CODRONCHI ARGELI, Giovanni
Nacque ad Imola il 14 maggio 1841, secondogenito del conte Carlo Alessandretti e della contessa Caterina Codronchi, di famiglia romagnola di antica nobiltà. Solo il 5 marzo 1860, alla sua morte, il prozio materno conte Giovanni Codronchi Argeli (1782-1860) - personaggio di spicco nella vita imolese del primo '800, per tre volte gonfaloniere della città, docente di diritto romano, noto uomo di cultura, ammiratore di Napoleone e poi magistrato di tendenze liberaleggianti - gli trasmise, insieme col patrimonio, anche il proprio nome.
Compiuti gli studi secondari a Bologna, dal 4 nov. 1858 frequentò la facoltà legale dell'università di Bologna, ove si laureò il 20 giugno 1862. Esordì frattanto nella vita pubblica di Imola nel 1859, quando fece parte del servizio ronde della guardia cittadina provvisoria ed ottenne il brevetto di capitano di battaglione della guardia nazionale. Il 6 ott. 1859 fu scelto fra i membri della deputazione incaricata dei festeggiamenti e, come studente, fu a capo del comitato universitario bolognese nel 1859-60; l'8 giugno 1862, infine, dopo aver ricoperto altri incarichi minori nella sua città, fu nominato capitano addetto allo Stato Maggiore della guardia nazionale di Bologna. Solo nel luglio 1864, tuttavia, quando venne nominato consigliere comunale ad Imola, dopo una prima elezione invalidata nel 1862, il C. intraprese una carriera di spicco nelle amministrazioni locali. L'anno successivo, infatti, venne rieletto consigliere nel vicino comune di Castel San Pietro (dove egli possedeva la proprietà di Coccapane), di cui il 18 febbr. 1866 divenne anche sindaco. Dimessosi una prima volta il 29 novembre successivo, lasciò definitivamente l'incarico il 1º dic. 1867, quando venne nominato sindaco ad Imola, dove già aveva retto la giunta in qualità di assessore anziano, Ricoprì questa carica ininterrottamente fino al 29 ott. 1875, allorché gli successe il fratello Alessandro.
Promosse la costruzione di un mercato delle erbe e della pescheria, di un impianto per l'illuminazione a gas e di bagni pubblici; valorizzò con lavori di miglioramento la località delle acque minerali come centro ricreativo e affrontò il più arduo problema delle fogne, di cui poté infine nel 1875 avviare la costruzione. Contemporaneamente curò la manutenzione delle nuove strade cittadine. Dovette però affrontare difficoltà di bilancio e vivaci opposizioni in Consiglio al sovraccarico fiscale, che limitarono la possibilità di intervento in altri settori. Riuscì tuttavia a promuovere iniziative nel campo della sanità, istituendo due nuove condotte mediche, e della pubblica beneficenza, utilizzando un lascito per fondare un ricovero di mendicità. Curò particolarmente l'istruzione, benché dovesse ridurre le spese, e poté anche istituire un liceo, una scuola di agricoltura e un collegio convitto. Né gli si opposero difficoltà solo di ordine finanziario. Deciso e combattivo si rivelò, infatti, nel tutelare i diritti del Comune contro lo Stato, specie in occasione della legge del 1866 per la soppressione dei conventi. Anche il suo intervento nel 1869 per sedare la cosiddetta "rivolta delle carrozze", a cui seguirono arresti e per cui fu insignito della croce di cavaliere, lo espose a critiche da parte dei democratici. Ma poté consolidare il suo prestigio con la nomina, nel 1870, a presidente della Deputazione provinciale, di cui faceva già parte dal 1867.
In questo periodo, il 5 febbr. 1865, sposò Giulia Pizzoli, vedova con tre figli di Giuseppe Fornioni. Da lei, nei successivi dieci anni, ebbe otto figli, fra cui sopravvissero quattro femmine: Eugenia, poi nota poetessa con lo pseudonimo di "Sfinge", Elisabetta, Margherita, Eleonora.
Nel novembre 1870 fu eletto per la prima volta deputato di Imola, al posto di Giacomo Dina di cui era amico e sostenitore; non poté però essere convalidato, perché non aveva compiuto trent'anni. Solo il 3 giugno successivo, dopo la quarta elezione in cui ottenne consensi quasi unanimi, fu perciò ammesso alla Camera. Qui subito si distinse fra i giovani che miravano al rinnovamento dei "partiti" storici. Esordì alla Camera sul tema che già lo aveva preoccupato da sindaco e che resterà sempre al centro dei suoi interessi: quello della pubblica sicurezza. Allarmatissimo per le condizioni, effettivamente gravi, della sua regione, il 22 giugno denunciò l'inadeguatezza della politica del governo; finì tuttavia con l'appoggiare le leggi proposte dal Lanza, pur non ritenendo indispensabili provvedimenti eccezionali, in quanto non suscettibili - a suo avviso - di interpretazioni arbitrarie e illiberali. Da allora sostenne sempre il ministero e fece parte di diverse commissioni, fra cui quella per le Finanze.
