in sé alla creazione dell'opera letteraria moderna, ed anzi, nella grande maggioranza dei casi, perfino dannosa. Infatti, "primieramente certa cosa è che tutte le lingue hanno una sua singolar proprietà, forza, leggiadria e bellezza che mal si può in altra lingua trapiantare"; "Ma la più forte e maschia ragione perché le poesie allatinate, o alla foggia dei Greci e dei Latini composte non piacciono, o meno piacciono, questa si è a mio credere, imperciocché i tempi, i costumi, le maniere del vivere e la, religione stessa sono da quelle che erano mirabilmente cangiate" (ibid., p. 5). Le regole stesse, che gli antichi pongono, non hanno una validità assoluta, ma relativa alle occasioni e allo spirito concreto, effettuale del componimeiito affrontato "la natura dei fatti o delle cose stesse" pone essa di volta in - volta la necessaria novità, e legittima il superamento di ogni confine o freno, "quando non sia in ciò che alla Divina natura e qualità s'appartiene".
Tali posizioni possono essere considerate un'ulteriore, più audace espressione di quella "querelle des anciens et des modemes", che ormai da una cinquantina d'anni tornava di tanto in tanto ad accendere i dibattiti letterari europei, soprattutto in Francia, come si sa, ma anche in Italia, dove anzi essa aveva conosciuto delle parziali e approssimative anticipazioni. Il B., infatti, non perviene neanche da lontano a intravedere il concetto romantico di poesia come creazione fantastica e individuale (che, viceversa, è adombrato già nelle opere del suo contenporaneo A. Conti) e si limita a postularg a capacità d'invenzione artistica originale, da parte dei moderni, che porta in sé, come vedremo, il germe di una nuova retorica e di un nuovo classicismo. Del resto - per capire il peso e il significato della definizione di preromanticosi ricordi che in questo caso lo stesso critico, il quale gliela attribuisce per primo (E. Bertana), elenca fra i precursori del romanticismo A. Tassoni, G. Ottonelli, e, archetipo dei "modernisti" italiani, Secondo Lancillotti. Altri, più giustamente, colgono nel B. la dipendenza moderata dalle idee razionalistiche dei francesi (Bouhours, Malebranche, ecc.). Sfrondata di molto, quindi, la novità becelliana sul piano teorico, restano senza dubbio notabili le sue osservazioni critiche sulla. letteratura italiana, riesaminata alla luce di questo spirito modernizzante e avveduto. Data l'impostazione di fondo, non sorprende che il B. dedichi la maggior parte della sua ricerca a quei generi che la letteratura italiana moderna non ha in comune con la letteratura latina o con quella greca, e cioè, a suo dire, "i divini poemi' i poemi romanzi, le farse, i generi - di giocosi stili, le poesie nelle lingue idiote", e infine "la nuova lirica poesia e nella sostanza e negli accidenti suoi dalla latina e greca differenti". Particolarmente importanti in questo quadro l'ammirazione per Dante e Ariosto, e, più generalmente, per i poemi romanzeschi italiani, un genere del tutto nuovo, vario, piacevole; la simpatia per i poemi giocosi, la satira bernesca e la letteratura in dialetto; il prudente distacco dal Petrarca, motivato anche con ragioni stilistiche.
Il quadro delle posizioni del B. non sarebbe peraltro completo se non si accennasse al fatto che, coerentemente ad alcuni aspetti della sua educazione gesuitica, qua e là riaffioranti nel corso della sua opera, una motivazione tra le più forti che suggeriscono il distacco delle letterature moderne da quelle antiche è di carattere religioso e morale. Disonesta, oltre che contraria all'arte, appare l'imitazione di una civiltà letteraria ed artistica che s'appoggia, su fondamenti falsi ed ingannevoli. Di conseguenza, l'ottimo risultato dei moderni è assicurato anche dalla superiorità della fede religiosa, cui essi di sovente s'ispirano: così avviene ad esempio nella lirica, in cui "I Greci e i Latini non ebbero molta onestà; là dove i lirici nostri, lasciando i più bas, si, ed in pochissimi luoghi i più antichi , un amor sollevato e nobile e platonico espressero" (ibid., p. 79). Questo atteggiamento si ritrova alla base dell'Esame della Rettorica antica, ed uso della moderna, libri sette divisi in due parti, I, Verona 1735; II, ibid. 1736;poi, ibid. 1739, nel quale si cerca di dimostrare che le retoriche antiche, e le moderne per quanto sono dipendenti da quelle antiche, peccano non in se stesse, ma perché derivano da credenze sbagliate, ovverosia, come il B, afferma, che "le prime retoriche de' Greci e de' Romani furono o buone o ree (ma di queste maggiore è il numero) a cagione delle diverse filosofie dalle quali provenivano, come erbe da una radice, overo ramo dal suo ceppo" (Esame, p. 237).
Questo vistoso moralismo non è del resto il solo limite del Becelli. S'è già detto che lo sganciamento delle letterature moderne da quelle antiche non porta necessariamente in questo autore ad un superamento del concetto classicistico della poesia. Il concetto d'imitazione è riproposto infatti integralmente all'interno delle letterature moderne. Tale posizione è da parte sua particolarmente rigida nel campo linguistico, dove il B. fa professione di rigoroso purismo: l'italiano letterario è - per lui una "lingua morta", e va trattato come tale. Ad un interlocutore dei dialoghi Se oggidi scrivendo si debba usare la lingua italiana del buon secolo, Verona 1737, il B. mette in bocca queste parole: "Io ho sempre pensato che a scemarci la fatica e a toglierci tanti dubbi e questioni, a scoprire alcun vero in questo proposito, altro mezzo non siavi se non stabilire i secoli della italiana lingua alla maniera di quelli della latina" (p. 95). Né questa indicazione viene considerata valida solo per la poesia, come era più ovvio, bensì anche per la prosa, nella quale il processo di liberazione dall'imitazione trecentesca era già allora proceduto molto avanti. Afferma il B.: "Quasimente tutti al dì d'oggi nelle rime imitano la lingua dei maggior nostri; dunque si dee altresì nelle prose la lingua dei maggiori nostri imitare" (ibid., p. 31).
