ALBERONI, Giulio
Nacque il 21 maggio 1664 a Piacenza, primo di sei figli, da Giovanni Maria e da Laura Ferrari, di umile condizione. Morto il padre il 16 giugno 1676, divenne sacrestano nella propria parrocchia. Passato alla chiesa di Santa Brigida, tenuta dai barnabiti, ebbe da questi le prime nozioni dilatino; ma solo nel 1680 - e non si sa in seguito a quali circostanze - iniziò studi più accurati presso i gesuiti. Passato a Ravenna con l'amico Ignazio Gardini, uditore delle cause criminali in Piacenza, si cattivò colà la stima del vicelegato pontificio Giorgio Barni, che, divenuto nel 1688 vescovo di Piacenza, lo nominò suo maestro di casa. Nel 1689 prese gli ordini sacri e ottenne un beneficio. Il Barni gli affidò l'educazione di un suo nipote, il conte G. B. Barni, che intendeva avviare alla carriera ecclesiastica e diplomatica. L'A. approfondì in questi anni gli studi in diritto canonico, storia ecclesiastica, lingua francese. Perduta nel 1692 la madre, accompagnò il giovane Barni a Roma (1696), dove rimase due anni, affinando la propria educazione ed acquistando esperienza.
Tornato a Piacenza, in casa di Alessandro Roncovieri, vescovo di Borgo San Donnino, che godeva il favore della corte farnesiana, strinse amicizia con Alessandro Aldobrandini, più tardi cardinale e nunzio in Spagna, e con i principali personaggi politici del ducato, fra cui il conte Ignazio Rocca, col quale tenne poi lungamente assidua corrispondenza.
La carriera diplomatica dell'A. ebbe inizio con la guerra di successione spagnola. Il duca Francesco Farnese, esitante sulla posizione da assumere, si valse del Roncovieri per una missione esplorativa presso il duca di Vendòme, comandante delle forze francesi; e il Roncovieri condusse seco l'A., come interprete. I due rimasero presso il Vendòme, in veste di osservatori, durante l'intera campagna del 1702. Alla fine del 1703, ammalatosi gravemente il Roncovieri o, come altri crede, non adattandosi egli all'ambiente militare, la delicata incombenza rimase affidata al solo Alberoni. Questi, con le sue vivaci doti personali e un accorto largheggiare di doni anche in natura, usanza non nuova nelle corti e negli eserciti, si attirò le generali simpatie, ottenendo anche di allontanare dal ducato i danni della guerra. Seguì il Vendòme nella campagna in Piemonte, dopo il distacco di Vittorio Amedeo Il dall'alleanza francese, e poi in Lombardia; e le sue lettere al Rocca sono una fonte interessantissima per la storia delle vicende militari, per la partecipazione diretta dell'A. a battaglie e assedi. Il Vendòme ottenne da Luigi XIV una pensione per il "caro Abate".
L'amicizia stretta col Vendòme fece sì che, quando questi fu chiamato nelle Fiandre per rialzarvi le sorti dell'esercito battuto a Ramillies (24 maggio 1706), l'A. lo accompagnasse sul nuovo teatro di guerra. In alcuni periodi di permanenza a Versailles, presentato dal Vendòme come prezioso consigliere durante la campagna d'Italia, conobbe a fondo la corte, incontrando da parte dello stesso sovrano e di altri grandi personaggi stima e favore. Invece, dalla patria, dopo che la sorte si era volta in favore degli imperiali, non gli giungevano che amarezze: ritardi nell'invio del denaro, minaccia di togliergli la casa. Egli tuttavia riaffermò la sua fedeltà ai Farnese, continuando la corrispondenza con il Rocca. Al Vendòme diede poi prova di profonda devozione quando gli furono imputate la sconfitta di Oudenarde (15 luglio 1708) e la perdita di Lilla. Ritiratosi il Vendòme nel suo castello di Ferté-Alais, alla corte prese il sopravvento il partito della pace ad ogni costo, anche a prezzo dell'abbandono di Filippo V, che, nella difficile situazione determinatasi in Spagna dopo le sconfitte di Almenara e di Saragozza, invocò l'invio di un comandante supremo, che fosse all'altezza della situazione: il Berwick o il Vend6me. Luigi XIV mandò prima in missione diplomatica il Noailles, poi il Vendòme (30 luglio 1710), al cui seguito fu ancora una volta l'Alberoni.
