COSTA, Giovanni (Nino)
Nacque a Roma il 15 ott. 1826 da Gioacchino e Maria Chiappi.
Il padre, originario di Santa Margherita Ligure, si era trasferito a Roma in giovane età. Qui, dopo il matrimonio con Maria, figlia di una rinomata famiglia di tintori, riuscì ad avviare una grande fabbrica di tessuti, raggiungendo ricchezza e una notevole posizione sociale nella Roma pontificia grazie anche alle numerose relazioni di lavoro con esponenti dell'ambiente ecclesiastico e nobiliare. Risiedeva con la sua numerosa famiglia a Trastevere in un palazzo fatto costruire presso S. Francesco a Ripa. L'importanza sociale della famiglia spiega alcuni aspetti dell'attività politica del C., che, come molti altri romani, pur di tendenze democratiche, non affrontava ideologie e mete particolari che non fossero quelle di una pronta iniziativa per la liberazione di Roma. Attraverso la vita di fabbrica e di quartiere aveva numerose conoscenze fra i popolani che avrebbero dovuto costituire la massa di manovra in una azione insurrezionale; alla sua libertà di movimento contribuiva anche la sua attività di artista; il rilievo sociale della famiglia lo proteggeva dalle inquisizioni della polizia.
Il giovane C. venne educato dapprima nel collegio dei gesuiti a Montefiascone; dimostrando ben presto le sue inclinazioni artistiche, venne presentato al pittore Camuccini. Negli anni 1842-45 frequentò il collegio Bandinelli e studiò disegno con L. Durantini; lavorò quindi negli studi di F. Coghetti e F. Podesti, ricevendone quella formazione soprattutto grafica e compositiva secondo i principi della cultura neoclassico-romantica che rimase fondamentale nella pratica artistica del pittore anche in seguito.
Il C. apparve sulla scena politica cittadina negli anni riformistici di Pio IX, in quella schiera di giovani che animava le più accese dimostrazioni antireazionarie e antiaustriache. Partì volontario per la guerra del 1848 e combatté nella difesa di Vicenza; fu poi, a Roma, nelle file dei sostenitori di una evoluzione democratica del governo: fu anch'egli sfiorato dal sospetto di una partecipazione nell'assassinio di P. Rossi, che egli stigmatizzò sempre invece molto duramente. Nel 1849, membro dello Stato Maggiore di Garibaldi, combatté sul Gianicolo.
Dopo la restaurazione fuggì ad Ariccia, dimorando nel 1850-53 nella pensione Martorelli, luogo di incontro di numerosi artisti tedeschi, inglesi, francesi. Qui conobbe, fra gli altri, Massimo d'Azeglio, i tedeschi P. von Comelius, F. Overbeck e A. Böcklin, il francese E. David, l'inglese Ch. Coleman. Fu questo un periodo di lavoro intenso e particolarmente proficuo per quella ricerca del "vero" che il C. considerava basilare per rinnovare il linguaggio artistico italiano. Compì numerosi studi di paesaggio fra Castel Fusano e Porto d'Anzio, elaborando fin d'allora il suo metodo di lavoro e la sua poetica: "far prima sul vero un bozzetto d'impressione il più rapidamente possibile; e poi fare dal vero studi e particolari. Finalmente abbozzare il quadro, stando attaccato al concetto del bozzetto, non togliendo mai le pupille dall'eterno bozzetto. Lo chiamo eterno perché ispirato dall'amore all'eterno vero" (Quel che Vidi ..., 1927, p. 120).
Il progressivo distaccarsi del C. dalla veduta paesistica di matrice neoclassica avviene attraverso due esperienze fondamentali: la conoscenza della pittura di paesaggio di Corot (a Roma nel 1843) e di artisti quali Le Noble, Michallon, Valenciennes e la conoscenza, ancor più determinante, della scuola di Posillipo (Martinelli, 1963) insieme alla suggestione del paesaggio meridionale ricevuta durante un primissimo viaggio a Napoli, a Ischia e sulla costa amalfitana fra il 1850 e il 1851 (come resta documentato anche da un taccuino di disegni, Roma, coll. privata).
Nel 1852-53 conobbe i pittori inglesi George Mason e Frederick Leighton e iniziò con entrambi un fruttuoso sodalizio intellettuale che durerà tutta la vita.
