FERRO, Girolamo
Nacque il 18 giugno 1509 a Venezia da Nicolò (provveditore a Peschiera, nel 1489-90 e, nel 1496-98, ad Asola nonché membro del Senato, morto, all'incirca, nel 1512) di Girolamo e da Bianca di Baldassare Trevisan. Da non confondere coll'omonimo e coevo figlio di Marco, il F. tra il 1537 ed il 1548 risulta della Quarantia, auditor vecchio, provveditore al Cottimo d'Alessandria, "zudese di procurator", dei Dieci savi, della zonta dei Pregadi. Accasatosi, ormai maturo d'anni, il 16 genn. 1550, con Dandola di Marcantonio Dandolo, l'"instruttione" da lui compilata, nel 1560, a futura informazione della prole - costituita da tre "femine" (una quarta figlia dev'essere morta prima dell'infanzia) ed "un maschio" (quel Nicolò che diverrà senatore e morrà nel 1604) e rimasta, per la scomparsa, nel 1558, della moglie del F., orfana di madre in tenerissima età - fornisce un'idea della sua situazione patrimoniale, ma involontariamente attesta la sua scarsa attitudine ad amministrare i beni ereditati dal padre.
Dal riepilogo, dove il F. distingue i beni "alienati", quelli in procinto di diventarlo e quelli, infine, di cui è "patrone", appare, infatti, che egli, nel corso degli anni, aveva ceduto i "pro" di depositi presso il Monte Vecchio e quello Nuovissimo, che stava per cedere i depositi stessi, che a Capodistria - dove le proprietà di famiglia risalivano ad un antenato del F. sposatosi con una nobildonna locale - aveva venduto un magazzino per il sale, 40 "cavedini di saline", "una casa da statio". Né - si desume sempre dall'"instruttione" ai figli - il F. aveva saputo valorizzare a Venezia il cospicuo patrimonio immobiliare a lui pervenuto malandato: da un lato non aveva saputo o potuto puntare ad un drastico restauro a fondo, dall'altro aveva avviato lavori di provvisorio rabberciamento, tirandosi poi indietro man mano che crescevano le spese di manutenzione. Donde il ricorso alle ipoteche, donde l'esito piuttosto deprimente per cui erano "liberi" solo gli "stabili" in calle dei Fuseri, mentre risultavano "conditionati" quelli di S. Fantin (un paio di "case" affittate; e le "botteghe", si rallegrava il F., rendevano i 50 ducati all'anno, laddove al padre fruttavano solo 38 ducati), le "case" in corte del Forno e la metà d'una casa grande a S. Salvador. Le sue difficoltà, sembra giustificarsi il F., risalivano ad un grosso "debito" contratto col cognato Andrea Dandolo. Suo criterio era stato, comunque, quello di vendere gli edifici male in arnese. Si ha, tuttavia, l'impressione li avesse svenduti ed adoperato il ricavato non per investimenti, ma per tamponare detto "debito", che dovette costituire per lui un tormentoso cruccio. Maldestro gestore, dunque, il F., degli immobili di famiglia, e tutt'altro che dotato per gli affari, con questi, tuttavia, un minimo pasticciava, come appare dal fatto si facesse prestare soldi dall'ebreo Salomoncino Salomone e dal fatto apparisse come garante della cauzione in un prestito di 1.000 ducati a Marco Gabriel e al figlio di questo Nicolò.
