DONDI DALL'OROLOGIO, Giovanni
Nacque a Chioggia (prov. di Venezia) intorno al 1330, secondogenito del medico Iacopo e della nobile Zaccarota di Daniele Centrago.
Le origini della famiglia sono tuttora oscure, anche se prevale la tesi di un ceppo, bolognese e di un ramo trasferito a Padova tra il 1275 e il 1320. A Padova nacque probabilmente Iacopo, che rivendica in ogni caso la sua "Patavinita" nell'Aggregator. Anche il D., che pure nacque senza dubbio a Chioggia e vi visse a lungo, preferì obliare i legami con essa e scegliere invece come patria la città prediletta dal padre: in tutte le opere si disse infatti o de Padua".
Il suo primo maestro di medicina fu il padre, che teneva una scuola frequentata non solo da giovani del luogo ma anche da forestieri: tra i condiscepoli il D. ricorda infatti lacopino da Angarano di Vicenza, Giovanni da Venezia, Rocco da Belluno. Negli anni della formazione medica il D. tentò anche le prime prove pòetiche, indirizzando ai compagni sonetti d'occasione e d'amicizia (ediz.: Daniele, III, XII, XVI).
Dopo il 1342 la famiglia del D. si trasferì a Padova, dove Iacopo cominciò il suo insegnamento universitario. Secondo uno dei primissimi biografi, il suo discendente Francesco Scipione Dondi dall'Orologio, il D. nel 1349 sarebbe stato chiamato a Praga dall'imperatore Carlo IV come suo medico personale; la notizia, non documentata, non trova però conferme. I documenti d'archivio pubblicati dal Gloria permettono invece di seguire gli esordi del giovane D. nella vita pubblica e nel mondo universitario: il 30 genn. 1354 egli fu emancipato dalla patria podestà e prima del 12 agosto consegui la laurea in medicina. In settembre sposò Giovanna di Reprandino Dalle Calze, da cui ebbe cinque figli: Iacopo, morto prima del 1428, Orsola, che nel 1378 sposò Iacopo Camposampiero, Iacopa, che nel 1379 sposò Rimondo di Solimano, Dorotea e un'altra figlia, morta prima del 1378. Nello stesso anno 1354 egli cominciò probabilmente anche il suo insegnamento nello Studio padovano e divenne membro del Collegio dei dottori in arti e medicina, cui risulta già ascritto il 12 apr. 1355. Dai titoli delle sue prolusioni accademiche, perdute, sappiamo che nell'anno 1356-57 lesse la Tegni di Galeno, nel 1359-60 il primo libro del Canone di Avicenna, nel 1360-61 gli Aphorismi di Ippocrate. Nel 1359-60 egli insegnò anche l'astrologia: tenne infatti una Colatio in principio lecture tractatus De sphera mundi, ossia del testo del Sacrobosco usato agli inizi del curriculum di quella disciplina. Il 12 febbr. 1361 fu inoltre abilitato all'insegnamento della logica. Dai titoli dei suoi sermoni, pure perduti, e dai documenti del Gloria conosciamo i nomi di alcuni suoi studenti: Martino da Como, Arnaldo da Milano, Beltrame da Erba, Andrea da Como, Rainaldo da Trento, Giovanni di Pietro, medico, da Venezia. La laurea del mantovano Graziadeo Bonaguida dalla Cavriana, avvenuta nel 1361, è l'ultima testimonianza del suo insegnamento padovano.
Come lacopo anche il D. affiancò alla lettura della medicina e dell'astrologia una intensa attività di ricerca e di progettazione. Il suo capolavoro fu l'Astrarium, un complesso orologio astronomico che costituì una delle più importanti macchine di tutti i tempi. Secondo Filippo di Mézières, cancelliere del re di Cipro, ne Le songe du vieil pèlerin (1389), il D. lo avrebbe ultimato nel 1364 dopo esservisi dedicato per sedici anni, cioè dal 1348.
Tale datazione è stata accolta da tutti gli studiosi, finché E. Poulle, preparando l'edizione critica del Tractatus astrarii, la minuziosissima descrizione della macchina curata dallo stesso D., non ha rilevato che tutte le informazioni astronomiche si riferiscono al 1365, non al '64, e soprattutto che il 1365 non fu l'anno della stesura del Tractatus, bensì l'anno in cui il D. iniziò i calcoli propedeutici alla costruzione dell'orologio: per esso il Poulle propone dunque la datazione 1365-1381.
L'influenza esercitata sull'Astrarium da lacopo, che sembra avesse realizzato nel 1344 un orologio pubblico, fu uno dei punti salienti di una annosa e fervida querelle, iniziata dai biografi settecenteschi e culminata nell'ultimo quarto del secolo scorso nei divergenti contributi di Andrea Gloria e Vincenzo Bellemo. Secondo quest'ultimo niente prova che Iacopo abbia costruito un orologio e l'unico orologio che diede nome e soprannome alla famiglia ed accreditò leggende fu l'Astrarium; secondo il Gloria, al contrario, tutti gli indizi sono a favore di Iacopo e vari documenti attestano che il soprannome fu dato all'intera famiglia almeno. dal 1354. Sebbene la tesi del Gloria sia oggi comunemente accettata, pure rimangono vari punti oscuri; e nessuno tra i molti studiosi del D. ha in alcun modo approfondito la ricerca: in particolare nella sua descrizione dell'astrario il D. non fa il minimo riferimento ad una precedente opera del padre.
Pur senza riaprire la questione, un recente studio di A. Belloni offre però nuovi contributi sulla genesi dell'opera e fa soprattutto luce su un periodo della biografia del D. finora lacunoso, gli anni cioè che vanno dalla fine del primo insegnamento padovano, nel 1361, alla sua chiamata a Firenze nel 1367. Tra il 1362 e il 1365 sappiamo ora invece che il D. insegnò nel nuovo Studio di Pavia, fondato dall'imperatore Carlo IV il 13 apr. 1361 e protetto da Galeazzo Visconti, che ne impose la frequenza agli studenti dello Stato di Milano, proibendo loro di passare ad altre università. Testimonianza del suo insegnamento sono soprattutto i titoli dei sermoni di quegli anni, riguardanti solo studenti milanesi e comaschi: prima di tutti, nel 1362, Pietro Maineri, che come figlio dei famoso Maino, medico visconteo e probabilmente anche professore a Pavia, non avrebbe certo potuto laurearsi altrove, poi Agostino da Como, Giacomo da Milano, Domenico dal Piemonte, residente però a Milano.