La storiografia spagnola recente attribuisce all'A. il merito di aver intuito la possibilità di ripresa del popolo spagnolo.
Certo il Vendòme si servì dell'A. per ridestare la fiducia nei fautori di Filippo V e per facilitare la riorganizzazione dei servizi nell'esercito. A sua volta il sovrano prese a benvolere l'A., considerandolo uno dei pochi cortigiani di Versailles rimasti estranei alla congiura ordita contro di lui dal duca di Borgogna; e si mostrò pronto a concedere l'annullamento della proibizione di commercio tra la Spagna e il ducato di Parma. L'andamento delle operazioni militari confermò la fama del Vendòme, dal quale l'A. ebbe incarico di andare ad incontrare i sovrani di Spagna, quando si recarono a Saragozza per salutare il generale vittorioso. Anche alla onnipotente principessa Orsini l'A. seppe rendersi accetto. Mentre si erano iniziate le trattative a Utrecht, il Vendòme inaspettatamente morì a Vinaros e l'A. ne diede notizia il 10 giugno 1712, mostrandosene vivamente colpito.
Tornato l'A. a Parigi, la corte francese manifestò al duca di Parma il proprio compiacimento per l'esito della missione spagnola dell'Alberoni. Di nuovo a Madrid, l'A. trovò cordiale accoglienza e vi rimase in veste non ben definita, ma, in sostanza, pur essendovi rappresentante ufficiale il marchese Casali, come informatore dei Farnese e sollecito dei loro interessi. Solo nell'aprile del 1713 ebbe la nomina a incaricato d'affari, in luogo del Casali: primo caso di un diplomatico di così umile nascita. Più tardi ebbe dal Farnese il titolo di conte. Riferiva regolarmente al duca sugli avvenimenti internazionali e su quelli di corte, valutando sempre con grande perspicacia questioni politiche e intrighi di palazzo. Quando la regina Maria Luisa di Savoia morì il 16 febbr. 1714, l'A., che già dal gennaio aveva proposto al duca di Parma il nome della nipote Elisabetta per il trono di Spagna, seppe giocare abilmente fra i vari partiti di corte e far accettare alla principessa Orsini, arbitra in quel momento della situazione per la lontananza del re dagli affari di stato, la candidatura della Farnese. Le trattative furono condotte nel maggior segreto e con grande celerità, mentre a Roma si chiedeva la dispensa: il 10 giugno le nozze erano decise. Da questo momento la corrispondenza dell'A. con la corte farnesiana è tutta volta a preparare la futura regina alla cautela e all'accorgimento necessari per la nuova dignità. Superata l'ostilità di Luigi XIV, contrario in un primo tempo alla scelta di Elisabetta, e celebrate le nozze, l'A., per incarico del re, incontrò la regina a Pamplona l'11 dic. 1714. Le istruzioni dell'A. ad Elisabetta ebbero il loro risultato nel primo colloquio fra la regina e la Orsini a Jadraque il 24 dic. 1714, decisivo ai danni di quest ultima, costretta ad immediata partenza per la Francia. L'affiatamento fra la coppia reale e l'A. andò sempre aumentando, rendendosi l'A. indispensabile a fianco del re e della regina, consultato ed ascoltato negli affari di stato.