Assunse un ruolo di rilievo nazionale l'anno successivo, in occasione della discussione della legge sulle corporazioni religiose a Roma e dell'ampio dibattito sulle rappresentanze generalizie, che divise la stessa Destra. Il C. fece parte del gruppo dei "dissidenti" che instancabilmente si opposero al progetto di mantenimento e che, viceversa, proposero di concedere al pontefice una somma per garantirgli i rapporti con gli Ordini religiosi stranieri. Con altri commissari egli trattò allora per trovare col governo una soluzione di compromesso; ma, a differenza di numerosi membri del suo gruppo, che ne consentirono l'approvazione di stretta misura, non approvò poi la formula concordata e il 17 maggio 1873 votò contro, riscuotendo i plausi della Sinistra. Pochi giorni dopo, il 20 maggio, di nuovo si divise dalla Destra, votando a favore della soppressione definitiva della Compagnia di Gesù, proposta respinta per pochi voti.
Continuò il lavoro parlamentare come membro di commissioni, fra cui di nuovo quella per le Finanze, e si impegnò, nell'aprile 1874 nella difesa delle funzioni delle Casse di risparmio, proponendo l'esenzione fiscale per i piccoli depositi e sgravi per gli istituti di beneficenza. Si avvicinò frattanto al Minghetti, divenuto capo del governo, di cui appoggiò la politica finanziaria e di cui si guadagnò la fiducia.
Dal giugno 1874 gli trasmise notizie allarmanti non solo sulle condizioni dell'ordine pubblico in Romagna, ma anche sull'attività dei partiti "sovversivi", nei cui confronti lo esortava al rigore, in contrasto con alcuni prefetti, fino a consigliargli lo scioglimento delle società repubblicane ed internazionaliste. Quando il Minghetti procedette agli arresti di villa Ruffi, il C. fu oggetto di aspri attacchi; da allora sempre, benché non ricoprisse cariche ufficiali, fu additato dai democratici come responsabile dell'episodio e come fautore di una politica repressiva.
La sua adesione alla Destra si fece più esplicita in occasione - delle elezioni politiche del novembre 1874, che gestì per conto del governo: a Bologna, in occasione delle precedenti amministrative del luglio, aveva presieduto un comitato che comprendeva costituzionali di ogni gradazione e alcuni repubblicani, con un programma avanzato; ma nell'ottobre non rinnovò l'accordo per incompatibilità con i democratici, alienando al ministero le simpatie dei liberali progressisti. Rieletto brillantemente alla Camera, ricoprì per tutta la legislatura la carica di questore.
Tornava frattanto d'attualità, a proposito della Sicilia, il problema dell'ordine pubblico, allorché il governo presentò nel novembre un nuovo progetto di legge, che prevedeva per i prefetti ampie facoltà in materia di arresti preventivi e di domicilio coatto e che incontrò perciò vivaci opposizioni nella stessa Destra.
Il C., pur manifestando sulle prime riserve e perplessità, si adoperò poi per vincere le resistenze. Non avendo, con le sue proposte, potuto evitare la discussione, esortò Minghetti a procedere "ad ogni costo" e difese alla Camera lui stesso il progetto, il 5 giugno 1875, con un ampio discorso: negò allora che questo avesse finalità politiche, avanzò suggerimenti tecnici sull'impiego delle forze di polizia, ribadì la necessità di un'inchiesta sulle condizioni della Sicilia e propose riforme di carattere sociale, invocando la concordia dei partiti sulla questione dell'ordine pubblico. Alla fine, il 10 giugno, sottoscrisse un nuovo articolo unico transitorio, in parte mitigato, che poté essere approvato.
Indebolitosi il governo in questa vicenda, il C. si trovò in una posizione delicata quando, dopo esser stato candidato alla prefettura di Palermo, il Minghetti lo chiamò alla carica di sottosegretario agli Interni, il 1º dic. 1875. Promosse allora un'indagine sulle Opere pie e sui criteri della pubblica beneficenza, che non poté essere compiuta; avviò la riforma della legge provinciale e comunale amministrativa: materie tutte, queste, in cui si qualificò come esperto. Con personale impegno studiò il riordinamento della Pubblica Sicurezza, proponendo un disegno di legge, non approvato, i cui criteri illustrerà e riproporrà più volte negli anni successivi: fra le proposte più innovatrici, accanto all'aumento degli organici, quelladi smilitarizzare le forze di polizia, per creare un unico corpo di agenti municipali nelle città, e di riservare ai carabinieri la tutela delle campagne. Ma ormai la crisi per la Destra si approssimava e invano il C. tentava di minimizzarne la portata. Solo il 14-15 marzo 1876, resosi conto della fine, esortò il Minghetti a "morire sopra una grossa questione", assicurandogli piena fedeltà.
La sua carriera subì allora una battuta d'arresto, benché fosse nominato grand'ufficiale della Corona d'Italia e rimanesse uno dei leaders della "giovane Destra". In occasione delle elezioni dell'ottobre 1876, difendendo la sua politica precedente, escluse che il suo partito rappresentasse orientamenti conservatori e ribadì anzi la necessità di larghe intese con la Sinistra di fronte ai problemi più gravi del paese, come l'ordine pubblico o la questione finanziaria; ma escluse, per il momento, constatate le gravi divergenze, la possibilità di costituire un centro. Alla Camera fu perciò portavoce autorevole dell'opposizione, che esercitò prevalentemente in importanti commissioni: nel 1876-77 fu subito membro di quella incaricata dell'esame dei progetti, presentati dal Nicotera, di riforma della legge comunale e provinciale e nel 1877 studiò le modifiche delle circoscrizioni comunali in Sicilia. Di nuovo fece parte nel 1880-81 della commissione per la riforma delle amministrazioni locali e suscitò nell'aprile 1880 una certa eco con la sua proposta di sottoporre a referendum i carichi straordinari imposti ai contribuenti dai Consigli comunali. Nello stesso periodo fece parte di altre commissioni per il bilancio, per la vendita dei beni demaniali e per l'abolizione del corso forzoso.
