INGRASSIA, Giovanni Filippo
Nacque a Regalbuto, in Sicilia, verso il 1510. Trascorse l'infanzia e la giovinezza a Palermo dove, dopo avere studiato lingue classiche e filosofia, si dedicò alla medicina sotto la guida di G.B. De Petra, che lo spinse a seguire studi regolari. Risalirebbe al 1532, secondo A. Spedalieri, l'iscrizione dell'I. a un'università dell'Italia settentrionale, che potrebbe essere quella di Padova, dove l'I. si trovava nel 1534 (lo attesta un episodio ricordato nel suo In Galeni librum de ossibus doctissima et expectatissima commentaria, Palermo 1603, pp. 65 s.), o quella di Ferrara, dove fino al 1536 insegnò G. Manardo, chiamato dall'I. in più luoghi delle sue opere "praeceptor noster". Di certo, nel 1535, lasciata la precedente sede di studio, l'I. frequentava i corsi della Università di Bologna, presso la quale, il 5 genn. 1537, si laureò in medicina e filosofia.
Da un passo della sua Iatropologia (p. 180) sembra possibile desumere che nel maggio 1537 l'I. fosse già a Palermo, ove incorse, insieme con altri colleghi, in un grave infortunio professionale. I biografi affermano però che l'I., dopo essersi fermato per qualche anno a Padova, dove avrebbe partecipato alla scuola di A. Vesalio, sarebbe tornato in Sicilia solo nel 1540, esercitando a Palermo. Qui conobbe don A. de Cardona che lo presentò a Isabella Di Capua, moglie del viceré di Sicilia, Ferrante Gonzaga, la quale lo volle come suo medico personale.
È di questi anni la stesura della prima opera dell'I., Iatropologia liber quo multa adversus barbaros medicos disputantur… (Venezia, G. Grifio, s.d.). La data di pubblicazione, il 1547, si ricava da un'annotazione che compare prima del colophon, ma il manoscritto fu sostanzialmente terminato nel 1541, come l'autore dichiara a p. 385. I motivi del lungo periodo intercorso tra il momento in cui il testo fu licenziato e la stampa sono dovuti all'imbarazzo del Collegio medico palermitano, interpellato dall'I., a prendere una posizione unitaria nei confronti dell'opera. La Iatropologia è in effetti un'opera di sferzante polemica, dai toni durissimi, un attacco a quella parte della classe medica isolana che l'I. considerava imbarbarita in pratiche obsolete e inefficaci se non pericolose, presuntuosa e avida.
Ma l'aspetto polemico non esaurisce il contenuto del libro. Pur traendo spunto da fatti siciliani, esso travalica l'interesse di cronaca e affronta questioni di metodo, avanzando tre tesi di carattere innovativo: rifiuto di una rigida divisione tra physica e chirurgia e conseguente necessità di riunificare il sapere medico, necessità di un equilibrio tra teoria ed esperimento, subalternazione della medicina alla filosofia. Il primo punto criticava la pratica di abbandonare i pazienti ai barbieri, sottolineando il pericolo di una sempre più pesante diffusione di pratiche superstiziose nell'uso dei remedia. Il secondo intendeva riaffermare la centralità della pratica delle autopsie nella formazione del medico. Con il terzo, infine, attraverso una serie di sottili distinzioni di ordo e methodus, si cercava di determinare con la massima nettezza finalità, metodi e articolazioni della medicina, con l'obiettivo di ridarle prestigio e distinguerla da un esercizio che avesse puro scopo di lucro.
Nel 1544, al seguito di Isabella Di Capua diretta a Mantova, l'I. lasciò la Sicilia. Arrivato con la sua protettrice a Napoli nel marzo, vi conobbe Simone Porzio, che intercesse per lui presso il viceré Pedro de Toledo, marchese di Villafranca, al fine di fargli ottenere una cattedra nello Studio (Iatropologia, dedicatoria e p. 260). La richiesta ebbe presto un buon esito, dato che in un consulto epistolare inviato nell'aprile al protogimnasiarca di Palermo N. Garrano (Praegrandis utilisque medicorum omnium decisio… utrum in capitis vulneribus, phrenitideque, atque etiam pleuritide exsolvens nuncupatum pharmacum, an leniens duntaxat congruens sit, Palermo, G.M. Mayda, 1545; poi ristampato in appendice alla Iatropologia), l'I. comunicò di essere impegnato nella lettura del secondo libro dell'Ars parva di Galeno nello Studio. La cattedra non lo distolse tuttavia dall'onorare l'impegno preso con Isabella Di Capua: nell'autunno successivo la accompagnò a Manfredonia, luogo di imbarco per Venezia. Di ritorno a Napoli, tenne una prolusione sul De ratione medendi ad Glauconem di Galeno in apertura del corso di "medicina theorica" che gli venne affidato a partire dal 1545-46. La prolusione, che voleva essere una sorta di manifesto delle convinzioni dell'I. in campo medico, provocò, oltre che polemiche, anche un certo interesse all'interno del ceto colto partenopeo. Le idee in essa proclamate trovarono una sanzione ufficiale nell'anno accademico 1546-47, quando l'I. divenne anche lettore di pratica della medicina e di anatomia, ottenendo quell'unificazione di cattedre che forse fu il contributo di maggior rilievo che egli diede allo Studio napoletano.
