MICHIEL, Giovanni
MICHIEL, Giovanni. – Nacque a Venezia nel 1454 da Lorenzo di Tomà del ramo di S. Trovaso e Nicolosa di Nicolò Barbo, già vedova di Giovanni Bragadin nonché sorella dell’allora cardinale Pietro Barbo.
Unico maschio della famiglia, ebbe almeno quattro sorelle: Eugenia, monaca agostiniana col nome di suor Serafina; Laura, sposa nel 1475 di Alvise Michiel di Fantin; Elisabetta, maritata nel 1479 con Giorgio Foscarini; un’altra, forse Elena, che, sposa di Andrea Trevisan, dette alla luce Bartolomeo, futuro vescovo di Belluno.
Fu allevato – al pari del cugino Giovanni Battista Zeno, figlio di Niccolò e di Elisabetta Barbo, anch’essa, come la madre del M., sorella del prossimo pontefice – a Roma in casa dello zio cardinale (inattendibile, pertanto, la notizia d’una patavina laurea in utroque del M. e di Zeno). L’elevazione di Pietro Barbo al soglio pontificio col nome di Paolo II, il 30 ag. 1464, lo favorì.
Ancorché fanciullo, nell’autunno del 1466 fu a Venezia latore – relativamente alle decime del clero destinate, per concessione della S. Sede, all’impegno antiturco della Repubblica – della richiesta d’esenzione per i porporati, di riduzione delle quote degli ecclesiastici più influenti nonché dell’esclusione dagli immobili tassabili delle abitazioni dei chierici. Protonotario apostolico con la provvigione di 30 fiorini nell’ottobre 1467, il M. fu incluso col cugino Zeno nella seconda creazione cardinalizia di Paolo II, il 21 nov. 1468. A partire dal 1470, a contrassegnarlo nei documenti romani e veneziani, fu la dicitura di cardinale di S. Angelo in Pescheria.
Il 15 apr. 1471 affiancò, con il cugino, Borso d’Este nella messa in S. Pietro, cui questi assistette ufficializzato dell’investitura papale nella veste ducale. Intanto, il 18 marzo, era stato preposto al vescovato di Verona, simultaneamente a Zeno collocato in quello vicentino.
Le due designazioni furono rifiutate dal Senato marciano il quale, il 5 settembre – mentre nel frattempo a Paolo II era subentrato sul soglio pontificio Sisto IV, grazie anche ai voti del M. e di Zeno –, ingiunse ai rettori di Verona e Vicenza di impedire l’insediamento dei due. Assai più sgradito, a ogni modo, alla Repubblica Zeno del M., il quale, malgrado i tentativi di indurlo a rinunciare alla carica, non si fece da parte, forte della questione politica che poneva una nomina episcopale non concordata con la Serenissima. Vana, nel 1472, la missione del minore osservante fra Angelo da Bolsena a Venezia, a insistere per il riconoscimento al M. e al cugino del possesso delle rispettive diocesi. Solo il 30 apr. 1476 il Consiglio dei dieci revocò la decisione del 5 sett. 1471 e – con gran soddisfazione del pontefice – ordinò il 30 genn. 1477 ai rettori di Verona e Vicenza di assecondare l’insediamento del M. e di Zeno.
A dispetto dell’esigenza più volte espressa dal Consiglio cittadino di Verona, convinto dell’indispensabilità di un presule residente, il M. fu presente nella diocesi in misura rara e intermittente e limitata a pochi giorni: assurda notizia quella, stando alla quale, ancora il 24 ott. 1471, avrebbe consacrato la chiesa di S. Pietro Martire poi divenuta di S. Anastasia; quanto meno improbabile abbia potuto, già nel 1475, reintegrare il capitolo canonicale nella dignità arcidiaconale. Consacrò di persona, invece, nel 1485, la chiesa delle domenicane e ricevette, ospitandolo, il 26 giugno 1488, l’imperatore Federico III nel palazzo vescovile, al cui splendore, anche da lungi, prestò un’attenzione assai più sollecita di quella pastorale per le anime, ma anche per gli stessi edifici sacri, di cui si occupano infatti le autorità laiche locali e i rettori veneziani. La lontananza fu sopperita, almeno parzialmente, dal succedersi di vicari e suffraganei in loco: l’abate Agostino di S. Leonardo; l’arcivescovo di Durazzo Marco Cattaneo, che il 19 genn. 1483 consacrò la nuova chiesa dei Ss. Nazario e Celso; Gregorio Venier; il vescovo di Calamosa e Retymno Antonio Zio e, infine, il futuro vescovo di Famagosta Mattia Ugoni.