Più circoscritti a questioni locali furono invece i suoi interventi in aula, con cui sostenne prevalentemente la necessità di una linea ferroviaria Imola-Firenze. Solo il 2 apr. 1879, svolgendo un'interrogazione sulle recenti manifestazioni repubblicane e sull'agitazione dei partiti "sovversivi", affrontò temi di grande rilievo politico e avviò un'importante discussione: criticò allora le incertezze del governo nella prevenzione e nella repressione, ribadì la necessità di proibire le riunioni pericolose e chiese una legge che regolasse il diritto di associazione. Ma allorché Depretis fece "energiche" dichiarazioni, provocando la divisione della Sinistra, il C. le accolse favorevolmente e con la Destra votò per la prima volta a suo favore.
Nello stesso periodo dedicò gran parte della sua attività alla organizzazione delle forze moderate nella propria regione per conto del Minghetti, come vicepresidente dell'Associazione costituzionale per Bologna e per le Romagne. Ad Imola, dove fece parte del Consiglio comunale fino al 1886, intensificò le iniziative, già intraprese da molti anni come membro onorario della Società operaia locale e da sindaco, per diffondere il mutuo soccorso, la cooperazione e il credito popolare. Uno sforzo, questo, in cui si distinse per intraprendenza; ma che non poté contrastare la crescita dei repubblicani e degli internazionalisti, che già nel 1881 prevalsero nella Società imolese, e che trovò il maggiore ostacolo nell'allargamento del suffragio elettorale.
In occasione della discussione sulla riforma il C. pronunciò alla Camera, il 24 marzo 1881, uno dei suoi discorsi di maggior respiro politico: osteggiò allora sia lo scrutinio di lista, a cui contrappose un sistema di rappresentanza delle minoranze, sia la concessione dell'elettorato sulla base dell'istruzione elementare, a cui preferiva un abbassamento del censo e il criterio dell'istruzione superiore. Nucleo delle sue argomentazioni, il richiamo alla centralità del mondo rurale e la convinzione che la nuova riforma, invece, avrebbe determinato il prepotere dei centri urbani sulle popolazioni agricole: in questa prospettiva giudicava preferibile il suffragio universale, a cui accostava proposte di legislazione sociale e di difesa, estensione e modernizzazione della proprietà fondiaria.
Quando, nell'ottobre 1882, si tennero le prime elezioni col suffragio allargato, si impegnò attivamente, anche con sacrificio personale, per contrastare "l'incredibile diffusione delle idee socialistiche" specie nella gioventù, consapevole dell'imminente declino dell'egemonia della Destra nella sua regione. Benché rieletto nel collegio di Bologna II, grazie anche all'appoggio del governo, si sentiva oramai battuto dalla "santa alleanza radicale-socialista-progressista-clericale". E, in effetti, per tutto il decennio, dovette affrontare dispute elettorali sempre più accese per il controllo nell'Imolese delle amministrazioni locali e delle società operaie.
Alla Camera appoggiò pertanto il Minghetti nel suo avvicinamento al Depretis e votò in favore del governo dal 21 dic. 1882: in più occasioni da allora difese il "trasformismo" con la necessità di superare rancori ormai immotivati e dannosi per poter contrastare l'estrema Sinistra, per consolidare le Guarentigie e, soprattutto, per realizzare "un vero miglioramento nell'indirizzo così decaduto della politica estera nazionale". In Parlamento riprese il suo lavoro di "esperto" qualificato nelle commissioni.
Dal novembre 1882 al giugno 1884, nella commissione nuovamente insediata per discutere la riforma della legge comunale e provinciale, il C. si batté per ampliare l'elettorato solo sulla base del censo, per limitare il numero dei membri elettivi della giunta, per contenere le sovrimposte fondiarie, ma sostenne anche che il sindaco dovesse essere eletto in tutti i Comuni. Il suo impegno maggiore fu peraltro quello dedicato all'inchiesta sulle Opere pie: entrato a far parte della commissione reale insediata il 3 giugno 1880, il C. fu subito nominato membro della sottocommissione delegata a dirigere i comitati locali nel terzo compartimento (Romagne, Toscana, Marche). Fra i suoi principali interventi, quello del 1884 sui criteri in base ai quali definire le Opere pie e quello del 1885, sul problema se sollecitare o meno proposte di riforma, con cui egli manifestò diffidenza verso le forze localmente preposte alla gestione e alla tutela.
Minore rilievo politico ebbero invece molti suoi interventi alla Camera, dove riprese a trattare prevalentemente di questioni locali delle Romagne. Dal 1884 al 1886, tuttavia, anche come relatore della commissione, si interessò ripetutamente e con competenza della sistemazione delle acque nella bassa pianura bolognese, che sollecitava come rimedio urgente alla crisi agraria. Il 22 giugno 1884, inoltre, con un ampio discorso affrontò di nuovo il tema della pubblica sicurezza, dei partiti rivoluzionari, della regolamentazione del diritto di associazione, delle iniziative economiche e sociali da contrapporre al dilagante malessere.