Di questo periodo di insegnamento rimane testimonianza sia in due gruppi di lezioni manoscritte sia in un'opera data alle stampe postuma dal nipote N. Ingrassia con il titolo In Galeni librum de ossibus doctissima et expertissima commentaria… (Palermo 1603; poi Venezia 1604), anche se era circolata manoscritta sin dal 1550 circa. Le lezioni rimaste manoscritte riguardano la medicina teoretica: si tratta di un corso mutilo, mancante di qualsiasi riferimento cronologico, che è stato riconosciuto come una prima stesura del commentario della Microtechne di Galeno (Galeni Ars medica Ioannis Philippi Ingrassia Siculo interprete ac veluti novo plusquam commentatore, Venezia, G. Grifio, 1574), e del corso inaugurato il 4 nov. 1551, dedicato al commento degli Aforismi di Ippocrate. Il commento al De ossibus è un corso di lezioni di anatomia: è diviso in 24 capitoli, costituiti dal testo greco di Galeno, dalla traduzione latina e dal commento. La versione latina utilizzata è quella di F. Balamio (C. Galeno, De ossibus Ferdinando Balamio Siculo interprete, Roma, A. Blado, 1535), emendata però sulla base dell'originale greco e dell'esperienza anatomica. L'I. fu il primo a evidenziare che Galeno, nelle sue descrizioni, utilizzò ossa di scimmia. Nel commento, oltre a fornire accurate descrizioni delle suture craniche, della mastoide, dello sfenoide (le cui piccole ali sono note come apofisi di Ingrassia, v. L. Testut, Anatomia umana, I, Torino 1949, pp. 142 s.) e dell'articolazione temporo-mandibolare, l'I. diede notizia di alcune sue scoperte, le più note delle quali sono i rinvenimenti, nell'orecchio medio, dell'ossicino della staffa e del muscolo del martello. Tali ritrovamenti, insieme con un'accurata descrizione delle strutture anatomiche circostanti, gli permisero di formulare una valida ipotesi funzionale sulla trasmissione del suono dalla membrana del timpano all'orecchio interno.
Anche le altre due opere date in luce negli anni napoletani, gli Scholia in Iatropologiam (Napoli, G.P. Suganappo, 1549) e il De tumoribus praeter naturam tomus primus… (ibid., M. Cancer, 1552), sono collegate all'insegnamento.
Il De tumoribus, in particolare, presuppone le lezioni di pratica medica. Parte di un progetto comprendente altri sei volumi, che non furono mai scritti e di cui possediamo solo i titoli (compaiono nella dedicatoria del libro), il De tumoribus è stato considerato tra le opere maggiori dell'Ingrassia. L'obiettivo era ambizioso: una classificazione delle enfiagioni, da collegarsi a una critica del conformismo ripetitivo della medicina accademica. Questo secondo scopo è perseguito attraverso lo svecchiamento di opinioni obsolete mediante il metodo filologico, verificato con il mezzo della pratica autoptica, che assume così il compito di eliminare negli auctores quanto contrasti con l'esperienza. Tutto ciò si avvale di descrizioni particolareggiate dell'oggetto esaminato e di enumerazioni che seguono le prescrizioni dell'Organon aristotelico. Ma dietro tali suddivisioni, che possono apparire speciose, stanno un rigoroso rispetto delle indicazioni fornite dall'autopsia, la fuga, pur nel quadro di una eziologia legata alla teoria umorale, dal semplice contenuto della tradizione, la ricerca della causa vera del fenomeno per alleviare efficacemente la sofferenza. Questo approccio permette una magistrale descrizione e la diagnosi differenziale delle principali malattie esantematiche (tra le quali la scarlattina, ben individuata dall'I.), nonché l'illustrazione degli effetti di patologie infettive sui tessuti nervoso e osseo, negati dagli auctores.