Il F. diede invece buona prova di sé come uomo pubblico, specie col rettorato di Capodistria del 1550-51; giovò al suo prestigio la nomea di persona colta e, in qualche modo, d'autore. Tant'è che l'agostiniano bergamasco Giacomo Alberici l'inserirà nella sua lista di quanti, a Venezia, "hanno dato luce" a qualche scritto, precisando che il F. era stato "eloquentissimo et prestantissimo senatore", che "tradusse cinque orazioni di Demostene e gli officii di Cicerone" e che stampò "altre cose", però "senza porvi il suo nome". Arduo per questi presunti scritti anonimi del F. andare oltre - mancando esplicite testimonianze coeve - la generica indicazione dell'Alberici, il quale, peraltro, riporta a proposito del F., quanto aveva già detto di lui Francesco Sansovino. In complesso è proprio l'accenno e del Sansovino e dell'Alberici all'opera di volgarizzatore del F. che permette d'assegnare a questo con sicurezza la paternità, altrimenti ignota, dell'edizione delle Cinque orationi di Demostene et una di Eschine tradotte di lingua greca in italiana secondo la verità de'sentimenti, che uscì a Venezia nel 1557. È evidente che il Sansovino, riportando l'inizio del titolo e trascurando d'aggiungere la versione dell'orazione di Eschine (i cinque discorsi di Demostene sono quelli "della falsa ambascieria", "contro Medria", "contro Androtione", "della corona" e "contro la legge di Lettine"), ha in mente quest'edizione, né l'Alberici menziona la ristampa, sempre veneziana, della stessa silloge (ove, come dichiara il titolo della prima edizione, il traduttore ha più rispettato il contenuto che la lettera dei testi), la quale uscì, nel 1597, col titolo modificato di Orationi di Demostene et Eschine tradotte finalmente di lingua greca in italiana utilissime a tutti coloro che desiderano apprendere la perfetta maniera del dire nel foro e nel Senato nuovamente ristampate.
Senza possibilità di riscontro confermante, invece, né a stampa né in manoscritto, l'altra indicazione del Sansovino e dell'Alberici relativa a una traduzione del F. del De officiis ciceroniano. C'è da dire che l'affermazione della versione del patrizio veneto Federico Vendramin dello stesso testo - così suscettibile di fornire spunti per arricchire l'automotivazione all'impegno politico da parte del ceto di governo marciano -, che uscì a Venezia nel 1528 essendovi ristampata nel 1563 e nel 1739, poté rendere superflua la successiva traduzione, sempre che l'avesse effettivamente eseguita, del F., al punto da sconsigliarne la stampa e da scoraggiarne la stessa circolazione manoscritta. Né va escluso - in linea di congettura - l'Alberici abbia avuto notizia del F. un po' latinista oltre che un po' grecista (e di classici latini e greci consta la sua biblioteca, tra i cui 270 titoli in volgare c'è solo l'Ariosto), peraltro errando nella precisazione in merito. E si può, a tal proposito, avanzare l'ipotesi che il F., prima di tradurre liberamente in italiano Demostene ed Eschine, li avesse volti in latino. In tal caso è a lui assegnabile l'antecedente, sempre anonima, versione, appunto, latina stampata a Venezia nel 1545 col titolo Demosthenis et Aeschinis mutuae accusationes de ementita legatione et de corona ac contra Timarchum quinque numero cum eorum argumentis, ipsorum oratorum vita et Aeschinis epistola ad Athenienses ac indice copioso nuper a bene docto viro traductae.Esile, comunque sia, il profilo culturale del F.; questo si fa, però, meno evanescente laddove se ne appura la frequentazione d'ambienti intellettualmente qualificati della Venezia a mezzo Cinquecento. Il F., ad esempio, fu uno dei dodici nobili lagunari che costituirono, autodenominandosi suoi "conservatori perpetui", il 9 dic. 1551, la veneziana Accademia degli Uniti. In questa Bartolomeo Spatafora - un nobile messinese ascritto al patriziato veneziano, senza, per questo, sventare i sospetti dell'Inquisizione - recitò quattro orazioni, tutte poi stampate ed una di queste con dedica al Ferro. E il F. altresì figura in un trattato dialogato d'Alessandro Citolini, La tipocosmia, scadente rifacimento di Giulio Camillo.