Affrontò le elezioni dell'aprile 1886 in una situazione difficile, incalzato da radicali e socialisti nelle istituzioni locali, in contrasto con altri parlamentari di destra nella sua regione, preoccupato per l'esito delle iniziative di alfabetizzazione intraprese tra i contadini. Condusse allora per conto del Minghetti una trattativa col vescovo Scalabrini per ottenere il consenso del papa alla partecipazione elettorale dei cattolici, negoziato che però non andò in porto. Rieletto lui stesso, forse col contributo dei "clericali" più transigenti, dovette affrontare nuovi gravi contrasti nell'Associazione costituzionale di Bologna, dove gli si oppose il gruppo dei progressisti ministeriali guidati dal Lugli, tanto che nel giugno dovette rassegnare le dimissioni da vicepresidente.
Morto il Minghetti il 10 dicembre, il C., succedutogli nella presidenza dell'Associazione costituzionale delle Romagne, divenne, anche sul piano nazionale, uno dei membri più importanti del gruppo dei "dissidenti" di destra, decisi a patrocinare nuovi equilibri parlamentari ormai in aperto contrasto con il Depretis. Saggiate altre soluzioni, dopo Dogali si avvicinò pertanto al Crispi, di cui l'11 marzo 1887 appoggiò l'ordine del giorno di sfiducia contro il governo: oggetto delle sue critiche soprattutto la politica estera e militare che giudicava inadeguate, nonostante i progressi decisivi compiuti nel periodo della collaborazione, agli ideali risorgimentali. Il giorno successivo partecipò con altri "dissidenti" a una riunione per discutere con il Crispi il programma per un eventuale ministero comune, che non poté però essere concordato. Fallito il disegno della Destra, partecipò saltuariamente ai lavori parlamentari come membro della commissione per il Bilancio e della giunta per la verifica delle elezioni. In questo periodo si occupò invece assiduamente dell'Esposizione bolognese, svoltasi nel 1888 con risonanza nazionale, del cui comitato esecutivo egli fu presidente.
Divenuto Crispi presidente del Consiglio e ministro degli Interni, il C. fu da lui nominato dal 1º genn. 1889 prefetto di Napoli e senatore il 15 dicembre successivo. A Napoli subito si qualificò presso amici ed avversari come un "prefetto di combattimento", energico e zelante esecutore della politica del Crispi contro la Sinistra locale guidata dal Nicotera, di recente colpita dallo scioglimento del Consiglio provinciale. In effetti l'inchiesta condotta dall'ispettore Alfonso Conti, appena ultimata, e ancor più la relazione riservata, trasmessagli al suo insediamento, comprovavano gravissime irregolarità e veri e propri reati negli appalti dei lavori pubblici, commessi dagli amministratori provinciali decaduti.
Nonostante la campagna condotta da questi contro le ingerenze governative e il nuovo prefetto, che assunse toni di violenza inusitata, il C. poté così legittimare il proprio operato - e gliene darà atto anche l'inchiesta Saredo - con la necessità di moralizzare la vita pubblica locale e di sbaragliare le clientele più corrotte. Se la sua gestione provvisoria della provincia si limitò all'ordinaria amministrazione, effetti politici rilevanti ebbe invece il suo intervento in occasione delle elezioni amministrative del novembre, pur duramente osteggiato. Più volte precedentemente egli aveva esortato il Crispi a pubblicare e a trasmettere all'autorità l'inchiesta Conti, benché suggerisse nello stesso tempo cautele e censure per non danneggiare quegli amici del governo, come il San Donato, anch'essi gravemente compromessi. Decise le elezioni e pubblicata la relazione ufficiale, egli promosse una "lega degli oriesti" a cui aderì, con i maggiori notabili moderati, una parte dei cattolici; colpì invece i "clericali" intransigenti, di cui denunciava l'appoggio dato alla Sinistra, fino a scioglierne l'associazione. Attivissimo e deciso, anche contro il San Donato di cui mai tollerava le ingerenze, riuscì, dopo una campagna elettorale senza esclusione di colpi, a battere brillantemente la Sinistra nicoterina, che perse molti dei suoi uomini più importanti nel Consiglio provinciale. Non poté invece confermare come sindaco Nicola Amore, a cui successe un cattolico, né consolidare il successo degli "onesti" alla provincia, che presto dovettero cedere a nuove alleanze e all'antica maggioranza. Non cessò perciò di adoperarsi per rafforzare la posizione del Crispi a Napoli, vigilando con ogni tipo di intervento (ed anche col controllo dei dispacci telegrafici) sulla stampa e sui giornalisti più critici o procurando finanziamenti ai giornali amici. Di particolare rilievo la mediazione da lui condotta, in occasione della crisi bancaria, per ottenere il concorso del Banco di Napoli nel salvataggio delle banche torinesi; il rifiuto del Giusso e il successivo dissidio fra questo e il Crispi contribuirono tuttavia ben presto a incrinare gli equilibri politici da lui favoriti in città.
Si approssimavano ormai le elezioni politiche, che il C. si apprestava a gestire con spregiudicata energia, incurante delle critiche ricevute l'anno precedente per un turno suppletivo, quando il Crispi il 15 ag. 1890 lo trasferì alla prefettura di Milano. Qui di nuovo egli trovò una situazione difficile per il governo e dovette prodigarsi per fronteggiare l'estrema Sinistra: attentissimo alle attività dei socialisti, da tempo preoccupato sia per temuti disegni insurrezionali, sia per la loro politica municipale, ne seguì da vicino ogni manifestazione per prevenire e reprimere ogni possibile illegalità; ma colse anche le difficoltà dei democratici che andavano perdendo terreno nel movimento operaio. Poiché le elezioni del novembre 1890 sancirono la sconfitta dei radicali in due collegi cittadini, il C. fu sempre più osteggiato da loro e additato come l'uomo del più chiuso moderatismo.