La morte di Pedro de Toledo nel 1553 spinse l'I. a prendere in considerazione la possibilità di lasciare Napoli. L'occasione gli fu offerta dalla volontà del viceré di Sicilia Juan de Vega di dotare Palermo di una scuola regolare di medicina. Il 2 ott. 1553 il viceré prospettò in una lettera ai senatori di Palermo i vantaggi che la città avrebbe avuto ingaggiando l'I. come lettore di medicina. Circa un mese dopo, il 6 novembre, il Consiglio civico deliberò la sua chiamata, cui seguì, nel gennaio 1554 la nomina a lettore ordinario di medicina teoretica e pratica. Le energie dell'I. si indirizzarono tuttavia anche verso altre attività. Pur non disponendo di un titolo specifico, assunse il compito di riordinatore dell'esercizio della professione sanitaria in Sicilia. Pare certo, infatti, che sia stato lui l'ispiratore della prammatica De medicis rite probandis, emanata il 7 giugno 1554 dal viceré, con la quale si prescrisse, a proposito della durata e dell'organizzazione del curricolo formativo dell'aspirante medico, il rispetto del dettato delle costituzioni melfitane del 1231 (tre anni di logica e cinque anni di medicina e chirurgia) e si introdusse un periodo di apprendistato di un anno per ricevere la licentia practicandi.
Il precisarsi degli interessi dell'I. anche nella direzione di tematiche di medicina sociale è testimoniato dal Trattato assai bello e utile di doi mostri nati in Palermo… Aggiontovi un ragionamento fatto in presenza del magistrato sopra le infermità epidemiali e popolari successe nell'anno 1558 in detta città (Palermo, G.M. Mayda, 1560).
In esso, oltre alle descrizioni di varie malformazioni congenite, per le quali l'I. è stato indicato come un antesignano della moderna teratologia, è un preciso quadro delle febbri malariche che infierirono a Palermo nel 1558 con l'aspetto di una vera epidemia, per il cui controllo l'I. propose misure di igiene pubblica, tra le quali il prosciugamento di paludi circostanti l'abitato.
A quanto sembra, tra il 1554 e il 1561 l'I. fu immatricolato fra gli ufficiali dell'Inquisizione siciliana: la copia seicentesca di un documento risalente al gennaio 1561, la Matricula de los oficiales, familiares de la Sancta Inquisición del Reyno de Sicilia, lo elenca infatti nell'organigramma del S. Uffizio di Palermo. Tale adesione favorì, probabilmente, la nomina a protomedico di Sicilia nel 1563. Il nuovo ufficio gli permise di proseguire e di ampliare la sua opera di riformatore, ma allo stesso tempo gli rese particolarmente gravosi i compiti di insegnamento, tanto che, pur continuando a tenere le letture di medicina, richiese e ottenne di poter associare in queste un suo allievo, F. Bisso.
La carica di protomedico fu rivestita dall'I. con notevole energia e severità. Si fece tra l'altro promotore della pubblicazione di una raccolta di disposizioni sanitarie emanate dai re normanni, da Federico II e dai sovrani aragonesi di Sicilia, risalente al XV secolo. L'I. riordinò il manoscritto, vi aggiunse nuovi regolamenti, fornendo delucidazioni su quelli antichi, e lo diede alle stampe con il titolo di Constitutiones et capitula, necnon iurisditiones regii protomedicatus officii, cum pandectis eiusdem, reformatae ac in pluribus renovatae atque elucidatae (Palermo, G.M. Mayda, 1564). Oltre a elencare le norme per il riconoscimento dei titoli di esercizio delle diverse professioni mediche e per il regolare funzionamento delle farmacie, il libro contiene un minuzioso tariffario professionale, nonché tutta una serie di misure contro ciarlatani e speculatori. Significative sono le disposizioni relative all'obbligo di aggiornamento professionale, sotto forma di corsi bimestrali da frequentarsi ogni quinquennio, a Palermo o a Messina, incentrati su lezioni di anatomia e dissezioni. Quasi un'appendice alle Costitutiones fu un trattato di polizia veterinaria, il Quod veterinaria medicina formaliter una eademque cum nobiliore hominis medicina sit, materiae duntaxat dignitate seu nobilitate differens… (ibid. 1564), nel quale l'I. fece discendere dalla constatazione dell'universalità del sapere anatomo-patologico, e quindi dell'uguaglianza qualitativa tra clinica umana e clinica animale, l'affermazione di un dovere di pubblica sorveglianza su quanti si dedicavano alla medicina veterinaria.
Pur assorbito dalla sua funzione pubblica, l'I. riuscì in questi anni a preparare per la stampa anche un altro paio di opere, la Quaestio de purgatione per medicamentum atque obiter etiam de sanguinis missione an sexta morbi die fieri possint… (Venezia, A. Patessi, 1568) e il De illustris. marchionis Piscariae morbo ac morte (Napoli, G. Cacchi, 1572).
