FRANCHI (De Franchi), Girolamo de (fra' Girolamo da Genova)
Scarne e labili le notizie biografiche: nato a Genova tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento da uno dei molti rami confluiti, un secolo prima, nell'"albergo" De Franchi (confermato poi, nel 1528, con la riforma doriana, come uno dei grandi alberghi di nobiltà "nuova"), del F. risulta difficile individuare anche la paternità.
L'ipotesi più probabile - che fosse figlio di Domenico, del ramo dei Cocarello e fratello di Giambattista - lascia qualche perplessità per l'attività bancaria che in tal caso il F. avrebbe svolto con l'altro fratello Stefano a Lione tra il 1528 e il 1531, in contrasto con la propensione religiosa dell'Ordine domenicano; nulla vieta però di pensare a un giovanile impegno nelle attività economiche familiari prima di accedere a studi di teologia (fino al titolo di "magister"). Da escludere comunque l'iscrizione del F. al libro della nobiltà genovese, dove non compare con i Franchi iscritti come figli di Domenico.
Divenuto priore del convento di S. Domenico, il F. diresse l'Inquisizione a Genova dal 1548 al 1567, un ventennio inquieto sul piano politico e religioso, coincidente con la Riforma protestante.
La scarsità delle informazioni è prima di tutto imputabile alla esiguità delle fonti sul F., dovuta alla dispersione nel 1797 di tutto l'archivio dell'Inquisizione genovese, già danneggiato nel 1558, proprio durante il priorato del F., da un incendio dei locali della chiesa di S. Domenico dove si trovavano gli uffici dell'Inquisizione. L'incendio è attribuito a un tumulto popolare, ma la successiva dispersione dei documenti rende impraticabile l'indagine sulle cause dell'episodio, sul ruolo del F. e sull'eresia a Genova, città in effetti tollerante perché porto e mercato internazionale, ma attaccatissima alle dottrine e alle pratiche tradizionali.
Del resto anche i documenti sul F. consentono di delineare il profilo del tipico prelato genovese, attento a mediare tra gli interessi della Chiesa romana e il giurisdizionalismo della Repubblica, con definitiva propensione per quest'ultimo. Genova aveva ottenuto da Roma il privilegio di poter indicare tra i membri del clero cittadino il responsabile dell'ufficio dell'Inquisizione. La nomina del F. a inquisitore in un anno come il 1548 non poté certo avvenire senza il benestare di Andrea Doria, appena reduce dalla congiura dei Fieschi e ancora sospettosamente impegnato in una radicale opera di polizia. Tanto più che l'arcidiocesi di Genova era ancora retta dallo zio di Gian Luigi Fieschi, il cardinale Innocenzo Cibo, che solo nel 1550, alla sua morte, potrà essere sostituito dal meno sospetto Girolamo Sauli, trasferito dall'arcidiocesi di Bari.
Poco dopo, nel 1551, papa Giulio III nominò commissario generale dell'Inquisizione romana il domenicano Michele Ghislieri, futuro papa Pio V, che conosceva bene sia il F. sia Genova, essendo stato per un certo periodo in S. Domenico come lettore di teologia. Solerte e intransigente, il Ghislieri da Roma attivò un'intensa corrispondenza coi singoli inquisitori; quella con il F. si è conservata intera in un codice sopravvissuto alla dispersione dell'archivio e scoperto dal Pastor. I problemi sui quali il Ghislieri richiamava il F. a maggiore severità confermano il tradizionale giudizio storiografico di scarsa consistenza dell'eresia protestante a Genova: in effetti tra il 1540 e il 1583 - in un periodo quindi più esteso di quello della reggenza del F. - i 366 processi d'eresia si conclusero quasi tutti con l'assoluzione o lievi condanne (anche se bisognerebbe aggiungere gli espatri definitivi in paesi protestanti, ufficialmente motivati da ragioni commerciali). Solo un caso, quello di B. Bartocci di Città di Castello, arrestato nel 1567 durante un suo occasionale soggiorno a Genova, si concluse con la consegna alle autorità romane e la condanna al rogo comportò un irrigidimento dell'Inquisizione genovese, coincidente con l'allontanamento del F. o con la sua morte.
Prima di questo, il F. era intervenuto nei casi degli eremitani di S. Agostino, tra il 1556 e il 1557, dell'abate di S. Matteo alla fine degli anni Cinquanta e quello dei coloni genovesi di Chio. In tutte queste circostanze la posizione adottata dal F. appare del tutto allineata a quella del governo della Repubblica, sempre attento a difendere i propri poteri giurisdizionali, ma poi costretto a cedere alle imposizioni di Roma.
Così il F. e la Repubblica uscirono sconfitti sia dal tentativo di espellere dal convento di S. Agostino gli eremitani accusati di eresia e di vita viziosa sia al contrario, dalla difesa dell'ortodossia dell'abate di S. Matteo che, anche in considerazione della collaborazione fedelmente prestata al F. e all'Inquisizione, essi chiedevano di poter almeno processare a Genova. Esemplare della varietà di intrecci politico-ecclesiastici quest'ultimo caso, sul quale il F. stesso insinuava al Ghislieri che l'abate fosse vittima di maneggi di nemici e il governo scriveva più esplicitamente all'ambasciatore a Roma, Ansaldo Giustiniani, che la denuncia proveniva dal cardinale Giambattista Cicala, il quale, sotto il pretesto dell'eresia, voleva vendicarsi di un ecclesiastico che aveva fatto valere i diritti della Repubblica contro le disposizioni prese dal cardinale quale amministratore apostolico di Albenga. L'inflessibilità della congregazione romana costrinse il governo a cedere anche sul terzo caso, quello dei coloni dell'isola di Chio, che nell'autunno 1557 avevano espulso l'inquisitore locale, il commissario vescovile e due domenicani e che furono costretti a revocare il provvedimento.
Nella circostanza il F., alle canoniche raccomandazioni di conservazione della ortodossia in un'isola accerchiata dalla marea turca, accompagnava una memoria nella quale illustrava la procedura seguita nei processi metropolitani. Questo documento, che insisteva sulle prerogative, in tutte le fasi del processo, dei due protettori del S. Uffizio (laici rappresentanti della Repubblica, scelti tra i cittadini più influenti) fu un testo di riferimento costante per il governo di Genova anche nel secolo successivo nelle controversie giurisdizionali con l'Inquisizione.
Non è nota la data della morte del F.; nel 1567, comunque, la carica di inquisitore della sede genovese venne assunta ad interim da fra' Nicola da Chiavari, lettore di teologia e contemporaneamente, il 13 nov. 1567, la carica arcivescovile era assunta con energico piglio controriformistico da Cipriano Pallavicino.
Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. universitaria, Mss. E VII, 15: Lettere di Pio V papa; Ibid., Arch. stor. del Comune, Fondo Brignole-Sale, 105 C 8: Albergo De Franchi (s.n.); F.M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1851, p. 157; M. Rosi, La riforma religiosa in Liguria e l'eretico mutuo B. Bartocci, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXIV (1894), p. 606; L. von Pastor, Storia dei papi, VI, Roma 1927, ad Indicem; VII, ibid. 1928, ad Indicem; G. Bertora, Il tribunale inquisitorio di Genova e l'Inquisizione romana nel '500 alla luce di docc. inediti, in La Civiltà cattolica, CIV (1953), 2, p. 182; C. Brizzolari, L'Inquisizione a Genova e in Liguria, Genova 1974, pp. 7, 16; R. Canosa, Storia dell'Inquisizione in Italia, II, Roma 1988, pp. 131-142.