Le difficoltà maggiori per lui sopraggiunsero tuttavia nel febbraio 1890 quando, caduto Crispi, il Rudinì chiamò agli Interni proprio il Nicotera. Il C. rassegnò allora le dimissioni, ma l'intervento dei moderati milanesi più autorevoli - fra cui il Visconti Venosta e Giuseppe Colombo - e infine anche del sovrano lo indusse a ritirarle, con viva e sincera soddisfazione dei notabili lombardi e con disappunto del Crispi. Avviò così una difficile collaborazione col nuovo ministero, affrontando subito la prova delle celebrazioni del 1º maggio. Il C. consigliò allora di proibire ogni tipo di manifestazioni; avendo il Nicotera deciso altrimenti, provvide per una attenta repressione di ogni atto illegale, attirandosi di nuovo gli attacchi della Sinistra, ma rimanendo lui stesso insoddisfatto. In più occasioni si parlò da allora di pressioni fatte dai radicali presso il governo per farlo trasferire finché, nel maggio 1892, un nuovo incidente, provocato da una sua ingerenza nell'orfanotrofio milanese, lo pose al centro dell'attenzione, mettendolo in contrasto anche con la maggioranza del Consiglio comunale.
Negli stessi giorni la sua posizione si faceva ancor più delicata in seguito alla crisi risoltasi con la formazione del ministero Giolitti. Questi confermò il C., di nuovo dimissionario, con parole di stima, grazie all'intervento di alcuni deputati lombardi favorevoli ad una politica aperta verso il nuovo governo. Il gesto apparve un "pegno" di gran rilievo politico dato ai moderati milanesi; ma presto l'opposizione condotta alla Camera da questi e l'approssimarsi di nuove elezioni compromisero i rapporti col governo. Il C. si adoperò allora, con Colombo e Visconti Venosta, per convincere Ponti, uno degli oppositori più invisi e più intransigenti, a non contrastarne gli orientamenti. Il Giolitti tuttavia restò fermo nell'appoggiare in quasi tutti i collegi milanesi candidature di sinistra, contrapposte a quelle dei moderati, con sprezzante fermezza, incurante dell'imbarazzo del suo prefetto. Benché il C. eseguisse gli ordini ricevuti, favorendo nel novembre 1892 il successo di alcuni candidati governativi, non poté dissipare i sospetti nei suoi confronti, sempre più vivi anche fra gli amici del Giolitti. Questi infine lo pose a disposizione il 2 febbr. 1893, con una procedura per lui umiliante che fece scalpore.
Il C. si trasferì allora a Roma per partecipare ai lavori del Senato. Benché fosse in stretto e amichevole contatto con i politici più autorevoli, e anche col sovrano, e venisse trattato con formale ossequio, rimase però piuttosto emarginato. Al ritorno del Crispi, si riaccostò a lui, nonostante talune divergenze, tanto che si parlò nel gennaio 1895 di un suo ritorno al sottosegretariato agli Interni. Guardava invece con crescente distacco ai moderati lombardi, di cui non condivideva il regionalismo e la politica verso i cattolici, ma soprattutto l'antitriplicismo e la posizione sulle spese militari.
Intervenne saltuariamente alle discussioni del Senato, ribadendo con un discorso, il 1º giugno 1894, le sue tesi sulla pubblica sicurezza, mentre partecipò dal marzo 1895 ai lavori della commissione permanente di finanza. Nel febbraio 1896, quando in Senato si rafforzò l'opposizione al Crispi, pur avendo seguito riunioni e trattative, non firmò però un'interpellanza contro di lui di un gruppo di senatori, prevalentemente lombardi, preoccupato, tra l'altro, per il prevalere di tesi "rinunciatarie" nella politica coloniale.
Caduto il Crispi, Rudinì nominò il C. regio commissario civile per la Sicilia e lo chiamò a far parte del suo governo come ministro senza portafoglio, il 6 e 9 apr. 1896. Come commissario venne investito, in tutte le province siciliane e per un anno, dei poteri politici e amministrativi spettanti ai ministri dell'Interno, delle Finanze, dei Lavori Pubblici, della Pubblica Istruzione e dell'Agricoltura, Industria e Commercio per quanto si riferiva alla pubblica sicurezza, all'amministrazione e alle opere pubbliche provinciali e comunali, alle tasse locali, all'istruzione primaria, alle miniere e alle foreste, ai pesi e alle misure, funzioni tutte da esercitarsi "sotto la dipendenza del ministro dell'Interno" e a condizione che i provvedimenti relativi non impegnassero in alcun modo il bilancio dello Stato. Al tempo stesso, la dignità di ministro senza portafoglio gli garantiva prerogative quali il rispondere direttamente alla Camera del suo operato e l'intervenire nel Consiglio dei ministri. Solo a queste condizioni, che configuravano una carica giuridicamente anomala, il C. accettò e superò le riserve - manifestate pochi giorni prima al re, quando questi gli aveva offerto la semplice prefettura di Palermo - relative non solo alla sua posizione personale, ma anche alla politica estera, militare e africana del nuovo gabinetto. Confidava allora nel suo prestigio di esperto stimato, anche presso il Crispi, e prevedeva, d'accordo in ciò con gli altri ministri di destra, di poter caratterizzare politicamente il governo condizionato dai radicali: in realtà fu subito al centro di polemiche di stampa, che lo investirono anche personalmente.
