ROSINI, Giovanni
– Nacque il 24 giugno 1776 a Lucignano in Val di Chiana, nell’Aretino, da Bartolommeo, laureato in medicina, e da Maria Torelli.
Per ragioni legate alla professione del padre, funzionario della burocrazia granducale, la famiglia si stabilì a Livorno pochi mesi dopo la sua nascita. Qui il giovane Rosini effettuò i primi studi di latino e di retorica sotto dotti precettori ecclesiastici. Con l’ulteriore trasferimento di Bartolommeo, nominato dieci anni più tardi vicario regio di Ponte a Sieve, fu iscritto alle scuole del seminario di Fiesole, frequentate fino al 1791; nel 1792 venne avviato a studi di filosofia nella badia benedettina di Firenze, sotto la guida di un monaco cassinese, e nel frattempo iniziò a frequentare l’Università a Pisa. Nel 1796 vi conseguì il titolo di dottore in utroque iure con l’intenzione di intraprendere, sulle orme paterne, una carriera nell’amministrazione granducale. Nel frattempo, aveva cominciato a stendere i suoi primi componimenti poetici, pubblicati fra il 1794 e il 1799 e consistenti soprattutto in odi d’occasione e scherzi poetici di forte intonazione arcadica. L’apprezzamento da essi incontrato in uomini di lettere come Lorenzo Pignotti e monsignor Angelo Fabroni, allora provveditore dell’Ateneo, lo spinsero pertanto a privilegiare definitivamente la passione per le umane lettere.
Per assecondare questa sua vocazione, oltre a ricercare la protezione di facoltosi mecenati come il patrizio lucchese Cristoforo Boccella, si lanciò dal 1798 in una multiforme attività di editore e stampatore, confidando nel nascente mercato delle lettere. Grazie alla cessione da parte di Fabroni della sua stamperia domestica, creata in origine per la pubblicazione del Giornale de’ letterati, si apprestò alla sua prima importante impresa, ossia la cura dell’edizione completa delle Opere di Melchiorre Cesarotti. Ma le concitate vicende politiche del 1799 arrestarono l’iniziativa e più in generale la prosperità commerciale della nuova attività.
Pur sentimentalmente legato al passato lorenese, Rosini, forte della sua ambizione, si adattò realisticamente al mutato scenario politico confidando nel fatto che possibilità di realizzazione personale non sarebbero mancate neppure sotto un nuovo potere. Alternando al contempo l’attività di insegnante privato e quella di letterato, riprese pertanto con rapidità il suo lavoro per l’attività tipografica, e con lo schiudersi del nuovo secolo la riorganizzò con importanti investimenti, fornendola dei bei caratteri di Didot, affidandone gran parte dell’amministrazione a un nuovo socio, Niccolò Capurro, e avvalendosi della collaborazione di qualificati operai. Diede così alle stampe edizioni con ricercate illustrazioni, affidate a incisori quali Carlo Lasinio, come nel caso delle Lettere pittoriche sul Campo Santo di Pisa (Pisa 1810) o della sua Storia della pittura italiana, concepita nel 1813 durante una visita parigina al Louvre, ma che per la complessità richiesta avrebbe visto l’uscita dei primi volumi solo a partire dal 1839. Nel 1804, grazie al decisivo appoggio di Pignotti, era stato nominato da Maria Luisa di Borbone alla nuova cattedra di eloquenza italiana dell’Università di Pisa. Nella sua prima prolusione, del 1806 (Della necessità di scrivere nella propria lingua, Pisa 1808), illustrò le «ragioni, per cui son gl’italiani obbligati di mantener netta da ogni corrutela straniera la loro lingua» (Ferrucci, 1856, p. 12).
Nel contesto dell’intermezzo borbonico e conservatore del Regno di Etruria, ai cui sovrani aveva prontamente dedicato due poemetti di tono encomiastico (Le scienze e le arti, Pisa 1801; Il secolo di Leone X, Pisa 1803), l’orazione si inseriva nelle polemiche sulla questione della lingua e intendeva rappresentare una critica a Napoleone, ma soprattutto esprimeva l’adesione a posizioni tendenzialmente puriste e marcatamente classiciste a cui avrebbe consacrato la sua intera carriera accademica e letteraria.
