DELLA TORRE, Giovanni
Nacque a Bergamo da Girolamo di Luigi e Giulia Bembo di Gian Matteo, nipote del cardinale Pietro, in data posteriore al 1549 (data del matrimonio dei genitori; per Girolamo, vedi s.v. Luigi, p. 608). La famiglia, nobile, risiedeva a Udine ormai da tempo. Lo zio Michele vescovo di Ceneda, nunzio in Francia, e infine cardinale nel 1583, fu essenziale nella fase di avvio della carriera ecclesiastica del Della Torre. Questi frequentò lo Studio padovano e conseguì la laurea in utroque iure, e ben presto ottenne un canonicato nella diocesi del suo protettore.
Alla morte di quest'ultimo, avvenuta il 21 febbr. 1586, tre episodi attestano una crescente attenzione intorno alla sua persona: in primo luogo, i Cenedesi stessi fecero istanze presso Sisto V affinché la nomina diocesana ricadesse sul D.; invano, perché venne scelto Marcantonio Mocenigo. Quindi, proprio nello stesso anno, nell'ambito della discussione di un'ipotetica erezione di nuovi vescovati nella regione sembrava, a detta del fratello Sigismondo di ritorno dalla corte dell'arciduca Carlo di Stiria, che a lui fosse destinata la diocesi di Gorizia: anche in questo frangente non approdò a nulla. Infine, inutile fu la richiesta in Curia di Giovanni Andrea Caligari, vescovo di Bertinoro e nunzio a Graz, per farlo nominare suo successore nella carica e rimediare così, palesando il senso di tante insistenze e raccomandazioni, all'inevitabile caduta di prestigio e potere familiari conseguente al decesso del potente cardinale zio.
Comunque, il D. operava nel 1587 come cameriere d'onore a Roma e il 16 apr. 1588 incominciava a godere di un canonicato padovano per la morte del suo predecessore Carlo Sanbonifacio. Il 25 sett. 1589 fu nominato vescovo di Veglia: l'assunzione al vescovato non avvenne in modo del tutto pacifico per l'opposizione dei veneziani, i quali avevano avanzato una candidatura a loro più gradita, probabilmente in relazione alle vecchie ruggini inerenti alla vertenza sulla sovranità di Ceneda che aveva visto la sua casata come protagonista. Il D. prese effettivo possesso della carica l'anno seguente dopo aver lasciato il canonicato di Padova. Nei primi cinque anni di attività vesicovile si hanno notizie, non del tutto certe, della redazione di un inventario dei beni ecclesiastici e di un codice che raccoglieva legislazioni, privilegi e diplomi episcopali.
Per risolvere una situazione di pericolosa vacanza, morto nell'ottobre il predecessore Lewis Owen ritornato da tempo a Roma, il 13 nov. 1595 Clemente VIII affidò al D. la nunziatura presso gli Svizzeri.
La lunga assenza di una rappresentanza apostolica e diplomatica stabile, un clima avvelenato dal mancato pagamento delle truppe svizzere assoldate dal papa Gregorio XIII per una campagna militare in Francia (40.000 scudi), la frammentarietà della realtà politica e religiosa svizzera, la vibrante e intensa lotta diplomatica tra Francia e Spagna per estendere la propria influenza e ottenere considerevoli vantaggi nel controllo dei passi alpini e negli arruolamenti mercenari, costituirono il contesto con cui il D. si dovette misurare durante i quasi dieci anni di permanenza in territorio elvetico. Nell'istruzione gli veniva raccomandato, in linea con il marcato giurisdizionalismo ecclesiastico del pontefice, di adoperarsi alacremente nella tenace difesa dell'autorità della Chiesa romana e delle sue prerogative il cui esercizio incontrava notevoli difficoltà non soltanto nei Cantoni riformati ma anche in quelli cattolici: presso questi era necessario presentare e enfatizzare un'immagine della S. Sede come garante e sostenitrice della libertà del cattolicesimo svizzero esposto alla crescente espansione dei Cantoni riformati. Tra gli eretici, invece, il nunzio doveva preoccuparsi soprattutto di raccogliere informazioni e, data l'impossibilità obiettiva di un intervento diretto, di captare e fomentare le eventuali insofferenze di alcuni settori della popolazione colpiti per "interessi o politici o domestici che si sono deteriorati dopo l'ingresso delle heresie" (K. Jaitner, Die Hauptinstruktionen..., p. 370).