È spiegabile l'ascendente che su Elisabetta, giunta in ambiente straniero con limitatissimo personale italiano al seguito, ebbe un conterraneo duttile e perspicace. Le capacità organizzative dell'A. s'imposero al re, che assecondò prontamente i programmi di governo suggeritigli. Il documento pubblicato il 10 febbr. 1715 rivelò un completo mutamento di indirizzo. Allontanati i cortigiani francesi, salirono in autorità oriundi italiani: il principe Pio, il principe di Cellamare, il duca di Popoli, il duca di Giovinazzo. Decadevano ed erano congedati l'Orry, già ministro delle Finanze, Melchiorre Macanaz, procuratore fiscale, il confessore Robinet, in luogo del quale fu chiamato il confratello padre Guglielmo Daubenton. L'A. si fece sostenitore dell'idea, già messa innanzi ai tempi del Vendòme, che la Spagna fosse ricca di possibilità di ripresa e che occorresse attuare un piano di riforme amministrative, mediante l'abolizione di impacci burocratici e di alcuni vecchi istituti di governo, per risollevare il paese e mostrare così all'Europa che esistevano ancora "i soldati di Pavia e i tesori delle Indie".
L'A., che un recente storico spagnolo, il Taxonera, giudica l'uomo di stato che in quel momento occorreva alla Spagna, si diede dunque a riforme severe: nella casa militare del re introdusse restrizioni, realizzando notevoli economie; si fece mandare da Parma informazioni sul funzionamento degli uffici di guardaroba, tesoreria, computisteria; al principio del 1717 ottenne che il re sopprimesse la carica di presidente del Consiglio di stato; che rinnovasse il Consiglio delle Indie e che, il 20 genn. 1717, riformasse anche il Consiglio di Castiglia. Cambiati in parte anche i titolari dei diversi dicasteri, l'attività riformatrice si rivolse ai settori economico-finanziario e militare: furono coniate nuove monete in sostituzione di quelle scadenti e di bassa lega; fu dato impulso alla creazione di fabbriche tessili, chiamando operai dall'Olanda: quelle di Guadalajara produssero tele e drappi apprezzatissimi per la loro finezza; ortolani e contadini, chiamati dalle terre parmensi, stabilirono ad Aranjuez coltivazioni modello; per l'esercito venne rinnovato l'equipaggiamento e per le artiglierie l'A. intensificò la produzione, valendosi della competenza di un altro italiano, Marco Aracieli. Per la marina furono riordinati e ampliati i cantieri di Ferrol e di Cadice, dove fu creata anche una scuola di navigazione. Il commercio marittimo fu riorganizzato, fissando le partenze dei legni mercantili e sorvegliando tutto il traffico con l'estero. Alle misure prese dall'A, si dovette la repressione del contrabbando nella Biscaglia; la creazione di sovraintendenti ai porti per evitare abusi; l'abolizione dell'antica divisione in regni separati; un insieme di provvedimenti per assicurare all'erario i proventi del tabacco; una stretta vigilanza contro il traffico abusivo tra le Canarie e l'America. Un enorme lavoro, che diede all'economia spagnola un volto nuovo ed approntò alla monarchia cospicui mezzi militari, si svolse tra il 1717 e il 1718. Per condurre a termine il programma nella misura concepita dall'A. era indispensabile che egli conservasse per lungo tempo l'autorità acquistata. Nella situazione politica europea, dopo la morte di Luigi XIV, si erano intanto aggiunti nuovi elementi di incertezza. Ad opera della Reggenza, tramite il Saint-Aignan, ministro di Francia a Madrid, e il marchese Scotti, agente di Parma a Parigi, inviato in Spagna per agire su Elisabetta, numerosi furono i tentativi per ridurre il potere e l'ascendente dell'Alberoni. Tra le due camarille di corte, una delle quali tendeva ad esaltare le forze spagnole, mentre l'altra era disposta ad accettare l'influenza francese, vinse la prima. Il cardinale Del Giudice, la cui potenza era stata gradatamente scalzata, fu privato il 17 luglio 1716 delle sue funzioni ministeriali, mentre il duca di Popoli assunse quella di governatore del principe delle Asturie. Tuttavia, già a questo punto era da considerarsi fallito uno dei tentativi alberoniani sul piano diplomatico: quello di stabilire stretti rapporti di amicizia fra Inghilterra e Spagna. L'A. guadagnò al suo disegno il rappresentante inglese a Madrid, Bubb, divenuto in seguito lord Melcombe, che il 19 febbr. 1716 mandò allo Stanhope una lusinghiera relazione sulla ripresa economica spagnola; si valse anche dell'opera dell'incaricato d'affari d'Olanda, barone di Ripperda, ma non riuscì a convincere il gabinetto inglese, che rinnovò i patti con la Francia e il 17 luglio 1716 si alleò con l'Austria.