Tale adesione credette di testimoniare anche con scelte private come quella di attribuire al figlio, nato in quegli anni dal matrimonio con Geltrude Gotti (sposata dopo la prima moglie Anna Becciani di Firenze), il nome di Ippolito in onore di Pindemonte, e quella di assicurare alla secondogenita Teresa un padrino come Vincenzo Monti.
Cambiato nuovamente il quadro politico, con un’altra prolusione, tenuta nel 1809 alla presenza della granduchessa Elisa Baciocchi, in cui manifestava un forte apprezzamento per i segnali favorevoli a una rifondazione su basi autonome dell’Accademia della Crusca, Rosini ribadì senza esitazioni il principio del necessario consenso tra il potere e gli intellettuali. Malgrado non mancasse di promuovere attività culturali autonome, anche investendo capitali propri, in omaggio a una simile concezione della cultura di matrice cortigiana, che identificava nel comando regio un’insostituibile protezione delle lettere e delle arti, nel 1814 inneggiò alla definitiva Restaurazione lorenese con il poemetto La gara di Omero e di Esiodo (Pisa 1814).
Formatosi sotto la prima fase del regno di Ferdinando III di Lorena, in un clima di illuminismo declinante e di ripiegamento regionalistico, rimase del resto per sempre legato all’attardato settecentismo di quegli anni e a un mito leopoldino riletto in chiave fortemente municipale e consolidatosi in una visione che fra rivoluzione e reazione si attestava su un dispotismo cautamente illuminato. Con questa posizione avrebbe affrontato anche i problemi del nuovo secolo in cui era chiamato a trascorrere lunga parte della sua vita.
Con il giurista Giovanni Carmignani, figura simbolo con lui dell’Ateneo e della cultura pisana della Restaurazione, Rosini animò e diresse così il Nuovo Giornale de’ letterati, tardiva prosecuzione di quello settecentesco di Fabroni. Nella Toscana dell’epoca questo organo erudito, direttamente finanziato dal governo, rappresentò l’alternativa all’Antologia fiorentina di Giovan Pietro Vieusseux e giunse a ospitare con tale frequenza recensioni e scritti del letterato pisano che Giuseppe Montanelli a metà degli anni Trenta arrivò a definirlo «la sputacchiera di Rosini» (Manfredi, 2016, p. 183). Nel frattempo, con impegno e alterne fortune, aveva continuato a conservare, pur nel mutare delle denominazioni e dei soci, la proprietà e la direzione della stamperia, con la ripresa e il completamento, entro il 1813, delle opere di Cesarotti, con la ripubblicazione di diversi classici italiani, e privilegiando fra il 1815 e gli anni Venti collane di poeti coevi di gusto neoclassico, edizioni critiche di classici quali la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini o l’intera opera di Torquato Tasso in oltre trenta volumi.
Letterato arcade ed encomiastico, facile alla polemica letteraria pedante, Rosini non fu tuttavia interamente proiettato nel passato, non mancando di farsi partecipe di processi di organizzazione della cultura di tipo moderno. Non insensibile all’emergere di un pubblico di lettori, fu uno dei massimi esempi di quanto la cultura della Restaurazione ch’egli incarnava non fosse priva della capacità di usare strumenti di diffusione propri della cultura borghese ottocentesca e del nuovo mercato delle lettere per veicolare e far passare contenuti tradizionali.
In tal senso, decise persino di confrontarsi, anche per ragioni di convenienza economica, con il genere ottocentesco per eccellenza, il romanzo. Proprio la sua passione per un’attività editoriale in grado di toccare tante città, ancor più che l’intensa socialità salottiera e l’iscrizione alle più diverse accademie, contribuì a metterlo al centro di una vastissima rete di relazioni con la cultura italiana del tempo, e lo spinse a farsi carico in prima persona della scrittura per essa, dalla fine degli anni Venti, di romanzi storici che per successo di pubblico lo resero secondo solo ad Alessandro Manzoni. La Monaca di Monza. Storia del XVII secolo (Pisa 1829), uscito proprio per sfruttare l’onda lunga del best seller manzoniano, riprendendone una delle figure, conobbe ben venticinque edizioni in poco più di vent’anni e svariate traduzioni straniere.