Qui in sette giorni s'enumera quanto, articolato in sette livelli, s'accorpa nel mondo concepito quale massimo contenitore mnemonico. Ed il F. ne discorre assieme a Pietro Cocco, all'ambasciatore urbinate Giampaolo Leonardi, a Collaltino di Collalto, a Domenico Venier, a Valerio Marcellino, ad Agostino Malipiero, ad Alessandro Leoni, a Marcantonio Giustinian, tra i componenti l'eletta cerchia che, occasionalmente costituitasi "in un bellissimo giardino" nei pressi di Venezia, ridottasi "sotto alcune freschissime loggie", si mette "a ragionare" di "varie e diverse cose". Il F. appare soprattutto crucciato dal fatto che, sovente, l'apprendimento di "cose nove" comporta, quasi fatalmente, l'uscir "fuore" dalla mente d'antecedenti acquisizioni. Una catastrofe, a suo avviso, un sapere che, man mano s'aggiorna, rimuove e smemorizza. L'autentico sapere è, invece, per lui, memorizzazione costante sì che "le cose", una volta "acquistate", non svaniscano, rimangono. "Felice", allora, chi ricorda, chi conserva, chi non dimentica. La conoscenza si configura, in tal modo, come memoria, coincide con questa.
In contatto assiduo con nobili dotti, come Pietro Da Mosto, il futuro doge Francesco Venier, il futuro patriarca Pietro Francesco Contarini, e con un letterato attivo nel mondo dell'editoria come Girolamo Ruscelli, il F. acquistò, proprio con questi suoi contatti, una reputazione di profonda dottrina, forse eccedente le sue effettive capacità e conoscenze. E - quando morì, il 16 nov. 1552, Sebastiano Foscarini, l'aristotelico, non esente da sospetti d'averroismo, titolare, nella Scuola di Rialto, della prestigiosa lettura pubblica di filosofia - si fece anche il suo nome quale possibile successore. Anche se la cattedra fu assegnata, il 4 dic. 1555, a Giacomo Foscarini (cui succederà, il 25 febbr. 1558, Agostino Valier), senz'altro di lui più idoneo alla richiesta esposizione d'Aristotele, il fatto si pensasse a lui resta sintomatico del credito di cui godeva sul versante culturale, che gli fruttò - per ben due volte, il 17 sett. 1554 e il 28 apr. 1555 - l'elezione a riformatore dello Studio di Padova.
Ripetutamente, inoltre, della zonta dei Pregadi nel 1552-1555, nonché, rispettivamente, nel 1554 e nel 1558, dei quarantuno elettori del doge Venier e del doge Girolamo Priuli, il F. fu, altresì, avogador di Comun e, nel 1557-58, capitano di Verona, occupandosi anche, durante la malattia del podestà Gabriele Morosini, "della fortezza et della camera", come riconosceva con gratitudine il collega nella sua relazione del 4 ag. 1558, ove non mancava d'elogiare il F. quale "valoroso et saggio gentilhuomo". Designato, quindi, il 6 settembre, con Pietro Sanuto e Giacomo Soranzo, membro della commissione incaricata di trattare con quella cesarea "sopra i confini della patria del Friul", il F. risulta successivamente della zonta del Consiglio dei Dieci e del Senato, provveditor alle Biave, essendo altresì eletto, nel giugno del 1559, savio di Terraferma. Designato, infine, il 6 dicembre, bailo a Costantinopoli (carica per la quale aveva avuto dei voti già il 15 marzo 1556), il F. si preparò alla partenza.
Dopo essersi sbarazzato - vendendolo in blocco per 1.600 ducati a tal "Anzolo Ebreo" - del mobilio (gli era impossibile, si giustificava, dopo la scomparsa della moglie, far tenere in ordine la casa ingombrata da "mobelli assai"), affidata la tenera figliolanza alla suocera Angela Dandolo, fatto, il 18 apr. 1560, testamento, una volta avuta, il 2 maggio, la commissione senatoria con le relative istruzioni, il 6 il F. partì nella galea di cui era sopracomito Costantino Emo. Compagno di viaggio gli fu il cognato Andrea Dandolo interessato ad attivare un commercio di panni e pare, pure di vini, con Ankara sotto l'ombra protettiva del bailaggio.