L'A. intanto si adoperava per ottenere la nomina cardinalizia, a favore della quale intervenne calorosamente la regina. Si offrì di condurre a buon fine le pendenze esistenti fra la Santa Sede e la monarchia spagnola, promettendo di ottenere dal re il ristabilimento del tribunale della nunziatura, e favorì l'armamento di una squadra, che sarebbe dovuta partire per il Levante contro i Turchi. La crescente potenza spagnola continuava a destare preoccupazioni a Parigi: un altro passo del reggente si concluse con l'espulsione dalle terre spagnole del marchese di Louville, inviato in missione a Madrid (24 luglio 1716).
La notizia della elevazione alla porpora era attesa dall'A. con impazienza, quando accadde l'episodio dell'arresto in Milano (27 maggio 1717) di don José Molinéz, ambasciatore di Spagna a Roma, in viaggio verso Madrid per assumere l'ufficio di grande inquisitore, già tenuto dal cardinale Del Giudice. Il primo annunzio dell'ingiustificata detenzione pervenne all'Escuriale il 7 giugno da parte di Francesco Farnese, il quale, riprendendo il tema, a lui caro e da parecchi mesi caldeggiato, di un intervento spagnolo in Italia contro l'invadenza austriaca, suggerì un'azione di rappresaglia: una spedizione preferibilmente diretta contro il Regno di Napoli. Per la piena applicazione del piano di riforma ideato, la guerra appariva prematura all'A., consapevole della mancanza di una necessaria preparazione diplomatica; ebbe perciò il coraggio di dichiararsi in favore della pace, contrastando così il deciso orientamento del duca di Popoli, che, alla fine (12 giugno 1717), rimase persuaso dagli argomenti prospettatigli in una lettera dall'Alberoni. Ma l'idea di riprendere una posizione attiva nella politica europea esaltava i sovrani stessi e riceveva alimento dalle insistenti pressioni del Farnese, oltre che dalla corrente di corte favorevole alla guerra. L'A. resistette a lungo; ripiegò poi sulla spedizione in Sardegna, forse sperando che essa suscitasse minori complicazioni. Contando sulla sorpresa, fu adoperata la flotta già allestita per la promessa spedizione contro i Turchi. La notizia della nomina cardinalizia dell'A., proposta da Clemente XI nel concistoro segreto del 12 luglio 1717, giunse a Madrid il 25: la flotta partì da Barcellona quattro giorni dopo. Tutta la Sardegna ai primi di settembre era recuperata dagli Spagnoli. Doveva in seguito riuscire assai facile accusare l'A. di aver ingannato il papa, al solo scopo di carpire il cardinalato, sulla vera destinazione della squadra navale.
La reazione europea di fronte all'occupazione della Sardegna fu vivacissima.