La presenza del D. a Pavia suggerisce alla Belloni l'ipotesi che egli vi fosse stato chiamato da Galeazzo Visconti proprio come astrologo, e soprattutto affinché ultimasse colà la sua prodigiosa opera, probabilmente destinata al Castello che si andava allora costruendo. La ricostruzione della Belloni è però incompatibile con la datazione dell'astrario agli anni 1365-1381 sostenuta dal Poulle. La fondazione dello Studio offrì poi al D. l'occasione di continuare a Pavia l'insegnamento interrotto a Padova, ma anche più tardi, negli anni 1379-88, il suo nome non fu mai inserito nei rotuli degli stipendi dei professori, poiché egli doveva mantenere l'originario stipendio di astrologo e di medico del principe.
Il primo soggiorno pavese del D. fu intervallato da frequenti ritorni a Padova e da un viaggio a Venezia nell'autunno 1363, durante il quale egli tenne una disputa nel Collegio dei medici. Nel 1366 tornò stabilmente a Padova e vi riprese l'insegnamento, dapprima per il solo 1366-67 poi per il periodo 1368-79. Nel 1367 presentò al dottorato l'amico Giovanni dall'Aquila, che coronava con la laurea una carriera illustre: era stato infatti allievo di Gentile da Foligno a Perugia, medico del re d'Ungheria, medico all'Aquila.
Nello stesso anno, il 17 settembre, il D. fu chiamato ad una lettura biennale di medicina nello Studio di Firenze, col salario eccezionale di 300 fiorini l'anno. Una malattia ritardò però la partenza fino al 23 gennaio dell'anno seguente. Sulla via di Firenze, il D. tenne a Bologna una disputa ed iniziò il corso sul primo libro del Canone solo in febbraio. Durante questo soggiorno conobbe il Boccaccio e ne divenne amico ed ammiratore.
A Firenze rimase però un solo anno, poiché dal 9 nov. 1368 fino a tutto il 1369 risulta presente a Padova, assiduo alle riunioni del Collegio dei medici e incaricato della riforma degli statuti universitari, insieme coi colleghi Giovanni Santasofia e Niccolò da Rio; nel 1370 presentò alla laurea due studenti di Chioggia, Niccolò e Cristoforo.
Svolse anche importanti incarichi diplomatici. Nel 1370 andò a Belluno per sondare le posizioni della città in merito ad una temuta guerra tra Padova e Venezia. Essa scoppiò infatti nel 1372, ma si tentò di porvi fine con un arbitrato bilaterale. Il D. fu uno dei cinque arbitri eletti dai Padovani e, poiché la controversia riguardava soprattutto i confini verso Cavarzere e Chioggia, egli ritenne opportuno esibire una pianta del territorio padovano realizzata da suo padre e particolarmente attenta proprio alla topografia di quelle zone. La consultazione della pianta - secondo una cronaca carrarese coeva - finì però per avallare le rivendicazioni di Venezia e per mettere in cattiva luce il D. presso Francesco il Vecchio. L'arbitrato falli; e il Carrarese riprese la guerra con l'alleanza del re d'Ungheria dopo aver consultato i cittadini più ragguardevoli: tra essi ancora il D., che giustificò la ripresa belligeranza nel sonetto "Se la gran Babilonia fu superba" (ediz. Daniele, X).
Durante il secondo periodo padovano il D. divenne il medico curante ed uno degli amici più cari del Petrarca, che dal 1370 si era stabilito ad Arquà. Ostile ai medici fin dalle polemiche ed invettive contro gli archiatri di Avignone e gli averroisti veneziani, il Petrarca osteggiò anche i dettami terapeutici del D., che gli sconsigliava soprattutto il digiuno, l'acqua e la frutta, ma apprezzò moltissimo la sua amicizia e la sua cultura, come il D. stesso ricorda nella prima lettera a Guglielmo Centueri, futuro vescovo di Pavia. In data imprecisata, ma probabilmente nei primi tempi del soggiorno del poeta ad Arquà, il D. gli confidò le sue pene d'amore nel sonetto "Io non so ben s'io volia quel ch'io volio" (ediz. Daniele, IV), cui Petrarca rispose col suo sonetto CCXLIV.
Nonostante l'amicizia col Petrarca e l'ammirazione per il suo pensiero come filosofo morale, il D. fu però anche corrispondente ed amico affettuoso del medico Guido da Bagnolo da Reggio Emilia, uno dei quattro intellettuali veneziani che avevano polemizzato col poeta, ispirandogli il De sui ipsius et multorum ignorantia. P. O. Kristeller, Il Petrarca, l'Umanesimo e la Scolastica a Venezia, in La civiltà veneziana del Trecento, pp. 149-178, ripubblicato in P. O. Kristeller, Studies in Renaissance thought and letters, II, Roma 1985, p. 233, pubblica infatti una lettera del 26 dic. 1366, ed individua proprio nel D. il rappresentante di una cultura scolastica capace di conciliarsi con gli studia humanitatis.
La corrispondenza tra il D. e il Petrarca è costituita da due lettere del primo, pubblicate dal Bellemo, e da quattro lettere Seniles del secondo (Basileae 1581). Nelle Sen., XIIi del 13 luglio 1370 (ediz. A. Petrucci, Padova 1968, pp. 40-50) e ii del 17 dic. 1370 il Petrarca ridiscuteva a lungo sulla vanità della medicina, sulla rassegnazione alla vecchiaia, alla malattia e alla morte e sull'opportunità della vita sobria, rifiutava i precetti del D. e distingueva in lui l'amico, con cui concordava in tutto, dal medico, dal quale dissentiva invece radicalmente. Il D. difese l'efficacia della sua scienza nella lettera del 24 ott. 1370 (ediz. Bellemo, pp. 295-310, e riedita in parte dal Kristeller, pp. 234-238) e il Petrarca gli inviò ancora rapide comunicazioni sulla sua salute e nuove attestazioni d'affetto nelle brevi Sen., XIIIxiv-xv. Nella lettera (Sen., XVIiii) al medico Francesco da Siena il poeta riconosceva però che il D., sia pure dopo dispute quasi quotidiane, aveva ormai accettato di visitarlo più come amico che come medico, ed ancora si rammaricava che proprio la medicina trattenesse da maggiore gloria un tale uomo. Il D. pianse la morte del Petrarca nella lettera a Giovanni dall'Aquila del 19 luglio 1374 e nel sonetto "Nel sommo cielo con eterna vita" (ediz. Daniele, XI).