Questa volontà di riallacciarsi al passato più glorioso della tradizione italiana, che del resto si individua agevolmente anche nelle commedie, esemplate sui modelli cinquecenteschi e secenteschi, è la radice da cui scaturiscono gli altri poveri tentativi artistici del Becelli. Intendiamo - riferirci soprattutto a Il Gonnella, Verona 1739, poema giocoso in ottava rima, che attraverso dodici lunghi canti narra le scipite avventure e le grossolane battute del personaggio omonimo, buffone alla corte del duca, Borso d'Este, e a La Gazzera, "nuovo poema romanzo", di carattere piacevole e avventuroso, di cui a stampa abbiamo solo il primo canto, inserito alle pp. 125-40 del trattato Della novella poesia, quasi a dimostrazione che gli 'antichi generi italiani potevano in pieno Settecento essere ripresi e rinvigoriti. Non molto più interessanti le traduzioni dai testi classici, spesso sciatte e infedeli, che però rivelano la non indifferente cultura umanistica del Becelli. Sono da ricordare a questo proposito I quattro libri delle Elegie di Sesto Aurelio Properzio tradotti in terza rima, Verona 1742 (espurgati con scrupolo dei passi libertini ed osceni). e la volgarizzazione (dal latino) dei primi cinque libri delle Storiedi Erodoto, ibid. 1733 e 1734.
Più originali e penetranti gli interessi pedagogici del B., che dimostrò in questo cafnpo mente pronta e aperta alle sollecitazioni provenienti dagli altri paesi europei. L'opera sua più significativa resta L'arte dell'educare i fanciullidi Gio. Loche Inglese, ridotta ad aforismi, con alcune aggiunte, Verona 1736. Influssi lockiani si possono cogliere anche nel Trattato nuovo della divisione degl'ingegni e studi, secondo la vita attiva e contemplativa, scritto singolarmente ad uso della nobiltà d'Italia, Verona 1738, in cui il vecchio tema delle differenti inclinazioni umane alla meditazione o alla pratica viene svolto tutto in chiave aristocratica, non solo approfondendo e sancendo la divisione fra le due forme di attività, ma considerando particolarmente votata alla vita del pensiero la nobiltà. Altri temi pedagogici in De ratione puerilium studiorum, dialogi II, Veronae 1741.
Il Mazzuchelli ricorda infine un'altra opera del B. intorno a soggetti di poetica e d'estetica: Se possa più la Pittura o la Poesia, stanze, s.l. né d.
Fonti e Bibl.: S. Maffei, Epistolario (1750-55), a cura di C. Garibotto, II, Milano 1955, p. 788; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 606-10; N. Tommaseo, G. C. B., in E. De Tipaldo, Biografia degli ital. illustri, VII, Venezia 1840, pp. 481-88, poi in Studi critici, Venezia 1843, pp. 156-64, e in Dizion. estetico, Milano 1853, pp. 34-38; B. Sorio, relazione su Del vero genere e particolaribellezze della poesia italiana libri tre di G. C. B. veronese, in Attid. I. R. Ist. veneto di scienze lettere ed arti, s. 3, VII (1861-62), pp. 479-97; Id., Ipoemi divini e i poemi roinanzi invenzione italiana, lettura II estratta dalla poetica di G. C. B., ibid., pp. 498-511; Id., Esame critico dell'Orlando Innamorato composto dal Boiardo e rifatto dal Berni, lettura III sopra l'arte poetica di G. C. B., ibid., s. 3, VIII (1862-63), pp. 326-43; Id., Sopra l'arte poetica di G. C. B. Le favole pastorali invenzione dei poeti italiani lezione quarta, ibid., s. 3, X, (1864-65), pp. 543-57; P. L. Rambaldi, Appunti su le imitazioni italiane di Aristofane, Firenze 1895, pp. 15-18; E. Bertana, Il teatro tragico ital. del sec. XVIII prima dell'Alfieri, in Giorn. stor. d. lett. ital., suppl.4, 1901, p. 96; Id., recens. a A. Parducci, Latragedia classica ital. del sec. XVIII anteriore all'Alfieri, Rocca San Casciano 1902, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXI (1903), pp. 156-57; Id., Un precursore dei Romanticismo (G. C. B.), ibid., XIII (1895), pp. 114-40; G. B. Gerini, Gliscrittori pedagogici ital. del sec. XVIII, Torino 1901, pp. 103-22; G. Gagliardi Un commediografo veronese del sec. XVIII, in Ateneo veneto, XXV, vol. II (1902), pp. 295-321; appendice al vol. II (1903), pp. 127-54, G. Toffanin, L'eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna 1923, pp. 26-80; F. Neri, La poesiadei puristi, in Letteratura e leggende, Torino, 1951, pp. 125-26; C. Garibotto, G. C. B. e la lettera ammonitoria a Lelio commediante, in Atti e Mem. d. Deput. di storia patria per le antiche provincie modenesi, s. 8, VII (1955), pp. 240-44 (pubblica in appendice, pp. 245-53, gran parte della lettera stessa); G. Natali, Il Settecento, Milano 1955, I, pp. 496, 513, 536, 545, 548 e 549, 610, 624-26, 630; II, pp. 858, 860 s., 957, 964, 1055.