Il Dubois riuscì a concludere accordi tra Francia e Austria con l'adesione inglese. La posizione dell'A., spinto dal Farnese, dalla regina, dallo stesso Filippo V ad una guerra, di cui riconosceva tutta l'inopportunità, si fece veramente difficile. Stanco di lottare contro la corrente guerrafondaia, scrisse l'11 apr. 1718 al conte Rocca, esprimendo l'amarezza e il timore di essere costretto ad abbandonare la Spagna "al suo malgenio e condotta, la quale aveva ridotta questa monarchia ad essere sepolta nell'obbrobrio e nella miseria, quando ben governata può fare la maggiore figura in Europa". Ad ogni modo l'antica energia non abbandonò l'A., che cercò di adunare per la guerra i mezzi più imponenti. Ancora una volta, all'azione sul continente preferì una spedizione in Sicilia. La flotta salpò da Barcellona il 16 giugno 1718. Occupata Palermo, mentre gli Spagnoli erano intenti all'assedio di Messina, l'ammiraglio inglese Byng assalì la flotta, al cui allestimento l'A. aveva dedicato tante cure, annientandola quasi interamente (11 agosto). L'imperatore accusava intanto presso il papa l'A. di avere sovvenzionato la rivolta in Ungheria e di pensare a stringere alleanza con i Turchi, donde l'ordine al nunzio P. Aldrovandi (21 giugno 1718) di lasciare immediatamente Madrid. Aumentata la tensione generale, l'A. avrebbe voluto negoziare una tregua, cui si opposero il re ed Elisabetta. Tornò opportuno al governo francese, in quel momento, troncare clamorosamente gli intrighi dei malcontenti, che facevano capo all'ambasciatore spagnolo a Parigi, principe di Cellamare, arrestandolo il 19 dic. 1718, sotto accusa di congiura contro il reggente. L'8 genn. 1719 il Consiglio di reggenza decise la dichiarazione di guerra alla Spagna: nella primavera seguente le truppe francesi penetrarono nella penisola.
Falliti anche i diversivi tentati dall'A. nel nord d'Europa, favorendo gli Stuart e appoggiando la lega russo-svedese contro l'Inghilterra, poiché Carlo XII di Svezia era morto e Pietro il Grande si disponeva a trattative, la situazione della Spagna divenne insostenibile. L'unica via d'uscita apparve allora riversare ogni colpa sull'Alberoni. Il 5 dic. 1719 l'A. ricevette dal segretario generale M. Duran l'ordine di partire da Madrid entro otto giorni, dalla Spagna entro tre settimane. Gli fu rifiutato qualunque incontro col re e con la regina. Adunate le sue cose, lasciò Madrid il 12 dicembre; ma durante il viaggio, presso Barcellona, fu perquisito per ordine regio e privato delle carte che recava con sé; riuscì tuttavia a sottrarre i documenti più importanti. A Trentapassos, poco prima del confine, una schiera di micheletti, che aveva avuto dal governo di Madrid l'ordine di ammazzarlo, lo raggiunse: egli si salvò a stento. Attraversato il territorio francese con una scorta concessagli dal reggente e comandata dal de Marcieu - il quale, raggiunto l'A. il 6 genn. 1720, riferì minutamente a Parigi sulle vicende del viaggio fino ad Antibes (21 gennaio) - e imbarcatosi sulla galera concessagli dalla Repubblica di Genova, l'A. poté raggiungere Sestri Levante. Clemente XI gli proibì, con lettera del cardinale Paolucci (27 genn. 1720), di farsi consacrare vescovo di Malaga.
Intanto Filippo V aderì alla Quadruplice (26 gennaio); e aumentò verso l'A. l'ostilità di Francesco Farnese, sempre più timoroso che si svelasse la parte da lui avuta nel provocare il conflitto. Clemente XI richiese a Genova, per mezzo del cardinale Imperiale (18 febbr. 1720), la consegna dell'A., come colpevole di gravi delitti. Prevalse in Senato il parere di rimettere la questione alla Giunta di giurisdizione e a due teologi, tenendo intanto l'A. agli arresti in casa, misura presto resa più lieve. Il 28 febbraio la Giunta confermò l'arresto, ma escluse la consegna al papa; e l'11 marzo il Minor Consiglio, esaminate le motivazioni pontificie della richiesta, annullò il provvedimento dell'arresto, invitando poi (19 marzo) l'A. a lasciare il territorio della Repubblica. Rimasto nascosto fino al 31 marzo a Genova, donde inoltrò a Roma un lungo memoriale di difesa, l'A. raggiunse Qodiasco, nei domini imperiali, per i quali aveva salvacondotto (8 apr. 1720).
Mentre a Roma Clemente XI istituiva una congregazione cardinalizia per il giudizio sull'A., furono istruiti contemporaneamente due processi: uno in Spagna, sotto la direzione dell'arcivescovo di Toledo, l'altro a Piacenza, affidato al vescovo Barni.