Delle opere del Petrarca il D. possedette - come risulta dall'inventario della sua biblioteca - il De vita solitaria e un altro titolo non precisato (Lazzarini, Ilibri..., p. 268 n. 132; p. 266 n. 821); e dalla biblioteca del poeta egli fece trascrivere la nota obituaria di Laura del Virgilio ora all'Ambrosiana, e due testi del comune amico Boccaccio, il De vita et moribus domini Francisci Petrarche, che a Pavia trasmise poi all'agostiniano Pietro da Castelletto, uno dei primi biografi del poeta, e i Versus ad Affricam. Intorno al 1383, prima cioè che la biblioteca del Petrarca passasse dai Carraresi ai Visconti, trascrisse anche il De architectura di Vitruvio e la Naturalis historia di Plinio.
Il 4 luglio 1371, in tempo di peste, il D. fece testamento "volens ad partes Lombardie transmigrare" (cfr. Belloni, p. 3C: il nuovo soggiorno a Pavia fu comunque brevissimo perché il 25 febbr. 1372 egli inviava da Padova al collega pavese Albertino da Salso i propri sermoni accademici. Il suo secondo insegnamento padovano durò, fino al 1379 e fu intervallato da un solo breve viaggio a Roma, per la Pasqua probabilmente del 1375, descritto nell'IterRomanum. Nel 1376 preparò insieme coi colleghi Giacomo dall'Aquila e Giovanni Santasofia una nuova redazione, finora ignota, degli statuti del Collegio dei dottori in arti e medicina (D. Gallo, Statutiinediti del Collegio padovano dei dottori d'artie medicina: una redazione quattrocentesca, in Quaderni per la storia dell'Università diPadova, XXII [1989], in corso di stampa). Prima del novembre 1378 Giovanna Dalle Calze morì; e il 30 luglio 1379 il D. si risposò con Caterina di Gerardo da Tergola. Ebbero quattro figli maschi: Iacopo e un altro, di cui non conosciamo il nome, che morirono bambini nella peste del 1383, Gian Galeazzo (1380-ante 1428), che nel 1404 sposò Nobile, figlia del grande medico padovano Marsilio Santasofia, e Gabriele (1382-post 17 ag. 1428: Archivio di Stato di Padova, Archivio notarile. Tabularium, XVI/17, ff. 167r-168r).
Il D. si trasferì definitivamente a Pavia nel 1379, quando Gian Galeazzo lo chiamò a curare suo figlio Azzone. Nelle prime lettere pavesi agli amici Paganino Sala, Arsendino Arsendi e Andreolo Arisi e nel sonetto "Poy che fortuna fa 'l corpo lontano" (ediz. Daniele, XIII) egli progettava ancora di ritornare a Padova e conservò sempre rapporti coi colleghi dello Studio padovano, tanto che il 18 apr. 1386 figurava ancora come promotore, benché assente, alla laurea in medicina di Domenico Dalla Chiesa da Venezia. Dal 1379 fino alla morte insegnò però stabilmente a Pavia, percependo a titolo non di professore, ma di medico di corte e di astrologo, un salario di 2.000 fiorini annui.
Secondo la tradizione biografica il D. sarebbe morto a Genova, dove si era recato a curare il doge Antoniotto Adorno, nel febbraio 1389. La notizia è ora però confutata da un documento segnalato dalla Belloni, da cui risulta che egli morì ad Abbiategrasso il 19 ott. 1388 e che fu sepolto a Milano in S. Eustorgio.
Solo più tardi dunque il corpo fu trasportato a Padova e sepolto nel muro esterno del battistero, accanto all'arca del padre: l'epitaffio, perduto, era infatti datato 27 sett. 1390. L'inventario dei suoi beni, curato dalla vedova il 22 giugno 1389, rivela una solida ricchezza: almeno un centinaio di "campi", tutti nel Padovano, un mulino, abbondanza di argenti e vesti sontuose e una biblioteca di 110 titoli, per lo più testi di medicina e astrologia e classici (cfr. Lazzarini, pp. 252-273).
Il D. fu autore di varie opere mediche e letterarie; ma la sua fama è legata soprattutto alla realizzazione dell'Astrarium, l'orologio astronomico di cui lasciò anche una dettagliata descrizione con disegni, il Tractatus astrarii o Planetarium. Nel proemio del Tractatus il D. afferma di aver ideato la sua macchina per dimostrare che Aristotele e Avicenna non erravano nel descrivere i moti dei corpi celesti e precisa di essersi attenuto alla Theorica planetarum di Campano da Novara, testo della seconda metà del Duecento che costituì la prima esposizione occidentale del sistema tolemaico e che offriva anche specifiche istruzioni per la costruzione di equatoria, strumenti per il calcolo meccanico delle posizioni dei pianeti. L'Astrarium realizzò infatti i due principi su cui Campano aveva fondato lo sviluppo degli equatoria: la scomposizione geometrica dei vari luoghi e la rappresentazione di ciascun pianeta come un elemento meccanico indipendente; inoltre distinse i movimenti planetari dal movimento quotidiano, riproducendo i primi a zodiaco fisso e riservando al secondo quadranti a parte.