Il M. fu dedicatario del bieco poemetto De martirio beati Symonis Tridentini a perfidis Iudeis trucidati (Treviso 1480), steso in volgare dal veronese Giorgio Sommariva, il futuro traduttore di Giovenale, il quale, contemporaneamente, dedicò ai rettori della sua città il Martirium Sebastiani Novelli trucidati a perfidis Iudeis (ibid. 1480).
Importante l’insieme di rendite beneficiarie e prebende di cui il M. dispose: morto il 28 giugno 1476 il vescovo di Drivasto Nicolà Somma, ebbe in commenda l’abbazia, in quella diocesi, di S. Giovanni de Stalio; nel 1470 aveva scambiato la diaconia di S. Lucia «in Septemsoliis» con quella di S. Angelo in Pescheria, mantenendo tale denominazione anche dopo il 1484, quando questa seconda diaconia non la detenne più; divenne titolare, nel 1476, del priorato del monastero lagunare di S. Maria dei Crociferi, cui rinunciò poi, non spontaneamente; il Senato veneziano gli concesse nel 1497 le chiese – vacanti per la morte di Raffaele de’ Medici – di S. Stefano di Isola della Scala, di S. Maria di Albaredo e S. Pietro di Colognola. Nel giugno del 1500 contese al vescovo di Cremona cardinale Ascanio Maria Sforza il priorato di S. Marta a «Castel Lione»; fu commendatario dell’abbazia di S. Maria a Sesto al Reghena, di quella ravennate di S. Spirito, dei monasteri veronesi di S. Fermo Minore e della Ss. Trinità – ma non dell’abbazia di S. Zeno –, dell’abbazia padovana di S. Sofia, del priorato gardesano di S. Maria, detentore di benefici ecclesiastici quali un canonicato nella diocesi di Firenze, una parrocchia in quella di Lucca, un’arcipretura in quella di Acqui, meticolosamente colleziona fonti di reddito. La nomina del 23 genn. 1497 a patriarca di Costantinopoli gli garantì – in virtù di possessi del patriarcato a Creta – 800 ducati annui.
Nel 1484 divenne camerlengo del Collegio cardinalizio e il 5 giugno 1486 fu nominato legato a latere del Patrimonio di S. Pietro «et in castris Ecclesiae». Fu pure protettore dell’Ordine dei servi di Maria, donde la sua partecipazione alla stesura della bolla, del 24 febbr. 1480, Tradita nobis, intesa a regolare i rapporti tra superiore generale e Congregazione.
Con altri cinque cardinali seguì Sisto IV quando questi, dal 10 giugno al 23 ott. 1476, s’assentò da Roma a sfuggirne i pericoli di peste. Severo, per il M., l’ordine senatorio del 18 maggio 1481 a desistere dall’appoggiare il tentativo dei canonici regolari di S. Spirito di trasferirsi da un’isoletta lagunare nel convento veneziano dei crociferi. Efficace, in compenso, sempre nel 1481, il suo adoperarsi per liberare da Castel Sant’Angelo il domenicano Andrea Zamometić – di tendenze filoconciliari costui e per di più del papa sparlante nell’esasperazione della negata porpora – ivi rinchiuso il 14 giugno. Vana, invece, la trasmissione – richiesta dal Senato, il 14 marzo 1483, al M. e al cugino – dell’appello alla pace della Repubblica, non solo lasciato cadere dal pontefice ma pure seguito dai fulmini della scomunica e dell’interdetto. Imbarazzante per il M. non intervenire, il 28 maggio, alle funzioni della vigilia del Corpus Domini a seguito della bolla di scomunica di Venezia del 23 maggio. Un’assenza, d’altronde, coerente per non aver egli sottoscritto la bolla del 30 aprile ratificante gli atti del recente congresso cremonese, dichiaratamente antiveneziano. Un sollievo per lui la revoca della scomunica, il 28 febbr. 1485, da parte di Innocenzo VIII.