Dal gennaio al marzo, 1596 il D. soggiornò a Padova esprimendo dubbi sulle proprie capacità diplomatiche, anche perché si riteneva non molto accetto agli Spagnoli che lo consideravano, a torto, filofrancese. Dopo essersi proficuamente incontrato a Milano con Federico Borromeo per ottenere anticipazioni e delucidazioni sulla situazione che avrebbe dovuto affrontare, fece il suo ingresso in Svizzera ai primi di aprile; e il 9 maggio a Bellinzona era già sottoposto a "gran calca per la rifattione di quel pagamento che pretendono" (Arch. segr. Vat., Fondo Borghese, II 6, c. 220) che solo una promessa di rimborso dilazionato riuscì a placare. Finalmente, nel giugno pose la sua residenza, come del resto gli era stato da più parti consigliato, a Lucerna, centro propulsore del cattolicesimo. Di qui il D. iniziò una vasta e indefessa attività per l'applicazione delle decretali del concilio di Trento con particolare riguardo alla disciplina del clero, la riforma dei monasteri, la moralizzazione dei costumi ecclesiastici, l'applicazione dell'Indice clementino dei libri proibiti (che riceverà nell'agosto 1596), gli obblighi di residenza, il rigore liturgico.
Numerosissimi i luoghi da lui visitati, specie nei primi quattro anni, dove poté verificare accanto a episodi edificanti di riconversioni di apostati, persecuzione di nuclei anabattisti, situazioni confortanti con "chiese molto ben a l'ordine et con ottima custodia de' sacramenti et ricamente ornate ... religiosi di vita et dottrina non solo competente ma in alcuni esquisita et esemplare" (Arch. segr. Vat., Segr. di Stato, Svizzera, 5, c. 70),la realtà problematica e imbarazzante di vescovi inetti e abati "scandalosi et di mala vita", di monasteri e abbazie in rovina e privi di regola, soffocati dai debiti e dagli illeciti, di concubinaggi e licenziosità, di infrazioni abituali della clausura maschile e femminile.
Sue mete principali furono le diocesi di Lucerna, Coira, Costanza, San Gallo e Friburgo, ma nell'ottobre 1598 si spinse sino nell'Alsazia. Coadiuvato principalmente dai cappuccini "li migliori et più fruttuosi" per ciò che concerneva l'opera di predicazione, e dai gesuiti per il controllo dei seminari e dei monasteri, il D. tentò di porre riparo con le sostituzioni e i richiami all'obbedienza ai casi più clamorosi, non sempre con la dovuta cautela e circospezione che pure gli venivano frequentemente raccomandate da Roma. Lenti ma significativi progressi riuscì a raggiungere nell'edificazione di nuovi conventi di cappuccini (Friburgo nel 1601; Rapperswyl nel 1602; Costanza e Ensisheim nel 1603) e nell'indirizzare gli sforzi per un miglioramento della preparazione dì un clero autoctono che veniva formato essenzialmente nei collegi gesuitici di Friburgo, Costanza (dal 1603) e Lucerna: e proprio in questo collegio, sua fu la proposta d'introdurre tre nuove "classi" di retorica, logica e casi di coscienza nel 1598. Nel luglio 1602, dopo aver riunito gli abati di San Gallo, Muri e Fischingen, accelerò la fondazione della congregazione svizzera dei benedettini.
Evidentemente più concentrato sul versante della riforma ecclesiastica, la sua attività politico-diplomatica fu senz'altro più modesta e priva di originalità e perspicacia: osservò, informò, eseguì onestamente i generici ordini che provenivano dalla Curia. In realtà, nell'ambito della contesa e della tensione esistenti tra i monarchi di Spagna ed Enrico IV, le mansioni prettamente diplomatiche vennero delegate dal cardinale Pietro Aldobrandini al nipote Giulio. Tuttavia, anche il D. partecipò alla iniziale prudenza pontificia tesa ad accreditare un'immagine mediatrice tra le Corone cattoliche; subito scontato fu invece il sostegno all'interno della Confederazione elvetica ai Cantoni cattolici aderenti alla Lega d'oro del 1587 (Lucerna, Uri, Schwyz, Unterwalden, Zug, Friburgo e dal gennaio 1598 la frazione cattolica dell'Appenzell). Seguì diligentemente le Diete generali di Baden, consigliando e orientando le componenti vicine alla S. Sede, per contenere l'aggressività e il radicalismo confessionale dei riformati di Zurigo, Berna, Basilea e Sciaffusa.
Talvolta il D. si trovò spiazzato e fu costretto a mentire, come quando l'iniziativa velleitaria dell'attacco a Ginevra di Carlo Emanuele di Savoia, la fallita "scalata" del 21-22 dic. 1602, creò seri motivi di imbarazzo e di ostilità verso i cattolici: nell'occasione il D. negò pubblicamente di essere a conoscenza delle intenzioni sabaude, tra l'altro assai poco gradite a Roma, e tentò di rimediare diplomaticamente favorendo un ridimensionamento dell'episodio, concluso pertanto con il trattato di Saint-Julien (21 luglio 1603), che raffreddò sì le tensioni ma comunque garantì politicamente e militarmente Ginevra da ulteriori assalti.
A più riprese il D. si era invano impegnato nel ricercare mercenari per le spedizioni antiottomane di Clemente VIII in Ungheria. Nel 1598 aveva contrastato, senza troppa difficoltà, dato il disinteresse che circondava la vicenda, la ricerca di aiuti e consensi di Francesco Donato, inviato di Cesare d'Este, in occasione della devoluzione del Ducato di Ferrara.