La macchina del D. si presentava come una torre a sette facce divisa verticalmente in due sezioni: quella inferiore ospitava il motore a scappamento destinato ad azionare ogni parte della macchina, costituito da una ruota orizzontale a 365 denti incentrata sull'asse della torre e ruotante in ragione di un anno comune e da altre ruote verticali di 60 0 72 denti ingrananti con essa. Le facce inferiori della torre erano occupate da un quadrante orario, un quadrante per le feste liturgiche fisse, un terzo per le mobili e infine un quadrante del dragone, ossia dei nodi o opposizioni del Sole e della Luna. La sezione superiore era invece l'orologio planetario e le sette facce esponevano, nell'ordine, i quadranti del Sole congiunto al Primo Mobile e di Venere, Mercurio, Luna, Saturno, Giove e Marte. Ogni quadrante offriva una precisa trasposizione meccanica della teoria epiciclica: nel quadrante fisso con zodiaco ed equante graduati si muoveva infatti il cerchio dell'epiciclo, sul quale era raffigurato il corpo del pianeta. Il cerchio del deferente era reso tramite l'associazione di un anello mobile che girava concentricamente al cerchio fisso dell'equante, muovendo l'asse dell'efficiclo, con un regolo del deferente, che manteneva tale asse a distanza costante dal centro del deferente. Un altro regolo centrato sul centro dello zodiaco e passante per il corpo del pianeta ne indicava la posizione sullo zodiaco. Ogni quadrante riproduceva dunque sia il movimento del pianeta sul suo epicielo sia il movimento del centro dell'epiciclo attorno al centro del mondo sul deferente. Le peculiarità e le irregolarità delle teorie di ciascun pianeta, in particolare di Mercurio e della Luna, e il meccanismo composto del movimento quotidiano del Sole erano riprodotti attraverso rotismi complessi, ora analizzati dal Poulle. Capolavoro dell'orologeria planetaria, l'astrario non era meno elaborato e sorprendente dal punto di vista tecnico. Il D. esegui personalmente e descrisse ogni fase della sua realizzazione: si servì di normali strumenti da orologiaio e di misure approssimative tratte dall'uso corrente, forgiò, sembra in sole leghe di rame, 297 pezzi, 107 dei quali erano ruote variamente dentate e pignoni.
L'Astrarium fu uno dei primi strumenti in cui la tradizione araba dei modelli di universo in miniatura, cioè gli astrolabi e gli equatori che costituirono i "protoorologi", si combinò con la nuova tecnologia degli orologi meccanici a ore, diffusi in Europa dagli inizi del Trecento. Macchina astronomica perfetta, fu al tempo stesso un misuratore del tempo, un calcolatore analogico e un ostensore o dimostratore: testimoniò lo sviluppo della tecnica dell'orologeria e favorì la costruzione di nuovi orologi pubblici per palazzi e chiese, permise di leggere senza calcoli i movimenti dei corpi celesti, tradusse in modello meccanico la teoria cosmologica tolemaica.
Fu ammiratissimo dai contemporanei: se la lode riservatagli dal Petrarca nel suo testamento pare un'interpolazione, Giovanni Manzini, maestro nella casa del cancelliere visconteo Pasquino Cappelli, lo descrisse in una lettera al D. stesso (Belloni, p. 39), e ancor più lo elogiarono Filippo di Mézières, gia ricordato, e Uberto Decembrio. Nel secolo seguente fu ammirato dal figlio di Uberto, Pier Candido, che lo visitò a Milano, e fu studiato dal Regiomontano, che ne fece argomento di una sua lezione, e dal Bramante, che ne trasse alcuni disegni. È invece del tutto infondata - come dimostra il Poulle - la pur divulgatissima notizia che Leonardo abbia copiato nel codice L il quadrante di Venere: in realtà i suoi disegni non hanno nulla a che fare coi meccanismi del Dondi.
Verso la fine del Quattrocento il meraviglioso congegno non funzionava però più, nonostante l'impegno degli Sforza per assicurarne la manutenzione, e fu perciò abbandonato in una sala del castello di Rosate. Il suo ultimo ammiratore, nel 1529, fu Carlo V, che ne affidò il ripristino a Gianello Torriano da Cremona, divenuto poi il suo orologiaio personale: di qui la leggenda che l'imperatore portasse con sé l'astrario nel ritiro di Yuste e che esso andasse distrutto durante la guerra franco-spagnola del 1809. In realtà il Torriano ne eseguì una copia e solo essa seguì Carlo V. L'originale, forse smontato, rimase a Milano e quasi sicuramente andò distrutto. Ne esistono però almeno sei ricostruzioni, eseguite sulla base della descrizione del Dondi. Degne di menzione sono la prima, curata nel 1960 da H. A. Lloyd con la collaborazione di vari tecnici per il Museum of history of technology della Smithsonian Institution di Washington, la seconda, eseguita nel 1963 dall'orologiaio milanese Luigi Pippa per il Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano, e soprattutto la più recente, a grandezza reale, promossa dal Centro internazionale di storia dello spazio e del tempo di Brugine nel quadro delle manifestazioni per il centenario del D. del 1989 e realizzata presso l'Observatoire di Parigi da un'équipe pluridisciplinare coordinata scientificamente dal Poulle. Lo stesso Poulle sta ora curando l'edizione critica della descrizione dell'astrario. I dodici mss. che ne costituiscono la tradizione sono ricondotti dallo studioso a tre diverse versioni (A, B e C), differenziate non solo nella formulazione del testo, ma anche nelle soluzioni tecniche in esso contenute. La versione A, conservata nell'autografo Padova, Bibl. capitolare, ms. D 39, e in un altro ms. padovano copiato da esso, spetta sicuramente al D.; le versioni B e C rappresentano riscritture della A, e non è ancora chiaro che parte il D. vi abbia avuto. Il Poulle ha fornito finora l'edizione critica della versione A (Padova-Parigi 1988), con facsimile a colori del ms. della Capitolare di Padova e traduzione francese (Padova-Parigi 1987: i due volumi, in tre tomi, inaugurano gli "Operaomnia Jacobi et Johannis de Dondis" promossi da Centro di Brugine).