Qui, sotto l'influsso del duca, si condussero le cose con la maggiore acrimonia: mirando ad indagare sulla condotta morale dell'A., furono tratti in arresto arbitrariamente, e tenuti per molto tempo in carcere, una donna vissuta a lungo in casa dell'A., certa Camilla Bergamaschi, e il figlio di lei, sacerdote, nella speranza che fornissero gravi elementi. La commissione cardinalizia non ritenne tuttavia le loro deposizioni di grande importanza. Un memoriale, da Madrid, classificava in tre gruppi le imputazioni contro l'A.: ai danni del re di Spagna, della corte di Roma, contro il buon costume. Nel primo figuravano, tra l'altro, la contraffazione del sigillo reale, la sottrazione di un codicillo del testamento fatto dal re nel 1717, i rapporti col reggente di Francia per un'azione a danno della monarchia spagnola, infine lo scoppio delle ostilità. Nel secondo gruppo erano enumerati discorsi scandalosi contro il papa, i nipoti, i cardinali, minacce di guerra, l'arbitrario uso delle rendite di Malaga, l'inganno consapevolmente perpetrato circa la destinazione della flotta, il consiglio, dato al re, di sopprimere il tribunale della nunziatura. Riguardo poi al terzo gruppo, si insisteva sulla vita scarsamente religiosa e lontana dai doveri del ministero sacerdotale condotta dall'A. nel suo soggiorno in Spagna. L'inizio del processo spagnolo fu ritardato dalla morte improvvisa dell'arcivescovo di Toledo. Dichiarata chiusa l'istruttoria il 21 genn. 1721, gli atti giunsero a Roma quando Clemente XI era morente.
Dopo la sua morte (19 marzo 1721), il Sacro Collegio riconobbe all'A, il diritto di partecipare al conclave. Spedita la comunicazione relativa all'arcivescovo di Genova e al vescovo di Brugnate perché venisse affissa, qualora l'A. risultasse irreperibile, l'A. venne a conoscenza dell'invito per mezzo dell'amico abate Bielato, entrando così l'8 aprile in conclave. Eletto l'8 maggio il cardinale Conti, che assunse il nome di Innocenzo XIII, la condizione dell'A, fu subito sottoposta all'esame della congregazione cardinalizia.
In attesa dell'esito del processo egli visse a Roma ritirato, godendo di una proroga del salvacondotto concessogli per il conclave. L'incartamento, consegnato dal cardinale Acquaviva, rappresentante della Spagna, al segretario di stato e trasmesso il 23 sett. 1721 ai giudici, fu esaminato da Domenico I(?)iorelli, luogotenente in criminalibus dell'uditore di Camera. Nella relazione conclusiva questi scartò le accuse di trattative col Turco, di estorsione della porpora, di abuso del sigillo regio e di espulsione del nunzio dalla Spagna. Considerò invece fondate le violazioni della giurisdizione ecclesiastica, l'usurpazione di rendite di benefici, l'ordine di sequestro dei beni ecclesiastici in Sicilia. Il Farnese e i sovrani di Spagna fecero allora gli ultimi tentativi per aggravare la posizione dell'A., ma la commissione giudicatrice distinse equamente fra le azioni compiute dall'A, in qualità di uomo politico e quelle riguardanti il ministero sacerdotale, constatando (3 sett. 1723) l'insufficienza dei motivi per privare l'A. della porpora. Il 18 dello stesso mese Innocenzo XIII firmò il breve di assoluzione.
Benedetto XIII assegnò all'A. (12 luglio 1724) il titolo di S. Adriano in Campo Boario e risolse la questione del vescovado di Malaga, consacrando l'A. il 10 nov. 1725, ma ottenendo che vi rinunziasse ufficialmente, due giorni dopo, con la concessione sulla mensa vescovile di una rendita stabile di 10.000 scudi romani. Furono fatti in questo periodo vari tentativi perché l'A. riprendesse la sua attività d'uomo politico. Giacomo III Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra, lo appoggiava ed avrebbe visto volentieri il suo ritorno in Spagna; l'A., da parte sua, come non aveva mancato di rivolgere lettere al Farnese, protestando la sua immutabile devozione, così difese in una lunga lettera a Filippo V (10 ott. 1726) il proprio operato.