Assai più puntuale risultò il ruolo del nunzio nel consolidamento, in parte riuscito, della presenza e dell'egemonia cattoliche nel Vallese, un Cantone caratterizzato da una situazione confessionalmente molto incerta e dalla crescente importanza della componente riformata che andava metodicamente monopolizzando i centri di potere locali. Notabili agguerriti erano riusciti a stringere il 5 ag. 1600 un'alleanza con le Tre Leghe retiche protestanti, le quali a loro volta stipulavano l'anno seguente un ulteriore patto con Berna: di fronte al rischio di un'intesa che minacciava di saldare, con un'abile rete di accordi, i Vallesi, i Grigioni, i Bernesi e probabilmente gli Zurighesi sotto una benevola protezione per eccitare i già inquieti Cantoni cattolici, sostenendo che il vero obiettivo fosse quello dell'abolizione dei vescovati di Sion e di Coira e l'estensione del cattolicesimo.
Nell'ottobre del 1602, quando l'idea di una riscossa cattolica prese corpo, il D. coordinò la massiccia azione propagandistica dei cappuccini a cui indicò, inoltre ai richiami all'esercizio della pietà e del rigore morale, una strategia in grado di enfatizzare e fomentare i rancori popolari e contadini, soprattutto cattolici, contro un funzionariato locale di adesione riformata. Incitò alla pressione diplomatica sul Vallese, sostenne le delegazioni cattoliche inviate da altri Cantoni. Aggirò le incertezze del debole vescovo di Sion Hildebrand de Riedmatten, eccessivamente preoccupato dal mantenimento degli equilibri interni, cercando di accattivarsi il nipote Adrien, vicario e poi vescovo nel 1604 alla morte dello zio, e imprimendo una maggiore decisione all'iniziativa politica.
Dopo intimidazioni, minacce e, nell'agosto 1603, dopo una sorta di occupazione cattolica delle valli pilotata da Lucerna, si giunse sotto gli auspici del D. e l'azione sottile del p. Chérubin, superiore della missione cappuccina, all'assemblea di Viège (25-27 marzo 1604) in cui fu ristabilito il principio del mantenimento della fede cattolica, la destituzione dei protestanti dai pubblici impieghi, la confisca dei libri eretici e l'espulsione per quanti entro due mesi non avessero aderito al cattolicesimo. In realtà il D., mentre era riuscito a potenziare le posizioni cattoliche nella parte meridionale di lingua francese del Vallese, lasciò una situazione ancora fluida nei territori tedeschi dove era stato possibile solo contenere ma non eliminare gli indiscutibili progressi della Riforma; né tantomeno riuscì a legare il Cantone ad un patto con la Spagna per gli innumerevoli ostacoli frapposti dalla diplomazia francese.
Quindi il D. segnalò con preoccupazione l'alleanza tra la Repubblica di S. Marco e i Grigioni, stipulata a Davos il 15 ag. 1603, che consentiva ai Veneziani di arruolare soldati, rifornirsi di materiale bellico e soprattutto favoriva l'esportazione del grano e del sale: un commercio quest'ultimo a cui era fortemente interessato anche lo Stato pontificio. Infatti, dopo l'incameramento del Ferrarese, il D. aveva all'uopo avanzato proposte di esportazione dalle saline di Comacchio con l'intermediazione di alcuni mercanti fiorentini residenti a Milano. Infine, registrò con soddisfazione, ma senza intervenire personalmente, il trattato di Lucerna (28 apr. 1604) tra la Lega d'oro è la Spagna che riequilibrava il vantaggio diplomatico francese, ottenuto con il patto tra Enrico IV e la Confederazione elvetica nel gennaio 1602, e ristabiliva un saldo controllo del corridoio alpino tra il Milanese e la rotta delle Fiandre.
Dopo il suo abbandono della nunziatura, avvenuto nel giugno 1606, risultano senza fondamento documentario le notizie, riferite dal Capodagli, circa eventuali missioni diplomatiche presso gli imperatori asburgici Rodolfo e Mattia. Il 15 febbr. 1606 il D. ottenne, unitamente ai suoi nipoti, la cittadinanza onoraria di Roma. Nel 1607, a coronamento delle instancabili peregrinazioni in territorio svizzero dove aveva lasciato un buon ricordo di sé, compilò una Descriptio Helvetiae, tuttora inedita e dedicata al cardinale Scipione Borghese: tale opera, piattamente descrittiva dei più importanti siti elvetici, venne vivacizzata con ricche e fedeli illustrazioni.
Dopo il suo rientro, scarsissime sono le tracce dell'attività pastorale: non è nemmeno possibile stabilire se egli soggiornò nella diocesi o la visitò. Nel 1617 donò alla cattedrale di Padova la reliquia di un frammento della S. Croce e vi fece eseguire lavori di abbellimento e restauro. Morì a Padova nei primi mesi del 1623 e venne tumulato proprio nella cappella della S. Croce in cattedrale e ricordato da un'iscrizione.
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