Morto, il 20 ag. 1485, il vescovo di Padova Pietro Foscari, il M. aspirava a succedergli e il papa lo accontentò il 26 agosto nonostante la promozione fosse malvista dai Veneziani. Per il vescovato patavino, infatti, la Repubblica preferiva il vescovo di Belluno Pietro Barozzi, che con il M. era imparentato alla lontana e alle sue raccomandazioni doveva la promozione a vescovo di Belluno nel 1471. Una designazione questa di Barozzi, che s’oppose a quella romana e risultò prevalente, sicché il M. s’acconciò alla parte del dimissionario e nell’aprile 1487 Innocenzo VIII poté confermare, con esultante ringraziamento della Serenissima, la nomina senatoria di Barozzi, il quale s’insediò solennemente il 24 giugno.
Affiancato dal vescovo di Alessandria Giovanni Antonio di S. Giorgio, il M. si adoperò nelle laboriose pratiche per l’instaurazione della «pax inter […] papam et regem Sicilie, ducem Mediolani et Florentinos»: forte della fiducia di Innocenzo VIII – che, invece, diffidava del cardinale Ascanio Maria Sforza ed era irritato dal non richiesto intervento mediatorio di Roberto Sanseverino – il M., nel maggio 1486, diventò il principale negoziatore per conto del pontefice, che, militarmente pressato, puntava a una composizione.
Ancorché mai dimentico del perseguimento dei propri personali interessi, al punto da aspirare all’assegnazione dell’abbazia di Montecassino (la quale, già commenda del defunto cardinale Giovanni d’Aragona, era pure appetita da Lorenzo de’ Medici per il figlio Giovanni, il futuro Leone X), la conduzione delle trattative fu attenta e abile sino all’esito nella riunione notturna romana del 9-10 agosto. In questa – cui parteciparono il papa, il M., il vescovo di Alessandria, Giovanni Pontano, e Gian Giacomo Trivulzio – furono definiti i preliminari del trattato di pace, nel cui testo, redatto l’11 dal notaio della Camera apostolica e pubblicato il 12 settembre, figurava un’interpolazione, di certo voluta da Innocenzo VIII e insinuata, pare, dal M., ove si contemplava l’impegno aragonese al pagamento del censo annuo alla S. Sede. L’aggiunta di siffatta clausola suscitò proteste per il momento smorzate da profuse assicurazioni romane che di fatto non sarebbe stato richiesto alcun pagamento, che di fatto non si sarebbe mai fatto ricorso a un’applicazione rigorosa dell’impegno quasi fosse di poco conto e minimizzabile a formalità senza contenuto. Intanto il M. si impegnava in ottobre nella mediazione tra Colonna e Orsini sino a indurre i primi a restituire ai secondi le terre tolte a loro durante il conflitto. Pur recalcitrante, alfine Fabrizio Colonna fu costretto a consegnare al M., a Trivulzio e al cardinale Giuliano Della Rovere il castello di Albe col contado. E il M. poté tornare a pensare ai propri interessi se – avendo per procuratore l’autorevolissimo Francesco Priuli, cioè il generale dell’armata contro il sultano nel 1485 e il capitano generale da Mar nel 1487-88 quando si paventarono mosse del sultano Bāyazīd II – rivendicò le spettanze, nel Veronese, di Monteforte, Bovolone e Pola.
Morto, il 25 luglio 1492, Innocenzo VIII, tra i molti aspiranti alla successione spuntò anche il M., il quale, in effetti, nel conclave apertosi il 6 agosto (23 i votanti; e 16 i voti necessari all’elezione) ottenne 2 voti in prima battuta, 7 l’8 e di nuovo il 9 agosto, balzando l’indomani a 10 perché il cardinale Della Rovere fece convergere su di lui le preferenze che egli controllava, certo che, se papa, il M. sarebbe stato da lui manovrabile agevolmente. Si disse in seguito che se il M. si fosse adattato a «far simonia» di certo «saria stà papa». Fu eletto invece, l’11, il cardinale Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, che aveva comprato il voto dello stesso M. garantendogli, se eletto, vari pingui benefici, specie il ricco vescovato suburbano di Porto con tutte le suppellettili e con tutti gli edifici pertinenti.