Alla Camera, tuttavia, nelle relazioni delle commissioni e nel corso degli interventi in aula del luglio, l'istituzione del commissariato diede luogo ad un dibattito politico di vasto respiro sulle condizioni economiche e sociali dell'isola, sul ruolo delle sue classi dirigenti, sulle riforme necessarie per prevenire il malcontento e sanare ingiustizie storiche. Ripetutamente l'accento venne posto sulla questione del decentramento amministrativo, sia da parte degli oppositori crispini del governo, che paventavano il "risorgere degli antichi confini già cancellati dal patriottismo", sia da parte dei democratici e dei socialisti, che auspicavano invece un effettivo autogoverno regionale fondato sul suffragio universale. Ben diverse erano tuttavia le finalità del provvedimento e quindi il ruolo attribuito al C.; sia il governo sia la maggioranza della commissione parlamentare individuavano infatti come causa principale del malessere dell'isola e del fondato malcontento della popolazione il prevalere nel governo locale di clientele prepotenti, inique e prive di "perizia amministrativa", che gravavano le classi più povere col maggior onere tributario, sfuggendo all'autorità tutoria. Compito principale del commissario doveva essere pertanto quello di "rompere la catena consolidata di interessi", di "reprimere e correggere gli abusi nelle amministrazioni", preparando le condizioni per riforme più incisive: in tale prospettiva fondamentale importanza rivestivano la facoltà concessagli di ordinare ispezioni in tutti gli uffici amministrativi e politici, e il mandato per una revisione straordinaria dei bilanci provinciali, comunali e delle opere pie.
Trasferitosi a Palermo, il C. si dedicò subito a questo compito tenendosi in contatto strettissimo con il Rudinì. Frutto della loro collaborazione, i disegni di legge per la Sicilia: nell'aprile fu ultimato il progetto per l'inversione delle rendite, di opere dotali, a favore degli ospedali, mentre maggiori ostacoli incontrarono gli altri disegni ad opera dei deputati siciliani d'opposizione. Il C. allora si fece interprete delle sollecitazioni del Florio perché si provvedesse alla crisi zolfifera, finché il 16 giugno fu ultimato il progetto che aboliva il dazio di uscita e riduceva le tasse sulla produzione e il commercio dello zolfo; fu così favorita la costituzione dell'Anglo-Sicilian Sulphur Company, società che accentrò nelle proprie mani gran parte del prodotto dell'isola, promuovendo l'impulso e la modernizzazione del settore.
Il C. frattanto completava l'indagine sui debiti dei comuni e delle province siciliane e poté trasmettere al governo un progetto di unificazione, allo scopo di prolungarne l'ammortamento, di diminuire la misura degli interessi e ridurre quindi le tasse locali: il disegno di legge governativo del 7 dicembre, che prevedeva il risparmio di un milione su cinquantasei milioni di debiti complessivi, riservava al commissario la facoltà di rendere obbligatoria l'unificazione per i comuni e le province, gli affidava il compito di trattare coi creditori la liquidazione e la transazione del crediti rispettivi e di stabilire l'ammontare dei nuovi prestiti. Contemporaneamente ultimò i lavori sulle circoscrizioni comunali siciliane, che prepararono il disegno di legge del 19 dicembre per la modifica degli antichi ripartimenti territoriali al fine di adeguarli alle mutate condizioni sociali. Negli stessi giorni il completamento della legge che istituiva un corpo di guardie campestri in Sicilia forniva al C. uno strumento più adatto alle condizioni locali nella lotta contro la delinquenza, male endemico e gravissimo: egli poté così conseguire risultati effettivi, anche se discussi, in un settore che gli stava particolarmente a cuore.
Per i compiti affidatigli, tuttavia, il C. si trovava esposto alle resistenze di città come Messina, che mal tolleravano il regime uniforme imposto a tutte le province e sollecitavano provvedimenti per i propri problemi economici; alle accuse violentissime degli amministratori d'opposizione e, al tempo stesso, alle continue pressioni dei deputati amici, che sollecitavano interventi contro gli avversari locali. Con il Rudinì egli scambiava giudizi durissimi sulle classi dirigenti locali, sui metodi mafiosi o "sbirreschi" abitualmente vigenti nella gestione del potere e nelle lotte politiche e amministrative; ambedue sovente ribadivano il proposito di non consentire a chicchessia illegalità di sorta e di non cedere alle varie, ripetute richieste di scioglimenti dei Consigli comunali, se infondate. E in effetti il C. si trovò di fronte a situazioni amministrative gravissime. Grande scalpore suscitò quella del comune di Palermo, gestito dalla Sinistra crispina e che egli infine disciolse nel novembre: la inchiesta successiva comprovò non solo ammanchi di cassa, in seguito alla fuga di un tesoriere disonesto, ma anche decenni di pessima gestione delle finanze, della contabilità e della riscossione delle imposte (per cui mancava una esatta compilazione dei ruoli e un regolare sistema di notificazione ai contribuenti) e disastrose condizioni igienico-sanitarie nella città; il commissario da lui nominato dovette pertanto, fra l'altro, modificare la cinta daziaria, riformare alcuni servizi di beneficenza, istituire nuove classi elementari, riordinare l'ufficio sanitario e riaprire un ospedale.