Una svolta nella sua esistenza fu segnata da un incarico affidatogli da Clemente XII. Morto al principio del 1732 il cardinale Collicola, amministratore dell'ospedale di San Lazzaro presso Piacenza, il papa pregò l'A. di succedergli. Era un istituzione vecchia di secoli, un antico ospedale di lebbrosi, ma interamente dècaduto. L'A. pensò di farne un collegio ecclesiastico, ottenendo l'approvazione pontificia il 13 luglio 1732. Giunto a Piacenza poco dopo, l'A. diede principio alla demolizione del vecchio edificio, la cui ricostruzione fu interamente ideata e diretta da lui, dimostratosi in questa occasione eccellente architetto. Per la cura e l'istruzione dei giovani nell'istituto, si rivolse (1733) alla Congregazione della Missione, fondata da s. Vincenzo de' Paoli.
L'A. dovette interrompere il lavoro preparatorio dell'ordinamento interno del collegio per assumere, al principio del 1735, il difficile governo della Legazione di Romagna in sostituzione del cardinale Massei. Difese la Legazione dagli eserciti di passaggio (dicembre 1735-primavera 1736); dimostrò grande vigore nel pretendere il rispetto degli editti sui mercati, il porto d'armi, il diritto di riunione. Non gli mancarono controversie con la Curia romana, specialmente con la Congregazione del Buon Governo e con quella del Sant' Offizio. Altre difficoltà incontrò, nel tentativo di reprimere abusi, durante la visita alla Legazione, compiuta in due anni (1737-39). Merito sommo dell'A. fu l'impulso dato ai lavori idraulici per la sistemazione dei fiumi Ronco e Montone, le cui acque provocavano frequenti inondazioni e la rovina progressiva dei preziosi monumenti ravennati. L'A. intervenne personalmente, suggerendo modifiche opportune, nei progetti per la deviazione del corso dei due fiumi, che erano stati studiati dal bolognese Eustachio Manfredi e dal veneziano Bernardino Zendrini. Per poter portare a buon punto i lavori, l'A. ottenne una proroga della sua legazione.
L'episodio più discusso durante questo suo ufficio fu quello concernente la Repubblica di San Marino.
Il 19 sett. 1738 Pietro Lolli, ex capitano reggente, era stato imprigionato a San Marino sotto l'accusa di cospirazione contro lo stato. I suoi fratelli, avvalendosi del fatto che egli aveva una patente del santuario di Loreto, che lo esentava dalla giurisdizione civile, si rivolsero al legato di Romagna. Passi dell'A. presso i governanti di San Marino non ottennero risultati. Trasmesso a Roma il ricorso del Lolli, il cardinale Firrao, segretario di stato, incaricò l'A. di provvedere contro la violazione dell'immunità della Congregazione lauretana, di cui il Firrao stesso era protettore. Con rappresaglia immediata l'A. fece imprigionare il consigliere della Repubblica sammarinese, Marino Enea Bonelli, e il figlio di lui, che erano nel territorio della Legazione. La Repubblica agi diplomatica-mente per mezzo del proprio agente in Roma, abate Zampini, e dell'inviato straordinario Leonardelli. Trame di intriganti e un certo malcontento dei Sammarinesi fecero nascere nell'ambiente di Curia la speranza di ottenere da quelle popolazioni, un po' con le buone e un po' con una dimostrazione di forza, la dedizione alla Santa Sede. Il 26 sett. 1739 un breve papale ordinò all'A. di portarsi ai confini della Repubblica e di saggiare le intenzioni degli abitanti. Occupati di sorpresa (17 ott. 1739) Serravalle e Borgo San Marino, si ritenne di poter celebrare solennemente il 25 ottobre il giuramento di sottomissione alla Santa Sede. All'opposizione di molti Sammarinesi tennero dietro atti di saccheggio e violenze da parte della sbirraglia. Le proteste furono accolte a Roma, dove si era sperato di ottenere l'incameramento senza strepito; di fronte alle resistenze e nel timore di complicazioni, si preferì annullare l'operato dell'Alberoni. Dopo una visita di monsignor Enriquez, la Repubblica fu reintegrata (5 febbr. 1740).