«Vir divitiarum»: così scrisse di Zeno l’austero generale dei camaldolesi Pietro Dolfin, in una lettera del 29 luglio 1501 a Barozzi (in Epistolarum volume, Venezia 1523, pp. n.n.). Un giudizio estendibile anche al M. che, amante della buona tavola, abituato a un tenore di vita più che signorile, viveva, circondato e accudito da numerosa familia – in questa, come segretario, era l’ecclesiastico padovano Francesco Candi, che divenne poi abbreviatore delle lettere apostoliche –, nel palazzo eretto per sua volontà a ridosso dell’abside della chiesa di S. Marcello (a mezzo Seicento acquistato dal cardinale Mellini), dal bel portale, con torre accessibile da via Lata, recante sull’architrave (poi riportato sull’angolo destro di piazza S. Marcello e incorporato nell’edificio conventuale dei serviti) il suo nome. Amava trasferirsi, inoltre, nella sua villa rustica con torre, vigna, giardini sulle pendici del Pincio, sotto l’attuale villa Malta. Godeva d’una rendita annua di 12.000 ducati – così, almeno, attesta l’elenco del 1° giugno 1500 dove il nome dei 45 cardinali del Collegio è affiancato dal reddito annuo presunto donde dedurre la decima cui ognuno di loro è sottoposto a finanziamento della guerra al Turco proclamata da Alessandro VI –, frutto puntuale di un patrimonio che, di gran lunga oltrepassante i 100.000 ducati (ossia quanto ricava Palazzo ducale annualmente dal dazio del sale della Terraferma, la più redditizia, per lo Stato marciano, delle sue imposte indirette), Sanuto valuta sui 120.000 ducati e altri addirittura fanno ammontare a 200.000.
Oggetto di invidia e cupidigia la ricchezza del M., che pur consapevole dei rischi cui la spregiudicatezza di Alessandro VI lo esponeva, diversamente dal cugino Zeno decise di restare a Roma. Assente perché infermo dal concistoro del 20 ott. 1493, dal quale sortirono ben 12 neocardinali, bastevoli a ridimensionare l’influenza dei «vecchi» come il M.; sottoscrittore tra 20 cardinali della bolla papale del 1° febbr. 1494 a favore di Carlo VIII, di cui si prendevano per buone le intenzioni «ad expeditionem» antiturca, il M. – come il papa e altri cardinali –, si assentò da Roma dal 27 maggio al 27 giugno 1495 proprio a evitare l’incontro con il re di Francia.
Alla morte, l’8 dic. 1495, del generale dei serviti, Antonio Alabanti, intervenne, in quanto protettore dell’Ordine, a sedare il grande disordine scatenatosi nel convento fiorentino. Per il resto il suo impegno pare ridursi a un presenzialismo d’occasione – la messa nella chiesa di S. Cecilia nel giorno dedicato alla santa; la messa a S. Maria della Minerva nel giorno di S. Tommaso d’Aquino; la messa a S. Francesco in Trastevere nel giorno dedicato al santo; le cerimonie pasquali a S. Pietro; la messa nella ricorrenza della creazione di Alessandro VI; il battesimo, dell’11 nov. 1499, a S. Pietro del nipote del papa, Rodrigo; la messa a S. Marco, del 25 aprile, nella ricorrenza del santo cui la chiesa s’intitola – inteso a mostrare di non nutrire alcun timore del papa, anche se per opporglisi mancava il coraggio. D’altronde – nel concistoro del 7 giugno 1496, quello che concedette in feudo il Ducato di Benevento con Terracina e Pontecorvo al figlio del papa Giovanni duca di Candia – solo il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini ebbe l’ardire di votare contro. Tutti gli altri 26 votarono a favore, incluso il M. cui il papa l’anno dopo concedette le chiese di S. Stefano in Isola della Scala, di S. Maria di Albaredo e di S. Pietro di Colognola rimaste vacanti per la morte di Raffaele de’ Medici. In un altro concistoro, il giugno 1499, il M. si distinse richiamando l’attenzione sul dovere della lotta al Turco. E sin benemerito, agli occhi del veneziano palazzo ducale, il M. nell’agosto dello stesso anno quando – ancorché esentato da questo pagamento da una bolla pontificia – offrì alla Repubblica in lotta con il Turco la richiestagli «contributionem decimarum». Al rientro da Roma, l’ambasciatore veneto Paolo Cappello informò, nel settembre 1500, che il M. «buta lacrime per il Turcho», pronto, se non fosse «per le podagre» che lo affliggono, a propagandare per ogni dove la crociata, a battersi di persona «per far ben a la cristianità e a la Signoria».