Insieme a Mason dipinse nelle località fra Ardea e Pratica di Mare mettendo a punto la ricerca del "vero ... veduto attraverso il sentimento del pensiero" (Quel che vidi..., 1927, p. 121).
Sono da datarsi agli anni fra il 1850 e il 1855 gli "abbozzi" più felici di numerosi dipinti che il C. elaborò anche in anni seguenti: Donne che imbarcano legna a Porto d'Anzio (1850-52, Roma, Gall. nazionale d'arte moderna), Querce secche (1854), le Vedute di Ardea (1854-55), Vedute di Capri (Roma, coll. priv.), Dormono di giorno per pescare la notte (bozz. 1853-55; vers. grande 1890 c., coll. priv.: cfr. catal. mostra Garibaldi, Roma 1982): paesaggi dal caratteristico taglio orizzontale, individuati nei diversi piani di lontananza con nuovissimi effetti di luce e atmosfera.
Nel 1859 il C., che nel 1857 era stato tra coloro che avevano cercato di far pervenire al pontefice una provocatoria richiesta di radicali riforme, abbandonò Roma per arruolarsi volontario nell'esercito piemontese; riuscì ad entrare nel reggimento dei cavalleggeri di Aosta, che non raggiunse però mai il fronte.
Dopo l'armistizio di Villafranca, ritornò a Roma, sostando dapprima a Pisa, dove dipinse nella zona del Gombo, e poi a Firenze. Qui si incontrò con Serafino De Tivoli, già conosciuto durante la difesa di Roma, e con gli altri artisti frequentatori del caffè Michelangelo.
La pittura del C., per lo studio dei rapporti di tono e valore, la precisa individuazione dei piani, fu un esempio stimolante per le esperienze in atto del gruppo dei macchiaioli che ebbero modo di vedere a Firenze opere del C. alla Esposizione nazionale del 1861. Soprattutto Fattori, allorché si dibatteva fra "il realismo - macchia e il romanticismo" riconobbe l'influenza positiva dei suggerimenti del C. conosciuto nel 1861 (lettera di Fattori a G. Uzielli, in Cecioni, 1905, p. 452) 0 ancor prima, sul finire del '59, probabilmente a Livorno (il dipinto Contadina di Fattori presenta una tale affinità di ispirazione con quello del C. Spiagge di Livorno da ritenerli eseguiti contemporaneamente: cfr. Durbè, 1982, p. 25).
Sebbene alcune opere del C. del periodo 1860-65, come ad es. Campagna romana con ruderi (Pisa, coll. Gentili), presentino punti di contatto con le ricerche macchiaiole, specialmente per quanto riguarda una maggiore definizione dei piani ed una struttura compositiva ad incastro geometrizzante, il C. proseguiva autonomamente su altra direzione. Adriano Cecioni ne ammirò le qualità "plastiche" del colore, ma, tuttavia, come notava Uzielli nel commento allo scritto sul C. dello scultore toscano, "ciò che distingue Costa dai macchiaioli, sia nel tempo che furono meritevoli di tal nome, sia quando cessarono di esserlo, è che in tutti prevalevano impressioni essenzialmente fisiche e materialistiche, mentre nel C. dominavano le impressioni psichiche e idealistiche, ciò che spiega la grande ammirazione che le sue opere destarono in Inghilterra" (Cecioni, 1884). Caratteristica, infatti, fin da questi anni furono sia la predilezione del taglio orizzontale della composizione sia l'uso dei colori puri e delle velature e trasparenze atte più a suggerire una emozione che a definire un luogo, giacché il pittore non desiderava "di conoscere i dettagli delle cose come degli uomini" (Quel che vidi..., 1927), ma di coglierne l'essenziale, la "linea grande".
Forse già nel 1861, secondo le testimonianze di Signorini e Cecioni, o nel 1862, stando alle affermazioni del C. nell'autobiografia, si recò a Parigi ed espose al Salon il già citato dipinto Donne che imbarcano legna a Porto d'Anzio. Nell'estate di quell'anno fu a Londra e F. Leighton lo introdusse nell'ambiente artistico inglese facendogli conoscere, fra gli altri, i pittori G. F. Watts e F. Burne-Jones. In compagnia di Mason ritornò a Parigi e si fermò a lavorare nei pressi della foresta di Fontainebleau, a Marlotte.