Se la realizzazione dell'astrario fu al centro della vita del D. e se alla corte dei Visconti egli fu apprezzato - sembra soprattutto come astronomo, gran parte della sua carriera fu però dedicata all'insegnamento e alla pratica della medicina. Per le inaugurazioni degli anni accademici e per il conferimento dei gradi egli tenne tra il 1356 e il 1388 una serie di ventinove Sermones e Colationes che dovettero essere molto apprezzati: Albertino da Salso, suo collega a Pavia, gliene chiese infatti una copia, che ottenne il 25 febbr. 1372. Purtroppo la collezione è perduta. Ne rimangono solo i titoli, trascritti dall'erudito padovano Francesco Dorighello nel manoscritto di Padova, Bibl. civica, 938 (del sec. XVIII), p. 143, e pubblicati dal Gloria e. con qualche discrepanza, da D. Vandelli, Tractatus de thermis agri Patavini, Patavii 1761, p. 59. Sopravvive il testo di un unico sermone, il Sermo in conventu magistri Iohannis ab Aquila in medicina 1367, già ricordato, conservato anepigrafo e senza data nel manoscritto di Parigi, Bibl. nationale, Lat. 9637, sec. XIV (cfr. G. Fransen-D. Maffei, Harangues universitaires du XIVe siècle, in Studi senesi, LXXXIII [1971], pp. 11-12), mentre alcuni passi della disputa bolognese del 1367 furono riportati nella memoria di Francesco Scipione Dondi dall'Orologio.
Perduti dunque i sermoni, la testimonianza più interessante dell'insegnamento medico del D. è costituita dalle inedite ventiquattro Quaestiones super libris Tegni discusse a Padova probabilmente agli esordi della sua carriera, nel 1356, quando egli lesse appunto la Tegni, e riunite sotto le sue cure nel manoscritto di Parma, Bibl. Palatina, Parmense 1065, ff. 329r-346r, iniziato nel 1370 dallo studente pavese Tommaso da Crema.
Alla lettura di Galeno il D. dedicò anche un'altra opera, ora perduta, che egli ricorda nell'epistolario come "tractatulum Galieni occultam seriem explicantem in distinctione dispositionum corporum humanorum, quorum in libro Microtegni sub brevitate restrinxit reales differentias inter illas, preterquani in paucis assignatum" (cfr. Belloni, p. 25 nota 27): esso doveva riguardare, forse, il De complexionibus. Composto a Pavia probabilmente durante la peste del 1383, fu dedicato ai professori di medicina di Padova ed inviato loro l'anno seguente.
Dopo la peste del 1383 il D. scrisse anche un trattatello pratico, il De modo vivendi tempore pestilentiali, edito da K. Sudhoff, Pestschriften aus den ersten 150 Jahren nach der Epidemie des "Schwarzen Todes" 1348, in Archiv für Geschichte der Medizin, V (1911), pp. 351-354, e nella versione volgare da F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1866, pp. 440-442.
Come tutti, o quasi tutti, i medici del Trecento il D. aderisce alla teoria della putrefazione atmosferica e propone come rimedio principe l'allontanamento dalla zona infetta. Se esso non è possibile, valgano tutti gli accorgimenti per evitare l'aria mefitica: fuggire i venti orientali e meridionali, proteggere le finestre delle case, non uscire durante il giorno, bruciare legni secchi e odorosi, adeguare la dieta alla complessione fisica, abbondare d'aceto, acqua di rose, altre sostanze profumate, amuleti e spugne imbevute, mantenere una disposizione d'animo equilibrata. Sebbene nessuna di tali norme sia nuova, pure l'operetta è caratterizzata da chiarezza ed efficacia e da spirito di osservazione.
All'attività pratica del D. si ricollegano infine gli Experimenta, ossia ricette mediche, conservati nel manoscritto di Padova, Bibl. civica, C.M. 172, finito di scrivere nel 1453 da Iohannes de Livonia, ff. 194r-198r.
Come i maggiori medici del suo secolo, anche il D. completò lo studio dell'astrologia e della medicina con quello della scientia naturalis. Nel De fontibus calidis agri Patavini, dedicato all'amico Iacopino da Angarano, conservato nel manoscritto autografo di Padova, Bibl. del Seminario, ms. 358, ed anche nel manoscritto di Milano, Bibl. Ambrosiana, H 107 sup., ff. 170r-188v, scritto nel 1429 e pubblicato nella collezione giuntina, De balneis omnia quae extant apud Graecos, Latinos et Arabas, Venetiis 1553, cc. 94r-108v, riaffrontò un problema già trattato da suo padre Iacopo, ossia l'origine delle acque termali, ma ne diede un'interpretazione innovatrice. Mentre Iacopo aderiva infatti all'opinione generale che il calore delle acque fosse causato dal loro passaggio per miniere sotterranee di zolfo, il D. confutò tale tesi, obiettando che per essa tutte le acque termali avrebbero dovuto essere anche sulfuree e calde per natura, e dimostrò, in accordo coi principi dei libri naturali aristotelici, che è invece il calore del suolo l'agente che rende actualiter calde le acque, per loro natura fredde. Pur con preciso riferimento agli studi del padre, egli spiegò così in modo nuovo i fenomeni che si verificavano nel territorio di Abano, distinse le fonti di Abano da quelle di Sant'Elena, illustrò la natura e le prescrizioni terapeutiche dei fanghi e concluse con una serie di consigli ai pazienti.
L'interesse per il D. astronomo e medico è piuttosto recente e più che per l'originale personalità di scienziato egli è stato finora studiato soprattutto per la sua amicizia col Petrarca e per i legami con la cerchia petrarchesca veneto-toscana. In tale prospettiva prosopografica i suoi apporti umanistici sono stati a volte enfatizzati: si è insistito molto, ad esempio, sul fatto che il D. avrebbe trascritto di propria mano in un suo zibaldone - l'attuale Ms. lat. XIV 223 (4340) della veneziana Bibl. naz. Marciana - sia le proprie opere letterarie sia le letture preferite, rappresentate in primis da rime del Petrarca e poi da rime di Giovanni Quirini, Francesco di Vannozzo, Antonio Beccari e dei preumanisti padovani, e dai due contributi petrarcheschi del Boccaccio già ricordati. In realtà il Marc. lat. XIV 223 non è affatto autografo, come hanno recentemente dimostrato N. W. Gilbert e la Bellopi, e più che le scelte del D. sembra rispecchiare una certa tradizione di famiglia, inaugCirata probabilmente da Iacopo. Esso conserva in ogni caso l'intera opera letteraria del D., costituita dall'IterRomanum, dall'epistolario e dalle rime (cfr. la descrizione di .C. M. Monti, Per la fortuna della "Questio de prole": i manoscritti, in Italia medioevale e umanistica, XXVIII [1985], pp. 74-79).