Concepiti oltre che come narrazioni di alcuni casi da lui affrontati (per quello di G. Tagliavia d'Aragona, duca di Terranova, oggetto della Quaestio, l'I. richiese e ottenne la consulenza via lettera di specialisti famosi, tra i quali A. Vesalio), anche come trattazioni sull'uso abnorme del salasso e di pozioni medicamentose a base di guaiaco nella cura di diverse patologie, i due libri testimoniano la spregiudicatezza nell'uso di specifici che caratterizzò l'operato da clinico dell'Ingrassia. Intanto, nel luglio 1569, iniziò la stesura, protrattasi fino al 1578, di una serie di relazioni medico-legali per la Magna Curia criminale. Il manoscritto Methodus dandi relationes pro mutilatis, torquendis aut a tortura excusandis…, copiato nel 1632 dal pronipote F. Garsia, è stato edito a Catania, per cura di G. Curcio, nel 1914 e nel 1938. Tra gli argomenti trattati (la metodologia da seguire nello stendere le relazioni per il magistrato penale; la determinazione della primogenitura nei parti plurigemellari; gli aspetti medico-legali delle mutilazioni derivate da ferite, nonché quelli della tortura giudiziaria; ecc.) spicca la De elephantiasi quaestio, nella quale l'I. denuncia gli abusi ai quali erano sottoposti i lebbrosi, in gran parte dovuti all'ignoranza del decorso del male, e consiglia, sulla base di una distinzione tra quattro gradi di contagiosità della malattia, il loro allontanamento dalla società solo negli stadi estremi.
Nel 1575 l'I. si trovò a dover fronteggiare la fase siciliana di una terribile epidemia di peste. Forse importata dalla costa africana (da Tunisi secondo alcuni, o da Alessandria d'Egitto, per mezzo di una nave schiavista che approdò prima a Sciacca, poi a Palermo e a Messina, secondo l'I.), o forse endogena (l'I. testimonia che focolai erano presenti nelle campagne dell'isola in precedenza), l'epidemia colpì violentemente la città di Palermo, flagellandola per più di un anno. Per decisione del viceré, i poteri dell'I. furono ampliati attraverso la sua nomina a consultore sanitario di una deputazione generale di pubblica salute, costituita per la crisi. In tale veste, l'I. attuò una politica di rigido isolamento per evitare la diffusione del contagio. Impegnò la deputazione a provvedere di lazzaretti la città; ordinò che si tenessero separati i malati dai convalescenti, e che questi ultimi fossero dimessi dall'isolamento solo dopo due mesi dalla scomparsa della febbre; promosse la quarantena per le navi che arrivavano nel porto; ostacolò gli scambi commerciali; proibì, o scoraggiò, tutti gli assembramenti, anche quelli dovuti a riti religiosi; suggerì una durissima repressione (forca, squartamento) per coloro i quali rubavano e vendevano gli abiti degli appestati, destinati a essere inceneriti. Il piano di interventi riuscì a limitare in modo sorprendente gli effetti del morbo: le vittime furono circa 3000 (a Venezia, nello stesso anno, si contarono 60.000 morti).
L'I. lasciò memoria dell'esperienza acquisita durante l'epidemia nell'Informatione del pestifero, et contagioso morbo, il quale affligge et have afflitto la città di Palermo et molte altre città e terre di questo Regno di Sicilia nell'anno 1575 e 1576 (Palermo, G. Matteo Mayda, 1576). Composta di quattro parti (una quinta, con il titolo di Parte quinta… del pestifero et contagioso morbo, apparve ibid. 1577; un'edizione con il titolo Avvertimenti contra la peste, Genova, A. Roccatagliata - M. Bellone, 1579), fu fatta conoscere in tutta Europa da J. Camerarius, che la tradusse in latino (Synopsis… commentariorum de peste… auctoribus Hieronymo Donzellino, Iohanne Philippo Ingrassia, Caesare Rincio, Ioachimo Camerario, Norimberga, C. Gerlach - Err. I. Montanus, 1583). Da essa risulta che la convinzione teorica ispiratrice degli interventi, raggiunta per mezzo di un'analisi a un tempo comparativa e distintiva dei diversi mali epidemici, consisteva nell'opinione che il contagio avvenisse per fomite e per contatto. Da qui il concentrarsi dell'azione nell'isolamento dei malati e nella distruzione del fomite, interrompendo, in effetti, la meccanica della trasmissione. Puntuale è, inoltre, la descrizione del decorso e dei segni rivelatori della malattia.
L'I. morì a Palermo il 6 nov. 1580.
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