La conoscenza ora più diretta della pittura romantica francese, in particolare di Corot e della scuola di Barbizon (soprattutto ammirò il Troyon), unitamente alla contemporanea conoscenza delle correnti dello spiritualismo inglese di ambito preraffaellita, indirizzò il C. verso un approfondimento delle tendenze idealizzanti. Nell'insieme della sua produzione artistica si può individuare, infatti, un unico filo conduttore che ricongiunge le prime esperienze romantiche a quelle neorinascimentali e simboliste delle sue ultime opere.
Emblematica a questo proposito è una delle opere più a lungo elaborate dal C., La Ninfa (1863-1895 c.; Roma, Gall. naz. d'arte mod.). Il motivo ispiratore dell'opera risale proprio al soggiorno nella foresta di Fontainebleau, dove l'artista eseguì un primo bozzetto (Pisa, coll. priv.), nel quale alcuni elementi dei paesaggio, come ad es. le rocce, ricordano Corot; in seguito ne elaborò la composizione attraverso numerosi disegni, intervenendo soprattutto nella figura e nel rapporto di questa con il paesaggio. Suggerimenti per la figura femminile, più idealizzata, gli dovettero giungere anche dal suo amico pittore George Howard (lettere inedite del C. a G. Howard del 3 luglio 1884 e del 4 sett. 1893: Castle Howard, Archivio).
Il C. aveva conosciuto G. Howard (dal 1889 nono conte di Carlisle) a Londra nel 1865. Questi, appartenente alle tradizioni radicali dell'aristocrazia inglese, pittore dilettante e mecenate, legato a W. Morris e alla cerchia preraffaellita, in particolare a Crane e a Burne-Jones, divenne amico e protettore del C. a partire da questi anni fino alla fine della vita, appoggiandolo nella attività politica e artistica. Se da una parte lord Carlisle divenne un discepolo del C., dall'altra fu mediatore per il pittore italiano del gusto tardo preraffaellita.
La Ninfa, che il pittore portò con sé in ogni suo spostamento e che non volle mai vendere, divenne la depositaria di un complesso stratificarsi di diverse esperienze culturali e tecniche e finì col rappresentare l'ideale di "eterno femminino" delle correnti del decadentismo fine secolo. La tecnica si affina sempre più per ottenere effetti di trasparenze e riflessi preziosi, compiacendosi di riscoprire procedimenti in uso fra i pittori dei primo Rinascimento toscano e veneto.Dopo Parigi il C. trascorse l'inverno a Firenze lavorando assiduamente (fra l'altro vi eseguì un delizioso ritratto, Ritratto di giovinetta, 1862 c.; coll. priv.: cfr. Durbè, 1976, n. 50). Dal 1864 tornò a Roma, facendovi lunghi soggiorni. I capi del Comitato nazionale gli avevano affidato la missione di riorganizzare il partito interno, accusato di inerzia, preparandolo per una eventuale azione insurrezionale, ma il C. andò più in là delle istruzioni ricevute, collegandosi ai membri del partito democratico e mazziniano, cercando di dar vita a una massa di manovra, ormai in posizione di netta condanna della "consorteria", di quell'ala cioè del movimento patriottico strettamente dipendente dalle prudenti direttive del governo italiano. Compiva frequenti viaggi a Firenze dove aveva contatti con gruppi di emigrati e con esponenti del Partito d'azione, oltre che con l'ambiente inglese non solo culturale (cfr. Berresbord-Nichols, 1982). Nel 1867, insieme a F. Cucchi e ad altri, lavorò alla creazione di un centro insurrezionale, teso all'organizzazione di quella rivolta che avrebbe dovuto giustificare l'intervento esterno di Garibaldi: con l'eccezione di alcuni coraggiosi episodi, essa si risolse in un fallimento (forse per il tradimento dei moderati, certo per una mancata cooperazione). Come egli afferma, aveva tentato di finanziare l'iniziativa vendendo le sue opere con l'aiuto del Leighton e del Howard che ne appoggiavano l'attività politica: il primo lo aveva presentato a influenti personalità, come W. Gladstone e W. Richmond. Raggiunto Garibaldi a Monterotondo, il C. aveva combattuto, nel suo Stato Maggiore, a Mentana. Ritornò poi a Firenze, dove restò fino al 1870 (abitava a via S. Frediano, 10), dipingendo a Livorno, Bocca d'Arno, Castiglioncello, in contatto nuovamente con i macchiaioli, in particolare frequentando Semesi, Abbati, oltre a D. Martelli.