Edito da G. B. De Rossi, Inscriptiones christianaeurbis Romae septimo saeculo antiquiores, II, 1, Romae 1888, pp. 329-334, l'Iter è il testo che meglio rispecchia l'impegno umanistico del D. e il suo stretto legame, tipico dell'ambiente padovano, con la conoscenza scientifica. Egli non si limitò infatti a piangere sulle rovine della romanità, come il Petrarca, né a sceglierne le opere d'arte più belle, come Lombardo Della Seta, bensì cercò di approfondire la conoscenza dell'antichità misurando monumenti e ruderi, indagandone le strutture architettoniche, trascrivendone le iscrizioni. A Rimini visitò l'arco di Augusto, il ponte di Tiberio e due arene; a Roma trasse misure, conteggi di ordini e colonne ed iscrizioni da monumenti diversi quali S. Pietro, S. Maria della Rotonda (il Pantheon), S. Lorenzo in Damaso, la colonna Traiana, S. Niccolò, gli archi di Tito, Costantino e Settimio Severo, S. Paolo, il Colosseo e la tomba di Cecilia Metella. Come per l'Astrarium, così anche per gli edifici usò misure empiriche e non si valse di strumenti. Nella trascrizione delle epigrafi l'inesperienza gli fece commettere vari errori, ma nonostante tutto il suo Iter anticipa una nuova era degli studi archeologici e preannuncia i grandi antiquari del Quattrocento: solo Donatello e Brunelleschi infatti ripresero a visitare Roma con l'animo innovatore e con i metodi scientifici del Dondi.
Temi umanistici e piena adesione ai dettami petrarcheschi caratterizzano anche l'Epistolario, costituito da ventotto lettere. V. Bellemo ne pubblicò le intitolazioni e le due lettere al Petrarca; la seconda lettera al Petrarca e la consolatoria a Giovanni dall'Aquila furono pubblicate da A. Zardo, Petrarcae i Carraresi, Milano 1887, pp. 282-285; la lettera a Guido da Bagnolo, già ricordata, dal Kristeller, Il Petrarca..., p. 233; la seconda lettera al Centueri è edita criticamente e studiata da N. W. Gilbert, Aletter of G. D. d. O. to fra GuglielmoCentueri: a Fourteenth Century episode in the quarrel of the ancients and the moderns, in Viat., VIII (1977), pp. 299-346. Il D. modellò il proprio epistolario su quello del Petrarca, curando egli stesso - come confessa nell'ultima lettera al Cappelli - la raccolta delle missive agli amici. Le epistole affrontano temi cari alla meditazione petrarchesca: nella lunga lettera al Centueri, continuazione di uno scambio di sonetti, egli sostiene, ad esempio, la superiorità degli antichi sui moderni in base ad argomenti - l'insoddisfazione per il proprio tempo, la grandezza morale degli antichi e il declino dei contemporanei - affini a quelli svolti dal Petrarca nella De mutatione temporum del 1367, ed una visione del tutto analoga ritorna nella epistola al Cappelli.
Piccolo canzoniere di cinquanta componimenti (quarantadue sonetti, cinque madrigali e tre ballate), le Rime, conservate nel già ricordato Marc. lat. XVI 223 (4340), furono edite dapprima con molte mende dal Bellemo (1894), poi con ottima cura da A. Medin (Padova 1895). L'edizione di A. Daniele, Vicenza iggo, ripropone quella del Medin, rivista sul ms. Marciano, di cui rispetta rigorosamente l'ususscribendi, emigliorata in varie lezioni e nell'interpunzione. Secondo il Folena (Il Petrarca volgare, p. 180) nelle rime del D., a differenza che nelle epistole, l'influenza petrarchesca è scarsa, o almeno i risultati dell'imitazione sono meno pregevoli che in altri rimatori coevi. La lingua è ancora tardostiffiovistica, con impronte dantesche e citazioni medico-psicologiche, la scelta dei temi si muove tra l'occasionalità giocosa e superficiale dei sonetti giovanili e la riflessione morale piuttosto impacciata delle rime tarde. Pur concordando sulla modestia degli esiti e degli scopi lirici della poesia del D., il Daniele (pp. VII-VIII) ne sottolinea la grande importanza per la storia culturale ed i rapporti scientifici e letterari nell'Italia settentrionale della seconda metà del Trecento. Tra gli interlocutori del D. figurano infatti, oltre al Petrarca, i poeti Francesco di Vannozzo, Gasparo Scuaro Broaspini e forse anche Antonio Beccari da Ferrara, e inoltre illustri letterati e vari medici padovani e veneti.
Tra gli scritti del D. finora non identificati vanno infine annoverate le "quaedani apostillae" a Seneca, Ep. 1, I, 1-2, ricordate nei Commentaria super Epistolas Senecae del manoscritto di Cremona, Bibl. governativa, 128, attribuito a Gasparino Barzizza e datato 1411 da L. A. Panizza, Gasparino Barzizza's Commentaries on Seneca's Letters, in Traditio, XXXVIII (1977), pp. 308-310. La citazione testimonia la partecipazione del D. ad un dibattito letterario che ebbe il suo centro nell'Italia settentrionale e a Firenze ed impegnò unianisti, tra cui il Salutati, e medici, tra cui Marsilio Santasofia, maestri universitari e maestri di grammatica, teologi e giuristi, tra cui Francesco Zabarella (cfr. L. A. Panizza, Textual interpretation in Italy, 1350-1450: Seneca's letter I to Lucilius, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XLVI (1983), pp. 40-62.