La situazione nel capoluogo, d'altra parte, diventava tanto più difficile per il riaccendersi della propaganda socialista, in occasione delle elezioni suppletive del maggio 1896 nel quarto collegio, dove si candidò R. G. Bosco. Fin dai contatti preliminari con il Rudinì, il C. si era trovato d'accordo con lui nel considerare la lotta al socialismo come un aspetto qualificante del commissariato; da Palermo poi gli trasmise notizie allarmanti su presunti progetti insurrezionali concertati dai siciliani con i socialisti del Nord. Battuto il Bosco, egli continuò a preoccuparsi per il "socialismo rurale", fino a sciogliere nel luglio la federazione contadina "La Terra". Benché respingesse molte richieste dei socialisti siciliani, era tuttavia favorevole anche ad alcuni provvedimenti sociali e ordinò perciò l'abolizione del truck-system e l'osservanza dei limiti d'età per i fanciulli nelle miniere; auspicò inoltre la formazione di cooperative e promosse la costituzione di banche rurali, per temperare gli oneri più gravosi, come l'usura, e avviare una modernizzazione nelle campagne. Rimasero invece senza seguito le proposte di riforma dei patti agrari, che da tempo erano parte centrale dei suoi programmi e su cui pure il Rudinì era d'accordo.
Il C. tentava così di consolidare la "giustizia" e il prestigio del governo in Sicilia, supplendo alla mancanza di iniziative delle classi dirigenti locali, per evitare nuove tensioni sociali. Le difficoltà del ministero in Parlamento e la forza dell'opposizione crispina in Sicilia inducevano però a puntare su altre iniziative, come l'acquisto o il finanziamento dei giornali locali e nazionali, di cui il C. fu esecutore zelante, specie in vista di prossime elezioni politiche. Stabilito il turno elettorale per il marzo 1897, egli, d'accordo con il Rudinì, si impegnò per ridurre l'influenza dell'estrema Sinistra repubblicana e socialista e dei crispini più "irriducibili", in un ambiente politico aduso tradizionalmente ad ogni sorta di scorrettezze ed illegalità. Il fastidio sdegnoso, talora anche l'indignazione sincera del C. e del Rudinì dovevano perciò cedere alla necessità di vincere comunque, specie in situazioni complesse e difficili. Come nel caso di Catania, dove, in un clima di accesa faziosità e violenza, si presentavano due fra gli oppositori più temuti, il costituzionale San Giuliano e il socialista De Felice: il C. appoggiò qui come candidato governativo il radicale A. Sapuppo, commissario straordinario al Comune, che si avvalse del proprio potere contro gli avversari; per far cessare le illegalità più scandalose dovette intervenire il Rudinì presso il C., mentre questi, come spiegazione, ritorceva nuove accuse contro gli altri candidati.
Complessivamente in Sicilia egli riportò un buon risultato, sia contro i socialisti sia contro l'opposizione crispina, nettamente ridimensionata. Ma il suo prestigio ne usciva scosso per l'eco nazionale che ebbero i suoi metodi elettorali: alla Camera e al Senato, nell'aprile, nel maggio, nel giugno e nel luglio, e sulla stampa, gli oppositori, con in testa San Giuliano, lo accusarono ripetutamente di parzialità nello scioglimento dei Consigli comunali e di vere e proprie violenze elettorali, specie nella zona di Catania. I rappresentanti dell'estrema Sinistra parlarono addirittura di metodi mafiosi, accusa più volte ripetuta negli anni successivi anche in relazione al caso Notarbartolo, per il suo comportamento col Palizzolo e le sue contraddittorie deposizioni ai processi. A Palermo poi, dove si tennero le elezioni amministrative il 2 maggio, affrontò un nuovo, duro scontro con la Sinistra locale, che perse il controllo del Comune, ma che poi polemizzò a lungo per l'alleanza da lui promossa fra i moderati e i cattolici.
Allo scadere del suo mandato nell'agosto 1897, mentre la questione del rinnovo suscitava nuove discussioni, il C. doveva registrare, accanto ai risultati ottenuti, non poche difficoltà irrisolte. Se poteva vantare il miglioramento dell'ordine pubblico - e soprattutto la diminuzione dei reati d'abigeato -, il risanamento delle finanze locali, un alleggerimento di imposte per 4 milioni, la revisione dei dazi di consumo e dei bilanci delle Opere pie, non tutte le sue iniziative ebbero poi l'esito sperato: in alcune località vennero infatti reintrodotte imposte, come il dazio sulle farine o il focatico, che erano state abolite; le disposizioni da lui impartite perché fosse ridotta la tassa di famiglia per le quote minime vennero talora disattese. Oppure, viceversa, il marchio sul bestiame, da lui introdotto per impedire l'abigeato, suscitò reazioni perché comportava una nuova tassa. Ancora negli anni successivi egli stesso espresse perplessità sugli effetti a lungo termine delle sue iniziative per le finanze siciliane e indicò nelle "tirannie locali" il maggior ostacolo da superare, tanto da rivedere le sue antiche idee sull'elettorato amministrativo e auspicare una larga partecipazione popolare al governo dei comuni.
Nominato il 15 ag. 1897 presidente della giunta governativa per le operazioni di unificazione dei debiti delle province e dei comuni della Sicilia e insignito il 30 agosto dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, il C. tornò a Roma, dove venne nominato ministro della Pubblica Istruzione il 18 settembre.
