GIOVANNI
Duca di Napoli, terzo di questo nome, era figlio del duca Marino e dovette nascere agli inizi del X secolo. Intorno al 928 succedette al padre alla guida del Ducato.
Nel periodo in cui governò, la Campania era divisa in varie entità politiche e territoriali: i Principati longobardi di Benevento e Salerno e i Ducati di Amalfi, Napoli e Sorrento. Il Ducato di Napoli era di fatto autonomo, ma formalmente riconosceva l'autorità dell'imperatore bizantino, autorità presente anche in Puglia e in Calabria; l'intero percorso politico di G. fu improntato alla ricerca di continui equilibri fra il pericolo rappresentato dalle invasioni musulmane, l'autorità di Bisanzio e i rapporti con i vicini potentati lombardi.
Fin dagli inizi del suo governo G. dovette fronteggiare i musulmani che in quegli anni, partendo dalle loro basi in Sicilia, avevano ricominciato a fare scorrerie sulla costa campana. Fu forse lui a trattare con i Saraceni, quando si presentarono sotto le mura di Napoli carichi del bottino proveniente dal saccheggio dell'area salernitana (929). Fu probabilmente il timore dei musulmani che lo spinse nel 956 a rifiutare l'entrata a Napoli dello stratega bizantino della Calabria e Longobardia Mariano Argiro. In seguito fu però costretto a riconoscere la sovranità di Costantinopoli, perché i Bizantini reagirono a questa sua decisione inviando per mare un contingente armato che devastò i dintorni della città e bloccò l'afflusso dei viveri. Il fatto che tale comportamento di G. fosse stato dettato dalla paura dei Saraceni e non dal desiderio di sottrarsi all'influenza bizantina pare confermato dal particolare che, anche in seguito, nel 958, i musulmani assediarono Napoli. Questa volontà è testimoniata pure dalla circostanza che egli continuò a mantenere rapporti diplomatici con Costantinopoli e che nella conferma del patto con i Longobardi riconobbe le clausole dell'accordo salvo restando l'autorità dei sovrani bizantini.
Nel corso del suo ducato G. dovette anche affrontare e gestire i rapporti con le diverse entità territoriali rette dai Longobardi presenti in Campania: in questa prospettiva deve essere visto il patto che G. sottoscrisse all'incirca nel 933-939 con Atenolfo (III), della dinastia "capuana" dei principi di Capua-Benevento, associato al padre Landolfo (I) e allo zio Atenolfo (II): il patto segnò infatti la fine delle pressioni esercitate dai Longobardi su Napoli. Nonostante tali premesse i rapporti non furono sempre pacifici. G. si alleò infatti con il principe di Benevento Landolfo per eliminare il principe di Salerno Gisulfo (I), sperando probabilmente di riuscire nell'impresa in considerazione della giovane età del principe, succeduto da poco tempo (946) a Guaimario (II). Il colpo di mano però fallì, perché Gisulfo, ottenuto l'aiuto degli Amalfitani, si recò incontro alle schiere di G. e Landolfo, i quali, vista la decisa reazione degli avversari, preferirono ritirarsi. Anche in tale caso l'intervento contro Salerno, che in quel periodo era in buoni rapporti con Costantinopoli, non deve essere inteso in senso antibizantino, ma come una delle numerose e labili alleanze strette nel corso dell'Alto Medioevo tra i potentati dell'Italia meridionale spesso in lotta tra di loro. Ciò pare confermato dal particolare che poco dopo Landolfo si riappacificò con Gisulfo e insieme assalirono parte del territorio del Ducato di Napoli, conquistando e radendo al suolo Nola.
Moglie di G. fu la colta e pia Teodora, probabilmente parente del patrizio Alberico di Roma che aveva acconsentito alle nozze, una volta falliti i suoi progetti matrimoniali con un membro della famiglia imperiale bizantina; sempre nel quadro di un'attenta politica matrimoniale va visto il legame di parentela stabilito da G. con il duca di Gaeta, Docibile (II), che sposò la sorella Orania. Con lui, inoltre, condivise la proprietà di alcuni beni all'interno della città di Napoli, particolarità probabilmente dovuta a una clausola del patto matrimoniale.
All'incirca nel 944, G., per far sì che la carica ducale rimanesse in mano alla sua famiglia, associò al potere il figlio minorenne Marino. In un documento del 944, infatti, accanto al duca di Napoli figura Marino, del quale si specifica che era "infra etatem".
Il documento in questione riguarda la donazione di terre nonché la conferma del possesso di una cella e degli orti annessi nella città di Napoli, in favore di Leone, abate di S. Vincenzo al Volturno; in esso si sancisce inoltre il divieto di usufruire dei prodotti delle proprietà dell'abbazia. Tale provvedimento e il dettaglio che in quegli anni l'abate di Cluny Oddone si recò a Napoli sembrano sottolineare che G. avesse operato in favore degli enti monastici.
Con la moglie G. ebbe in comune l'amore per le lettere, passione ben evidenziata quando mandarono a Costantinopoli l'arciprete Leone per un'ambasceria. Non si conoscono con precisione i motivi politici di questa ambasceria, avvenuta probabilmente intorno al 956, regnanti gli imperatori Costantino II e Romano II. Tuttavia sappiamo che G. e la moglie invitarono Leone ad approfittare dell'occasione per portare a Napoli tutti i manoscritti greci che fosse riuscito a procurarsi. L'arciprete fece ritorno con una Cronographia, forse quella di Teofane, le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, le Decadi di Tito Livio, il De coelesti hierarchia dello Pseudo Dionigi l'Aeropagita e la Historia Alexandri Magni.
Dopo la morte della moglie, G. si dedicò quasi completamente agli studi. L'arciprete Leone lo ricorda come uomo sempre intento a leggere e a discutere al pari di un filosofo, raccogliendo libri e facendo provvedere alla traduzione in latino di autori in lingua greca. In particolare commissionò allo stesso Leone la traduzione del romanzo su Alessandro Magno, che contribuì grandemente alla fortuna nel Medioevo di questo personaggio.
G. morì verso la fine del 968 o agli inizi del 969.
Alla morte di G. si formò una strana leggenda, riportata da Pier Damiani, che pare contrastare con l'esemplarità della figura del duca di Napoli come viene tramandata da altre fonti. Una notte G. avrebbe visto una schiera di diavoli che guidavano una fila di cavalli carichi di fieno, che doveva servire per bruciare Pandolfo di Capua, già morto, e G., ancora in vita. In seguito a ciò G. decise di abdicare e di farsi monaco, ma non prima di incontrare l'imperatore Ottone II; la morte però lo prevenne. Sulla base di questa leggenda alcuni hanno posto il decesso di G. al 981.
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