Nella formazione del D. e nell'orientamento dei suoi interessi appare fondamentale l'influenza del padre: da Iacopo egli derivò soprattutto la visione del nesso astronornia-medicina, l'interesse ad una conoscenza per numeri e misure capace di tradursi in progettazione, l'apertura alla scientia naturalis, la passione per la poesia e la letteratura e la capacità di conciliarle con la medicina. Resta invece un enigma il rapporto tra il misterioso orologio carrarese di Iacopo e l'orologio planetario del figlio, ma l'astrario è comunque un'opera singolare e geniale, che compendiò in sé la tradizione degli equatoria con la novità degli orologi meccanici a scappamento. Il trattato in cui il D. ne espose la genesi e la struttura fu una delle primissime descrizioni di tali macchine, preceduta solo dal racconto che Richard di Wallingford fece del suo Albion, costruito intorno al 1330 per il monastero di S. Albano nell'Hertfordshire. La descrizione dell'Albion è però perduta e il Tractatus astrarii costituisce una testimonianza insostituibile del rapido sviluppo dell'orologeria e dell'esigenza di meccanizzare gli strumenti astronomici. Sebbene oscurate dall'eccezionalità dell'astrario, anche altre opere testimoniano l'originalità del pensiero scientifico del D.: l'Iter Romanum, anzitutto, per l'approfondimento dei problemi della misurazione, e il De fontibus, per la chiarezza della dimostrazione. Le opere mediche sono ancora pressoché sconosciute e rimane da indagare anche l'influenza che il D. esercitò sugli Studia in cui fu attivo, e soprattutto su Pavia, ma è legittimo. attendere dalle Quaestiones nuovi motivi di interesse. Al contrario, la conclusione ormai indubbia che il Marc. lat. XIV 223 non è autografo distrugge uno dei topoi piùaccreditati nell'interpretazione del D. umanista, il suo ruolo cioè di depositario di una continuità di esperienze poetiche venete, dal preumanesimo padovano e dall'imitazione dantesca del Quirini fino al Petrarca. Che nella poesia egli avesse molta meno parte che nella medicina e nell'astrologia è in realtà confermato dalle sue rime: tuttavia la corrispondenza petrarchesca e altre voci dell'epistolario testimoniano sia la sua riflessione sugli auctores sia l'interesse a condividere ed approfondire temi ed esperienze linguistiche dell'amico poeta, mentre le relazioni con poeti ed umanisti documentate dalle Rime e soprattutto la notizia delle postille a Seneca attestano la sua partecipazione ai principali dibattiti letterari del secondo Trecento.
Fonti e Bibl.: M. Savonarole Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXIV, 15, a cura di A. Segarizzi, p. 38; B. Scardeone, De antiquitate urbis Patavii, Basileae 1560, pp. 206-207; A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, pp. 270, 272; G, Salomonio, Urbis Patavinae inscriptiones, Patavii 1701, p. 27; N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, II, Venetiis 1726, p. 158; I. A. Fabricius, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, Patavii 1754, II, p. 60; I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, II, Patavii 1757, p. 103; F. S. Dondi dall'Orologio, Notizie sopra Iacopo e G. Dondi dall'Orologio, in Saggi scientifici e letterari dell'Accademia di Padova, II, Padova 1789, pp. 469-494; Nuovo Diz. istorico, V, Bassano 1796, pp. 151-152; F. M. Colle, Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova, III, Padova 1825, pp. 181-191; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, I, Padova 1832, pp. 339-344; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., II, Milano 1831, pp. 314-316; S. De Renzi, Storia della medicina ital., II, Napoli 1845, pp. 237-239; A. Valsecchi, Della famiglia Dondi dall'Orologio e specialmente dei due più illustri suoi membri, in Atti dell'Ateneo veneto, s. 3, I (1878), pp. 21-32; G. Urbani de Gheltof, Un amico di F. Petrarca. 1318-1389, in Boll. d'arti, industrie, numismatica e curiosità veneziane, III (1880-81), pp. 58-71; T. Casini, Tre nuovi rimatori del '300, in Il Propugnatore, n. s., I (1888), parte 2, p. 321 n. 115; Monumenti della Univ. di Padova (1318-1405), a cura di A. Gloria, I, Padova 1888, pp. 381-386, nn. 728-735; V. Bellemo, Iacopo e G. de' Dondi dall'Orologio. Note critiche con le rime edite e inedite di G. Dondi, Chioggia 1894; A. Gloria, Idue orologi meravigliosi inventati da Iacopo e G. Dondi, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lett. ed arti, s. 7, VII (1896), 2, pp. 675-736; F. Sartori, La nobile famiglia Dondi Orologio. Alcune date insigni, Padova 1901; R. Maiocchi, Codice diplomatico dell'Univ. di Pavia, I, Pavia 1905, pp. 449-450 sub voce; G. Favaro, Ilettori di matematiche nella Univ. di Padova dal principio del sec. XIV alla fine del XVI, in Mem. e doc. per la storia della Univ. di Padova, I, Padova 1922, pp. 19-21; R. Sabbadini, Giovanni da Ravenna insigne figura d'umanista (1343-1408), Como 1924, pp. 55-56; V. Lazzarini, I libri, gli argenti, le vesti di G. D., in Boll. del Museo civico di Padova, n. s., I (1925), pp. 11-36 (poi in Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 1969, pp. 252-273); G. Tanfani, G. Dondi medico e amico del Petrarca, in Atti e mem. dell'Acc. di storia dell'arte sanitaria, XXXVI (1937), pp. 5-12; G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 343-348; P. Sambin, La guerra del 1372-1373tra Venezia e Padova, in Archivio veneto, s. 5, LXXVI-LXXVII (1948), pp. 11-16; A. Barzon, G. D., introduzione all'edizione del Tractatus astrarii, Città del Vaticano 1960, pp. 1-16; L. A. Ciapponi, Il "Dearchitectura" di Vitruvio nel primo umanesimo, in Italia medioevale e umanistica, III (1960), pp. 88-91; G. Billanovich-F. Čáda, Testi bucolici nella biblioteca del Boccaccio, ibid., IV (1961), pp. 215-216; F. Maddison, in Dictionary of scientific biography, IV, New York 1971, pp. 164-165, s.v. Dondi, G.; N. G. Siraisi, Arts and sciences at Padua. The "Studium" of Padua before 1350, Toronto 1973, pp. 92-93; G. Mardersteig, Iritratti del Petrarca e dei suoi amici di Padova, in Italia medioevale e umanistica, XVII (1974), p. 277 e tav. XXVIII; P. L. Rose, Petrarch, G. de' D. and the humanistmyth of Archimedes, in Petrarca, Venezia e il Veneto, Firenze 1976, pp. 101-108; A. Belloni, G. D., Albertino da Salso e le origini dello Studio pavese, in Boll. della Soc. Pavese di storia patria, n. s., XXXIV (1982), pp. 17-47; G. Bozzolato, Le opere edite e inedite, le fonti e la bibliografia su Iacopo e G. Dondi dall'Orologio, in Boll. del Centro internaz. A. Beltrame di storia dello spazio e del tempo, II (1984), pp. 75-83, ricco di dati ma altrettanto ricco di errori, inesattezze, anacronismi. Per il VI centenario della morte del D. (mantenendo per essa la data tradizionale ed errata del 1389, nonostante la rettifica della Belloni) il Centro internazionale di storia dello spazio e dei tempo di Brugine ha organizzato una mostra, presentandola, insieme con alcuni contributi divulgativi sui D., nel Bollettino del Centro, VI (1988), p. 21-66, che inaugura la nuova serie Scienza e storia, e pubblicandone il catalogo Padua sidus preclarum. I Dondi dall'Orologio e la Padova dei Carraresi, Padova 1989.