Intanto però, annoverato tra quanti «non voriano marani» incardinalati, si trovava sempre più a disagio in una Roma dove imperversava la banda famelica e malavitosa dei parenti del papa. Non a torto paventava lo scatenarsi d’una rapina che non avrebbe esitato a farsi omicida, a prezzolare sicari, ad arruolare domestici, a colpire, con questi, dentro le case. Avvelenato, il 23 nov. 1501, a Viterbo, Giovanni Lorenzi, almeno a detta di Valeriano, e di certo trucidato, il 27 genn. 1502, il fratello di quello Angelo; avvelenato da un famiglio, il 20 luglio 1502, il cardinale Giovanni Battista Ferrari; morto anch’egli di veleno, il 22 febbr. 1503, il cardinale Giambattista Orsini. Ormai toccava al M., che morì alle 3 dell’11 apr. 1503 nel suo palazzo romano, di certo avvelenato.
In mancanza di testamento, la sua ricchezza – lì per lì costituita da circa 150.000 ducati tra contanti, argenti, tappezzerie, dal magazzino ricolmo di grani, da terreni dalla resa annua «da 5 in 6 mila ruzzi» di grano, da cavalli di varie razze, bovini, ovini, anche bufali; e si parla di 11 forzieri di «roba» del cardinale Giovanni Colonna, il quale, ancora il 20 luglio 1499, nell’allontanarsi in tutta fretta per sottrarsi all’ostilità papale, li avrebbe consegnati al M. insieme con oltre 20.000 ducati mettendoli così in salvo – avrebbe dovuto essere incamerata dalla Camera apostolica. La residenza, comunque, fu razziata dal governatore di Roma per ordine del papa, prima dell’alba, fruttando un bottino inferiore alle aspettative. Evidentemente il grosso è stato occultato altrove. Tra i sospettati dell’avvelenamento del M., fu indicato il cardinale Pier Luigi Borgia; ma non emersero, nel processo del 1504, sue particolari responsabilità. Il 24 aprile, al posto del M. fu piazzato nel patriarcato di Costantinopoli il nipote del papa, Giovanni Borgia, col che furono girati a questi proventi già del Michiel. Sulle sue grandi ricchezze, tuttavia, il papa, con sua gran rabbia, non riuscì a metter mano, spettando esse alla Camera, come ribadì unanime, il 10 maggio, il concistoro, ma anche risultando di difficile individuazione, mentre crescevano i sospetti del papa che Venezia avesse indotto il M. a trasferire a lei i propri beni. Lo confermò l’arresto a Civita Castellana di un tal Tommaso, «commesso» del M., con addosso 1000 ducati. E in effetti costui – l’ambasciatore Giustinian lo sapeva, ma naturalmente non lo rivelò al papa – aveva già «lassati» a Verona «al fattor generale» e al notaio Alberto Salutello oltre 10.000 ducati da parte del M., che, con tutta probabilità, aveva pensato di imitare il cugino Zeno e, intanto, si era fatto precedere da grosse somme. È ipotizzabile, allora, che il veleno abbia troncato il proposito ormai maturato di riparare a Venezia.
Scomparso il 18 ag. 1503 Alessandro VI, nulla ostacolò l’indagine sull’assassinio del M., della cui esecuzione materiale (la somministrazione della polvere cosiddetta canterella) fu reo confesso il maestro di casa Asquino di Colloredo, insieme con altri membri del personale datisi alla fuga. Il 16 marzo 1504 l’avvelenatore fu decapitato in piazza Campidoglio; nel frattempo, durante la detenzione, aveva rivelato di aver agito su commissione del papa Alessandro VI e del Valentino, il quale fu perciò ritenuto in «honesta prexon» per poco tempo.
Il M. fu sepolto nella chiesa di S. Marcello, dove, sul tergo della facciata, fu eretto, nel 1520, per volontà di Giacomo Orso, un doppio monumento, a memoria del fratello Antonio (1439-1511) – un prelato clodiense vescovo della Canea dal 1481 vissuto a Roma e quivi referendario apostolico e segretario d’Innocenzo VIII, Alessandro VI, Pio III, il cui lascito di 830 codici fu costitutivo della biblioteca dei serviti – e del M. che del fratello è stato amicissimo.
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G. Benzoni