Nel settembre del 1870 fu tra i primi ad entrare in Roma precedendo le truppe del gen. Cadorna. In quei convulsi giorni di transizione collaborò con M. Montecchi nel tentativo di assicurare alla popolazione il diritto d'una scelta democratica; operando dal Campidoglio, privo ancora di una amministrazione ufficiale, molto attivo nei quartieri popolari di Trastevere e Borgo, fu tra gli organizzatori di quel comizio al Colosseo del 22 settembre da cui uscì eletta una giunta di governo (di cui egli era membro): il tentativo fu spazzato via dal governo di Firenze che provvide alla diretta nomina di una giunta e di una istituzione provvisoria comunale e organizzò il plebiscito.
Eletto consigliere, il C. rimase fino al 1877 nel Consiglio comunale, operando marginalmente per la requisizione dei beni ecclesiastici, per il riordinamento delle collezioni artistiche capitoline, per l'assistenza alla popolazione immiserita. Abbandonò poi ogni attività politica, disilluso ma anche impreparato, come molti romani, ad affrontarne tonalità e problemi, pur continuando ad appoggiare lo schieramento democratico: "non era, ormai, la politica più affar mio. Fatta l'Italia, liberata Roma, ogni mio compito politico io lo consideravo finito" (Quel che vidi…, 1927, pp. 252 s.). Chiuso, per così dire, il momento eroico della partecipazione diretta, scelse una forma di intervento nello specifico campo dell'arte lottando per il rinnovamento artistico italiano e in particolare del retrivo e stagnante ambiente romano. Pertanto a partire da questi anni varie iniziative furono da lui promosse a Roma a sostegno della nuova coscienza laica e al miglioramento della professionalità artistica che operasse disgiunta da ogni forma di mercantilismo. Nel 1873, quindi, in qualità di consigliere comunale organizzò al Pincio una esposizione con opere sue e di artisti romani quali Vannutelli e G. Raggio oltre che di artisti stranieri operanti a Roma, quali Coleman ed E. Vedder, in polemica con quella pittura di genere, che pure figurava in contrapposizione nella stessa mostra, pittura che faceva capo a Mariano Fortuny e riscuoteva grande successo nella critica ufficiale.
Continuava assiduamente a dipingere nelle località preferite di Porto d'Anzio, in Toscana, ancora a Capri (1875): Capri, ora crepuscolare (Roma, coll. priv.), I Faraglioni (Castle Howard), ma si astenne per polemica dalle esposizioni ufficiali. Nel 1876 fondò il Golden Club per promuovere lo studio diretto della natura, iniziativa suggerita forse dall'associazione, consimile negli intenti, istituita a Roma dal pittore inglese W. Crane nel 1871-72, lo Sketching Club, per dipingere dal vero la Campagna romana.
L'insuccesso dell'arte italiana all'Esposizione universale di Parigi nel 1878 convinse sempre più il C. della necessità di istituire più stabili iniziative a sostegno delle nuove tendenze: fondò a Roma, quindi, il Circolo degli artisti italiani.
Sulle pagine dei più autorevoli giornali commentò con acuti scritti critici la situazione artistica italiana e straniera quale veniva presentata nelle grandi esposizioni nazionali, combattendo l'arte accademica e ufficiale (cfr.: La Gazzetta d'Italia, suppl. della domenica, 1877: 6, 13, 20, 27 maggio; 3, 10, 16, 24 giugno; 1º, 8, 15, 22 luglio; 1883: 26 febbraio; 4, 11, 18, 25 marzo; 2, 9, 16, 23, 30 aprile; 7, 21, 29 maggio; 4-5., 12, 18giugno; Fanfulla della domenica, 1881: 12, 19 giugno; 3, 17, 31luglio; 21 agosto; 25 settembre; Don Chisciotte, 1896: 15, 19, 28 gennaio; 5, 20 febbraio).
A partire dagli anni '80 tenne più stretti i rapporti con gli amici inglesi e con il loro aiuto organizzò alla Fine Arts Society di Londra, nel 1882, una personale con sessantasei opere, eseguite dopo il 1850.