Giunto a destinazione nel luglio, la malattia costringe il F. a letto sino ad ottobre, quando iniziò realmente - anche se non ristabilito nella salute, ché frequenti furono le ricadute - la sua attività di rappresentante veneto, coadiuvato dal segretario Marcantonio Donini e avvalendosi di tre dragomanni, uno dei quali, Michele Cernovich era segretamente - ma lo si scoprirà più tardi - informatore, tramite il nunzio papale, Zaccaria Dolfin, della corte imperiale.
Il F. s'adoperò pel rilascio di "navi ritenute" e pel dissequestro di carichi; reclamò contro i "sinistri portamenti" di questa o quella autorità periferica ottomana; insisté per la liberazione di patrizi trattenuti in Egitto; ottenne la rimozione del sangiacco d'Alessandria; fronteggiò le continue richieste di donativi e fu attento a distribuirli accortamente; informò sulla situazione transilvana; si preoccupò che le inasprite proibizioni di "bever vino" non atterrissero a tal punto i fornitori da farlo "restar senza" ed ottenne espressa "licentia" dal "magnifico bassà" a che il bailaggio non dovesse risentirne; controllò l'allestimento (e tra i suoi informatori poté vantare il proto dell'arsenale che venne a trovarlo "ascosamente" aggiornandolo sul numero delle galee, il "mancamento" dei remi) della flotta e le relative mosse; trasmise le "nove di Persia" che via via racimolava, peraltro avvertendo che erano spesso poco attendibili, spesso contraddittorie, al punto che era arduo distinguere "il vero dal falso". Sempre in lotta con una "febbre", ora tollerabile ora violenta, che, comunque, non desisteva da dargli "travaglio", in una città dove la "peste" non smetteva di "farsi sentire" con quotidiano stillicidio di vittime, il F. - il cui ultimo dispaccio è del 20 sett. 1561 - morì (è da presumere l'epidemia aggredisse il suo fisico già indebolito) il 20 novembre.
Gli subentrò come vicebailo (peraltro contrastato dal segretario Donini, con lui in grave dissidio) il cognato, che, nella relazione presentata al rientro, oltre a rievocare, nel cenno al F., la dedizione alla Serenissima di questo, sottolineò come fosse "stato ornato di molte lettere et di cognitione delle cose del mondo". Nel contempo, a Capodistria, ove era viva la memoria del suo "ottimo reggimento", gli vennero, l'11 genn. 1562, tributate, nella chiesa di S. Domenico, solenni onoranze funebri in occasione delle quali Giacomo Costantino, un letterato locale, pronunciò l'orazione commemorativa. In questa che fu stampata nello stesso anno a Venezia, con dedica al cavaliere di Rodi Andrea Arimondo (da non confondere collo zio paterno, Andrea Arimondo di Andrea di Alvise di cui in L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 48, e M. Foscarini, Della letteratura veneziana..., Venezia 1854, pp. 295 s.; ed è, comunque, parente d'entrambi quel Lorenzo Arimondo rettore ad Adria sotto il cui reggimento viene rappresentata, il 1º marzo 1579, una commedia di Groto: vedi A. Mango, La commedia ... nel Cinquecento...,Firenze 1966, p. 206), nipote del F., ché figlio di sua sorella Cecilia, andata sposa, ancora nel 1533, a Paolo Arimondo d'Andrea - l'oratore esaltava il F. quale "splendidissimo senatore" benemerito pel "giovamento" dato a "tanti huomini" e a "tante città". Certo "premio", allora, per il F., la "celeste beatitudine".