Sull'Astrarium: l'edizione critica, già citata, del Poulle, è stata preceduta dall'edizione, con riproduzione fotografica, del ms. della Capitolare di Padova di A. Petrucci (Città del Vaticano 1960) e dalla traduzione in inglese di G. H. Baillie-H. A. Lloyd-[S. Wingate], London 1974, condotta sui manoscritti veneziano e oxoniense e per i disegni sull'etoniano: su essa vedi, però, A. J. Turner, The tragical history of G. de Dondi, in Journal of the history of astronomy, VI (1975), pp. 126-131. Abbondante ma per lo più superficiale, frammentaria e superata, la bibliografia sull'astrario è raccolta in S. A. Bedini-F. R. Maddison, Mechanical universe. The Astrarium of G. deD., in Transactions of the American Philosophical Society, n. s., LVI (1966), parte 5. Gli atti del congresso padovano del 1966 G. D. medico scienziato e letterato (Nel VI centenario della costruzione dell'astrario) sono rimasti inediti, salvo gli estratti anticipati e già paginati di E. Morpurgo, G. D. Lo scienziato e l'uomo, pp. 1-12; M. Medici, L'opera magistrale di G. D. nella meccanica di precisione dell'Evo Medio, pp. 13-31, e S. A. Bedini. Bramante and the de' Dondi's Astrarium, pp. 1-12. L'intera bibliografia sull'astrario è però ora rivoluzionata dai contributi di E. Poulle, Les mécanisations de l'astronomie des épicycles: l'horloge d'Oronce Fine, in Comptes rendus de l'Académie des inscriptions et belles-lettres, 1947, pp. 59-60, e soprattutto Les instruments de la théorie des planètes selon Ptolémée: équatoires et horlogerie planétaire du XIIIe au XVIe siècle, I, Genève-Paris 1980, pp. 511-550; egli ne ha infatti riaffrontato lo studio con le conoscenze scientifiche e i metodi della storia dell'astronomia, demolendo anzitutto errori, pregiudizi e assurdità della letteratura precedente, dovuta ad editori e cultori improvvisati e nei casi migliori a storici dell'orologeria. Tra i contributi più recenti si possono infine ricordare: H. A. Lloyd, Old clocks, London 1970, pp. 171-201; L. White ir., Medical astrologers and We medieval technology, in Viator, VI (1975), pp. 299-300; E. Fenzi, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell'"Africa" del Petrarca, in Giorn. stor. della lett. ital., CLIII (1976), pp. 45-46; C. Maccagni, Le scienze nello Studio di Padova e nel Veneto, in Storia della cultura veneta, III, 3, Vicenza 1981, pp. 85, 141-144. Le Quaestiones sono ricordate da P. Giacosa, Magistri Salernitani nondum editi, Torino 1901, pp. 414-416, che erra però nel ritenerle relative ad Ippocrate. Sul Modus vivendi: E. Morpurgo, Lo Studio di Padova, le epidemie ed i contagi, in Mem. e doc. per la storia dell'Univ. di Padova, I, Padova 1922, pp. 115-116; Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1980, p. 35. Sull'Iter Romanum: J. Morelli, De Joanne Dondio ab Horologio medico Patavino deque monumentis antiquis Romae ab eo inspectis et scriptis eiusdem quibusdam ineditis, in J. Morelli, Operette, II, Venezia 1820, pp. 285-312; Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, I, Berolini 1876, pp. XXVIIXXVIII; R. Valentini-G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, Roma 1953, pp. 65-73; R. Weiss, Lineamenti per una storia degli studi antiquari in Italia dal dodicesimo secolo al sacco di Roma del 1527. I, in Rinascimento, IX (1958), pp. 158-159; Id., La scoperta dell'antichità classica nel Rinascimento, Padova 1989, pp. 56-61, 240. Sull'Epistolario: G. Billanovich-E. Pellegrin, Una nuova lettera di Lombardo Della Seta e la prima fortuna delle opere del Petrarca, in Classical, mediaeval and Renaissance studies in honor of B. L. Ullman, II, Roma 1964, pp. 226-227; G. P. Marchi, Giacomino Robazzi e Antonio da Legnago, in Italia medioevale e umanistica, XVII (1974), p. 503. Sulle Rime: G. Folena, Il primo imitatore veneto di Dante, Giovanni Quirini, in Dante e la cultura veneta, Firenze 1966, pp. 399-402; L. Premuda, Qualche appunto sulle rime di G. Dondi, medico e filosofo, Padova 1967, estratto anticipato da G. M. medico scienziato e letterato, cit.; P. Petrobelli, La musica nelle cattedrali e nelle città ed i suoi rapporti con la cultura letteraria, in Storia della cultura veneta, II, Vicenza 1976, pp. 462-463; G. Folena, Il Petrarca volgare e la sua "schola" padovana, in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in on. diL. Lazzarini, I, Padova 1979, pp. 178-185; Daniele, Introduzione all'ediz. delle Rime, cit., pp. V-XVIII.