Organizzatore della mostra fu il rev. Stopford Brooke, critico letterario e pittore dilettante, di idee liberali, collezionista delle opere del Costa. Grazie anche all'aiuto influente di Leighton, presidente allora della Royal Academy, di Howard, che finanziò l'iniziativa, e del deputato liberale W. Cornwallis Cartwright, il C. riscosse un notevole successo di critica e di pubblico. In particolare veniva lodato per il delicato senso atmosferico, la bellezza delle lontananze, il senso di mistero e di quiete (cfr. Magazine of Art, 1882, p. 396).
Sempre più stretti si fecero i vincoli di amicizia con lord Carlisle, che lo ospitò frequentemente, accomunato a lui dagli stessi interessi artistici e scelte politiche. Si trovarono a dipingere insieme a Naworth nel Cumberland (Campagna di Naworth, 1879 c., Roma, Galleria naz. d'arte mod.) e il C. fu ospitato a partire dall'89 nella splendida dimora di Castle Howard, nei pressi di York. Espose anche alla Royal Academy a cominciare dal 1874 (poi nel 1877, 1882, 1883, 1897) e dal 1877 al 1888 alla Grosvenor Gallery, ambiente più congeniale al genere di pittura del C. che non la Royal Academy: vi si presentavano i maggiori esponenti delle tendenze tardo-preraffaellite e classiciste estetizzanti. Dal 1888 espose alla New Gallery, fondata da uno degli organizzatori della Grosvenor Gallery, Ch. Hallé, e in polemica con questa.
Nell'inverno 1883-84 c. istituì una nuova associazione, la Scuola etrusca (cfr. Rossetti Agresti, 1904, pp. 211, 304), ispirata, secondo quanto scrive l'artista stesso, a quei principi teorici già in parte elaborati negli anni '50-55 in compagnia del suo amico Mason, studiando dal vero la Campagna romana.
Principî che dovettero essere arricchiti in seguito con la conoscenza della pittura di paesaggio inglese e, con tutta probabilità, del pensiero del critico inglese J. Ruskin. Aderirono alla Scuola etrusca amici e allievi inglesi: W. B. Richinond, G. Howard, E. Barclay, W. Maclaren, M. Ridley, Corbett e sua moglie, gli allievi italiani G. Cellini, C. Formilli, N. Parisani, N. Pazzini, Lemmo Rossi Scotti. Il nome dell'associazione venne probabilmente scelto sia in ricordo dell'amico Mason, con il quale si era trovato a dipingere nel 1863a Wetley Abbey, località anche nota come Etruria per la fabbricazione delle ceramiche di Wedgwood, sia forse a sottolineare l'apporto italiano e inglese al rinnovamento della pittura di paesaggio. All'amore ruskiniano della natura, del "vero" studiato attraverso "il sentimento del pensiero", come si è già detto, gli "etruschi" univano quello della ricerca di una tecnica sempre più complessa, studiata sui primitivi italiani, nell'intento di recuperare sia il valore dell'abilità artigianale quattrocentesca sia l'esaltazione del processo creativo dell'artista di estrazione tardoromantica. Luoghi preferiti da ritrarre, Bocca d'Arno, Marina di Pisa, dove il C. ospitava gli amici nella sua villa, oppure Perugia.
Qui il C. aveva iniziato nel 1878 un vasto paesaggio, Frate Francesco e frate Sole (Castle Howard, coll. Howard), esaltazione panteistica della natura, esposto nel 1886 alla Grosvenor Gallery. I principî della Scuola etrusca furono ribaditi e formulati in un sintetico programma a sostegno di alcuni giovani studenti dell'Istituto di belle arti nella rivista L'Art en Italie (5 apr. 1885: "l'amore nobilita il sentimento e lo purifica, il lavoro lo fortifica e lo sviluppa, la libertà gli dona responsabilità e dignità"). Nel 1886 organizzò a Roma una esposizione nello studio Giorgi in via S. Nicolò da Tolentino, presentando tutte quelle forze, vecchie e nuove, unite negli stessi intenti di rinnovamento, ora e sempre più vicine alle contemporanee correnti letterarie e figurative dell'estetismo. Il gruppo, che comprendeva O. Carlandi, V. Cabianca, A. Morani, A. Ricci, gli altri "etruschi" fra i quali G. Cellini, fu da questo chiamato "In Arte Libertas". Si organizzarono mostre annuali fino al 1902, presentando artisti italiani insieme con artisti stranieri, in particolare inglesi e francesi: tali iniziative costituirono, prima della istituzione dell'esposizione internazionale di Venezia, l'unico tentativo di aprire l'interesse della cultura italiana verso un orizzonte europeo. Il C. partecipò costantemente alle mostre dal 1888 al 1902.