I suoi romanzi furono tuttavia solo un modo diverso attraverso cui mediare le sue radicate convinzioni, a dimostrazione di quanto il suo empirismo di editore si scontrasse con insormontabili ipoteche culturali e ideali. Al di là dell’apparente ambiguità della scelta, essi si rivelarono infatti «come un’altra possibile dimensione assunta dal suo spazio letterario» (Cordié, 1981, p. 536); privi di ogni forma di pedagogia morale e intellettuale, o di fremito civile e romantico, ma intrisi solo di quell’evasione idilliaca tipica della letteratura arcade, furono l’occasione per riproporre in altra forma temi e ambienti già largamente presenti nelle sue erudite ricerche di storia dell’arte, in odi e poemetti.
Se nel corso degli anni centrali della Restaurazione, con la sua multiforme attività, Rosini si impose come un personaggio assolutamente centrale nella Toscana granducale, nei primi anni Quaranta la sospensione dei finanziamenti al giornale pisano e la riforma universitaria del provveditore Gaetano Giorgini favorirono invece una parziale emarginazione dei vecchi retori e della loro cultura. Rosini aumentò allora le tirate polemiche contro il proprio secolo, corredate da malinconici richiami per quell’Arcadia che, con i suoi salotti e le sue accademie, era stata la Toscana di fine Settecento e di inizio Ottocento. Con l’avvento del 1848 il granduca lo nominò senatore, ma l’anziano professore continuò a nutrire mai sopite diffidenze verso soluzioni costituzionali e rappresentative, e nel corso della seconda Restaurazione tese ad accentuare la nostalgia per i tempi antichi, di cui era pervasa in profondità una delle sue ultime fatiche (Cenni di storia contemporanea, Pisa 1851), nel quadro di un inasprimento ulteriore delle sue chiusure. Rafforzando posizioni espresse nella dedica apposta a uno dei suoi tre romanzi storici (Luisa Strozzi. Storia del secolo XVI, Pisa 1833), in cui era giunto ad affermare l’origine tutta italiana di tale genere letterario, in uno smodato impeto di orgoglio si spinse a sostenere di non essere mai stato per i suoi romanzi imitatore di nessuno e a rivendicare in materia una sorta di primazia personale rispetto a Walter Scott e perfino allo stesso Manzoni (Lettera al celebre Sig. De Lamartine, in Il Monitore toscano, 2 dicembre 1854).
Morì a Pisa il 16 maggio 1855.
Opere. La gran parte degli scritti, con esclusione dei romanzi e degli studi di storia dell’arte, sono stati pubblicati in G. Rosini, Opere, I-V, Pisa 1835-1853.
Fonti e Bibl.: Un fondo comprendente lettere di e a Rosini e documenti della sua impresa tipografica è conservato dalla Biblioteca universitaria di Pisa (su cui si rimanda alla Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ’800 e ’900. L’area pisana, a cura di E. Capannelli - E. Insabato, Firenze 2000, pp. 251-255); gran parte del carteggio Rosini si trova all’Archivio di Stato di Milano, Fondo Galletti; un Fondo Rosini, con materiale manoscritto e a stampa, si conserva anche presso la Biblioteca Moreniana di Firenze. Missive di e a Rosini si trovano in numerosi epistolari editi e inediti: fra quelle pubblicate si vedano soprattutto Lettere inedite di G. R. a Giacomo Leopardi e ad Antonio Ranieri, a cura di R. Bresciano, Napoli 1935.
L. Pozzolini, Biografia di G. R., Lucca 1855; M. Ferrucci, Elogio del cav. professore G. R., Pisa 1856; M. Tabarrini, Vita e ricordi d’Italiani illustri del secolo XIX, Firenze 1864, pp. 24-38; S. Romagnoli, Introduzione a G. Rosini, La monaca di Monza. Storia del secolo XVII, a cura di S. Romagnoli, I-II, Firenze 1971, pp. 5-37; G. Nannini, Vita e opere di G. R. letterato pisano del secolo XIX, Pisa 1979 (con in appendice un elenco delle opere); P. Cordié, Ritratto di G. R., in Annali della Scuola Normale Superiore, XI (1981), pp. 523-568; R. Pertici, Uomini e cose dell’editoria pisana del primo Ottocento, in Una città tra provincia e mutamento. Società, cultura e istituzioni a Pisa nell’età della Restaurazione, Pisa 1985, pp. 49-91; F. Cristelli, Ricerche sul pensiero politico di G. R., Firenze 1994; M. Manfredi, Devozione, carità e classicismo di antico regime. Cultura della tradizione e forme della politica in una città della Restaurazione (Pisa 1799-1861), Pisa 2016, ad indicem.