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 51, cc. 137, 149, 209v; Decifrari dispacci Costantinopoli, I, da p. 294 e II, sino a p. 120; Capi del Consiglio dei dieci. Lettere di ambasciatori, b. 2, nn. 151-162, 165-180; Segretario alle Voci. Pregadi, reg. 2, cc. 14r, 66v, 81r; Senato. Deliberazioni Costantinopoli, reg. 2, sino a c. 40v; Senato. Terra, reg. 41, cc. 59v-60r, 68r, 90; Testamenti, 1208.430 e 1218-XI.77; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Codd. Cicogna, 3135; 3782, cc. 13v-14r; Mss. P. D. C 906/230; 937/11 (atto giudiziario del 19 nov. 1548 dell'omonimo del F. contro un "bombaser", di cui copia anche ibid.,936/101), 90, 93-95, 97-100, 119, 147; 938/22, 225, 242; 1436/116; 1437/20, 21; 2117/7, 17, 18, 24; 2656/18; Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 824 (= 8903) e 825 (= 8904) Consegi, XII e XIII, rispettivamente cc. 110r, 256r, 264r, 333r e 3v, 277r; ibid.,16 (8305); G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, III,c. 76; B. Spatafora, Quattro orationi..., Venetia 1554, la prima ded. al F.; A. Citolini, La tipocosmia, Venetia 1561, passim; G. Costantino, Oratione..., nell'essequie del... F., Venetia 1562; Le relazioni degli amb. veneti..., a cura di E. Alberi, s. 3, III, Firenze 1855, pp. 162 ss., 173 s., 176; Relazioni dei rettori veneti..., IX, Milano 1977, pp. LXXXII, 17 s.; Antichi scrittori d'idraulica veneta, II, a cura di R. Cessi, parte 1, Venezia 1987, p. 170; V, a cura di P. Ventrice, ibid. 1988, p. 31 n. (ove si nomina un Nicolò Ferro membro d'una commissione effettuante un sopralluogo per valutare l'opportunità di realizzare il taglio del Po, che dev'essere, con tutta probabilità, il figlio del F.); F. Sansovino, Venetia ... nobilissima, Venetia 1663, p. 605; G. N. Doglioni, Historia venetiana..., Venetia 1598, p. 763; G. Alberici, Catalogo... de... scrittori venetiani..., Bologna 1605, p. 45; N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini..., I, Venetiis 1726, p. 73; G. Fontanini, Bibl. dell'eloquenza ital...,con le annotazioni di A. Zeno, Venezia 1753, I, p. 150; II, p. 349; G. Degli Agostini, Notizie... degli scrittori viniziani..., II,Venezia 1754, p. 571; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, p. 183; III, ibid. 1830, p. 321; V, ibid. 1842, p. 278; VI, ibid. 1853, pp. 111 ss. (sulla sorella del F., che figura col nome di Cattaruzza, sposa di Paolo Arimondo, nonché su Andrea Arimondo, nipote del F. e sull'omonimo zio di questo), 653-656; Id., Saggio di bibl. veneziana, Venezia 1847, n. 3063; G. Vertova, La colonna di S. Giustina eretta dai Capodistriani..., Capodistria 1884, pp. 67, 209 ss.; G. Soranzo, Bibl. veneziana, Venezia 1885, n. 4864; A. Pilot, Gli "ordini" ... degli Uniti..., in Ateneo veneto, XXXV (1912), pp. 195 n., 204; T. Bertelè, Il palazzo degli amb. ven. a Costantinopoli...,Bologna 1932, pp. 19, 414, 416; F. Antonibon, Le relazioni a stampa... di amb. ven., Padova 1939, p. 33; S. Caponetto, Origini e caratteri della Riforma in Sicilia, in Rinascimento, VII (1956), p. 297; Arch. di Stato di Venezia, Dispacci degli amb. al Senato. Indice, Roma 1959, p. 2; C. Coco-F. Manzonetto, Baili veneziani..., Venezia 1985, p. 65; G.Gullino, I patrizi veneziani e la mercatura..., in Mercanti e vita economica nella Repubblica veneta..., a cura di G. Borelli, Verona 1985, p. 414; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo..., Torino 1986, ad Indicem; M. Zorzi, Lacircolazione del libro a Venezia nel Cinquecento ..., in Ateneo veneto, CLXXVII (1990), pp. 118 ss., 172 n. 25.