Dal 1888 al 1895 c. il C. portò a compimento impegnativi dipinti quali The first smile of the Morn-Shelley (1888, coll. Howard), La Verna, Il Serchio e le sue ninfe (1889, coll. priv.), Risveglio (1886-96, donato alla National Gallery di Londra, con una sottoscrizione promossa dagli amici inglesi, e andato distrutto nell'ultima guerra), Ad Fontem Aricinum (1895, Pisa coll. priv.), Leda (1900 c., Roma, coll. priv.), oltre alla già menzionata Ninfa (Roma, Gall. naz. d'arte mod.). Negli ultimi anni la salute gli venne a mancare e, colpito nel 1897 da una commozione cerebrale, fu assistito dalla moglie e dalle figlie Rosalinda e Giorgia.
Morì a Marina di Pisa il 31 genn. 1903.
Nell'inverno 1892-93 il C. iniziò a dettare i suoi ricordi alla figlia, Giorgia Guerrazzi Costa, la quale li conservò in parecchi quaderni e ne curò la pubblicazione a Firenze, nel 1927, con il titolo Quel che vidi e quel che intesi. Secondo quanto riferito dalla figlia stessa nella introduzione, il C. fu incitato da F. Leighton, il quale aveva ammirato il pittore romano anche per la sua attività di patriota, a rievocare gli anni più significativi della sua vita. La dettatura fu interrotta dal C. dopo la morte dell'amico, avvenuta nel 1896.
Negli ultimissimi anni riprese a riferire altri ricordi alla sua biografa, Olivia Rossetti Agresti, che li pubblicò a Londra nel 1904. Di questo materiale, appunto, si servì la figlia per integrare l'ultima parte della autobiografia. Della stesura originale sono stati ritrovati presso gli eredi (Viareggio, Arch. Guerrazzi) diciotto quaderni (forse gli unici realmente scritti) relativi ai primi ventisei capitoli di Quel che vidi..., fino agli avvenimenti del 1859 esclusi. Tali quaderni sono datati in gran parte al gennaio 1893 e la calligrafia è tutta attribuibile alla figlia, come pure della stessa mano sono le aggiunte e le correzioni. Esistono due quaderni relativi alla introduzione e al primo capitolo del libro, con numerose correzioni; gli altri, anche se dalle datazioni a volte apposte sul frontespizio, relative sempre al gennaio 1893 ma a giorni diversi, sembrano essere stati scritti in modo saltuario, rispecchiano tuttavia abbastanza fedelmente la divisione in capitoli dell'opera pubblicata. Per quanto sia ancora in corso di studio l'analisi del testo dettato con quello pubblicato e con la biografia della Rossetti Agresti, si può affermare che non si riscontrano nell'insieme sostanziali modifiche né di stile né di contenuto, sebbene alcune differenze si rilevino nelle aggiunte o nelle eliminazioni di commenti su fatti e persone. Nell'ultima parte della autobiografia, che pure si presenta nell'insieme stilisticamente unitaria, si trovano integrazioni desunte dalla biografia della Rossetti Agresti.
Il ritmo della narrazione, fluente e vivace, i giudizi penetranti, le sfumature ironiche, i toni polemici trovano riscontro in alcune delle numerose lettere del pittore e nei suoi scritti sull'arte degli ultimi anni. L'opera, dunque, pur con le integrazioni e con la mediazione di alcuni commenti attribuibili anche alla figlia, deve considerarsi più che una fonte diretta, una incisiva ricostruzione della vita romana negli anni 1848-70. In tal senso Quel che vidi... ha avuto una discreta fortuna e ne sono stati ristampati alcuni brani relativi alla narrazione delle imprese garibaldine (cfr. Memorialisti dell'Ottocento, a cura di G. Trombatore, Napoli 1953, pp. 719 ss.; G. Mariani, Antologia di scritti garibaldini, Bologna 1960, pp. 229 ss.) 0 alla vita della Roma pontificia (Memorie romane dell'Ottocento, a cura di G. Orioli, Bologna 1963). Inoltre, una ristampa della intera opera è stata pubblicata con una introduzione di C. Apolloni (Milano 1983).