Benedetto XIV designò l'A. a reggere la Legazione di Bologna, nella quale erano da regolare spinose questioni di contrabbandi, acque e finanze. Scaduto il triennio, l'A. poté finalmente interessarsi di nuovo del suo collegio. Vi fu trasportata la biblioteca del cardinale Lanfredini, primo nucleo di una grandiosa raccolta di rari volumi. Al principio del 1743 gli imperiali posero sotto sequestro i beni del collegio, misura revocata quando Piacenza, nel settembre dello stesso anno, passò sotto il dominio sabaudo. Le operazioni militari del 1746 recarono all'edificio gravissimi danni: nel 1749 l'A. provvide alla ricostruzione definitiva e nel novembre 1751 poté finalmente accogliere i primi diciotto giovani. Alla benefica istituzione lasciò con testamento tutti i suoi beni.
Mori a Piacenza il 26 giugno 1752, dopo brevissima malattia, e fu sepolto nella chiesa di San Lazzaro.
Fonti e Bibl.: I fondi archivistici più importanti per la biografia politica dell'A. sono quelli del Collegio Alberoni in Piacenza, dell'Arch. di Stato di Napoli, ove sono conservate le Carte Farnesiane, dell'Arch. degli Affari esteri di Parigi, dell'Arch. Segreto Vaticano e degli Archivi di Sirnancas; nella Biblioteca nazionale di Madrid si trova manoscritta un'opera di M. Macanaz, Nacimento y compendio de la vida del Card. A. (ms. 11.064). Tra le opere a stampa, due contemporanee: La storia del Card. A., del Signor J. R. trad. dallo spagnolo, I, L'Haya 1720; II, ibid. 1721 (una copia postillata di mano del-FA. presso la Biblioteca del Collegio A. di Piacenza); L. Acufia, Nacimento, vida y fortuna del Abate S. A., Madrid 1750; Lettres intimes de J. A. adressées au comte Rocca, ministre des finances du Duc de Parme et publiées d'après le manuscrit du Collège de S. Lazaro Alberoni, a cura di E. Bourgeois, Paris p. 892; v. pure Le Tavole di fondazione del Collegio Alberoni presso Piacenza, Piacenza 1929; G. Moore, Lives of Card. A. and the Duke of Ripperda, London 1806; S. Bersani, Storia del Card. G. A., Piacenza 1861; V. Papa, L'A. e la sua dipartita dalla Spagna, Torino p. 877; G. Malagola, Il card. A. e la Repubblica di S. Marino, Bologna 1886; A. Professione, G. A. agli assedi di Vercelli e di Verrua, estr. da Bibl. d. Scuole it., Torino 1889, p. 11; Id., G. A. dal 1708 al 1714, Verona 1890; Id., Il ministero in Spagna e il processo del card. G. A., Torino 1897; Id., Per la storia del card. G. A. e della sua opera di ministro, in Bollett. stor. piacentino, 11(1907), pp. 261-270; III (1908), pp. 169-175; VII (1912), pp. 172-185; E. Bourgeois, La diplomazie secrète a14 XVIIIe siècle, II, Philippe V et la politique d'A., Paris 1910; L. Arezio, Il card. A. e l'impresa di Sardegna nel 1717, in Arch. stor. sardo, II (1906), pp. 257-309; R. Quazza, La cattura del card. G. A. e la repubblica di Genova, Genova 1913; M. Pacia-Patriarca, La spedizione di Sardegna del 1717 e il card. G. A., Teramo 1921; A. Arata, Il processo del card. A., Piacenza 1923; P. Castagnoli, Il card. G. A.: I, Il ministro dei Farnese; II, Il processo; III, il legato pontificio, Piacenza-Roma 1929-32; L. de Taxonera, Rìcard. S. A., foriador de una nueva Espaila en el siglo XVIII, Madrid 1945.