Quel che vidi ... è soprattutto da considerarsi come una preziosa testimonianza degli entusiasmi e delle tensioni ideali del C. patriota e artista. Inoltre, può essere una utile fonte per ricostruire nelle linee di insieme l'ambiente artistico romano negli anni della formazione del pittore e della sua attività fino al 1870, da vagliare, tuttavia, come alcune notevoli imprecisioni su date e avvenimenti suggeriscono, con la copiosissima corrispondenza in gran parte inedita e in corso di pubblicazione. Questa, in definitiva, resta la reale fonte di informazione per una ricostruzione filologica dell'attività politica e pittorica del Costa.
Fonti e Bibl.: Oltre alle memorie e alle lettere (cfr. Quel che vidi e quel che intesi, a cura di G. Guerrazzi Costa, Roma 1927; alcune lettere del C. sono pubblicate in L. Vitali, Lettere dei macchiaioli, Torino 1953, ad Ind.; A. MarabottiniV. Quercioli, D. Martelli, corrispondenza ined., Roma 1978, ad Ind.), si veda: D. Martelli, Note sul paesista romano Nino C., in L'Arte in Italia, III (1872), 5, p. 1; I. Cartwright, G. C. Patriot and painter, in The Magazine of art, 1883, estr.; A. Cecioni, Scritti e ricordi, Firenze 1905, pp. 329, 452 (da La Domenica letter., III, [1884], n. 44); [Conte di Selva], G. C., in Cronaca bizantina, IV (1884), 16, p. 131; Don Chisciotte [E. Scarfoglio], L'Espos. di via Nazionale, in Fanfulla della domenica, 8 marzo 1885; G. Cantalamessa, G. C. in L'Italia, III (1885), 3, p. 43; D. Angeli, Nino C., in La Rassegna internazionale, II (1901), 7, pp. 3-17; Id., Nino C., in Il Marzocco, 1903; O. Rossetti Agresti, Theart of the late G. C., in The Studio, XXVIII (1903), pp. 237-49; Id., G. C. His life, worksand times, London 190,4; F. Sapori, G. C., Torino 1918; M. Marangoni, Impressioni sulla primaBiennale romana: G. C. e G. Fattori, in Il Convegno, II (1921), 7, pp. 40-49; Prima Biennaleromana, Esposizione di belle arti nel cinquantenario della capitale (catalogo), Roma 1921; E. Somaré, G. C., in Il Primato artistico italiano, III (1921), pp. 36-39; E. Cecchi, Nino C., in Dedalo, II (1922), pp. 665-84; F. Sapori, G. C., in Roma, I (1924), pp. 273-78; D. Angeli, Nino C., in Capitolium, III (1927), pp. 386-408; Id., Cronache del caffè Greco, Milano 1930, pp. 159-73; Espos. di opere di Nino C., Roma 1927; G. Cantalamessa, Il divisionismo di G. C. in Roma, IV (1927), 3, pp. 37 s.; G. Cellini, G. C., Roma 1933; C. E. Oppo, Forma e colorinel mondo, Lanciano 1938, p. 209; M. Wackernagel, Ein italien. Künstlerleben aus der Risorgimentzeit: der römische Maler Nino C., in Zeitschrift für Kunst, II (1948), pp. 29-49; Mostradi dipinti e di disegni di Nino C. (catal.), Pisa 1956 (prefaz. di M. Rosi); I macchiaioli, (catal.), a cura di G. Carandente, Roma 1956; M. Portalupi, Note su Nino C., in L'Arte, XXIV (1959), pp. 229-36; R. Soria, La prima biografia diNino C., in Strenna dei romanisti, XXII (1961), pp. 59-62; V. Martinelli, Paesisti romani dell'Ottocento, Roma 1963, pp. 36-45; P. Frandini, Alcuni disegni ined. di Nino C., in Studi romani, XX (1972), pp. 349-61; G. Piantoni, Aspettidell'arte a Roma 1870-1914 (catal.), Roma 1972, pp. XI-XXXVII passim, 1-6, tavv. 1-39; D. Durbè, I macchiaioli, Firenze 1976, ad Indicem; N. C. ed i suoi amici inglesi (catal.), a cura di S. Berresford-P. Nicholis, Milano 1982 (numerosi rifer. alla letter. inglese relativa al C.); D. Durbè, Fattori e la scuola di Castiglioncello, Roma 1982, pp. 24-35; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VII, p. 532; Enciclopedia Italiana, XI, p. 589 s.