Egli emanò numerosi decreti: con quello dell'11 ottobre modificò il regolamento degli esami nella scuola primaria; con quello del 19 ottobre impartì istruzioni sui programmi delle scuole complementari e normali, per migliorare gli insegnamenti delle scienze, della pedagogia, della storia e della ginnastica. Maggior risonanza ebbe la sua iniziativa di far compilare due libri di testo di geografia per le elementari: se ne occuparono non solo insegnanti e pedagogisti, ma anche i quotidiani nazionali, che deplorarono per lo più l'attentato alla libertà individuale e il monopolio concesso agli autori senza concorso, mentre il C. rivendicava il dovere di migliorare la qualità scadente delle opere didattiche. Condusse poi a termine le trattative per l'acquisto delle galleria Borghese. Compì infine la convenzione con l'università di Bologna che, con il concorso dello Stato, poté ampliare i locali e darsi attrezzature scientifiche più moderne: ancora il 20 marzo 1899, poiché si opponevano ostacoli all'approvazione del progetto, egli in Senato difese l'importanza della scuola d'applicazione bolognese per gli studi scientifici e ne esaltò la funzione anche come occasione di promozione sociale.
Dimissionario con l'intero gabinetto il 10 dic. 1897, il C., di cui pure si era parlato per il ministero dei Lavori Pubblici, venne escluso dal nuovo governo e si risentì perciò con il Rudinì. Avendo rifiutato un posto di ambasciatore e il governatorato dell'Eritrea, si dedicò allora esclusivamente all'attività nel Senato, in cui si impegnò assiduamente. Nel febbraio 1898, col propagarsi del malessere sociale, richiese provvedimenti per le classi più bisognose come la revisione dei dazi sulle farine e sul pane, una costante politica di lavori pubblici, di bonifiche e di colonizzazione interna; di nuovo il 3 marzo, minimizzando l'influenza dei partiti "extralegali" nei disordini in Sicilia, richiamò l'attenzione sugli effetti della crisi agraria e sulla disoccupazione. Timoroso per una soluzione non costituzionale della crisi, critico della politica estera del Visconti Venosta e dei moderati milanesi, si allontanò alquanto in questo periodo dai vecchi amici, mentre mantenne contatti cordiali con il Crispi, cui lo legavano le preoccupazioni per la sorte internazionale del paese.
Al Senato, dove era membro della commissione permanente per le Finanze, fece parte e fu relatore di numerose altre commissioni. Come relatore sul progetto di legge riguardante lo scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, il 5 giugno 1899 e il 14 maggio 1900, affrontò di nuovo, fondandosi sulla sua precedente esperienza, il problema dell'"enorme" disordine amministrativo e finanziario di molti comuni italiani: invocava perciò il rigoroso intervento e la tutela dello Stato fino a proporre, nei casi più gravi, che i commissari compilassero bilanci triennali. Per la Sicilia in particolare, il 3 febbr. 1900, proponeva inoltre, accanto ad un miglior ordinamento della forza pubblica, quei provvedimenti rimasti disattesi fin dall'epoca del commissariato, benché volutamente circoscritti: miglioramenti dei contratti agrari, che diffondessero l'enfiteusi e tutelassero il contadino dai prestiti usurari, diffusione del credito agrario, della cooperazione e della previdenza.
Le preoccupazioni di carattere sociale non valsero tuttavia a dissipare ogni perplessità sulla nuova politica inaugurata dal Giolitti nel 1901: il C. infatti il 30 aprile appoggiò un ordine del giorno che richiedeva l'"azione preventiva del governo per garantire la libertà di lavoro contro l'opera dei partiti sovversivi"; di nuovo il 3 luglio denunciò l'origine politica degli scioperi e ancora nel dicembre 1904, come relatore dell'indirizzo in risposta al discorso della Corona propose anche forme di arbitrato che consentissero l'"abolizione di fatto degli scioperi".
I suoi interessi, d'altra parte, non si limitarono alle consuete questioni di politica interna, come il rinnovamento delle forze di polizia, che pure ritornarono nel suo intervento del 5 giugno 1901, o le amministrazioni locali, di cui continuò ad occuparsi come membro, confermato nel novembre 1900 e nel 1904, della commissione permanente di finanza. Il 10 giugno 1901, discutendosi delle costruzioni navali, egli dedicò infatti un ampio discorso alla politica estera e militare: preoccupato che le spese militari non garantissero la difesa della sicurezza e della prosperità della patria, negò che l'Italia potesse "disinteressarsi delle grandi questioni che agitano il mondo moderno" e ammonì contro i rischi, anche economici, di una politica di raccoglimento.
Dal dicembre 1901 dedicò gran parte della sua attività alla legge sulla conservazione del patrimonio artistico, della cui commissione fu relatore e a cui diede un fondamentale contributo. Nel corso di lunghe discussioni egli si sforzò ripetutamente di conciliare la tutela delle opere d'arte con il rispetto della proprietà privata, ma incontrò resistenze volte a limitare l'intervento dello Stato a danno dei proprietari, tanto da essere accusato di "socialismo" per le sue proposte di un catalogo obbligatorio e di un'imposta progressiva sulle esportazioni. Il disegno, approvato il 10 dic. 1901, ritornò in Senato nel marzo 1902, nel giugno 1903 e nel giugno 1905, imponendo al C., di nuovo relatore, discussioni e poi interventi perché la legge fosse effettivamente applicata. Nello stesso periodo egli si interessò ripetutamente di lavori pubblici, nella persuasione che fossero indispensabili per alleviare la disoccupazione e dare un impulso alle attività economiche. Nell'aprile 1902 e nel giugno 1905 sollecitò insistentemente la bonifica della bassa pianura bolognese; nel luglio e nel dicembre 1902, come relatore per la legge sulle ferrovie complementari, si dichiarò favorevole alla costruzione, da parte dello Stato, specie dei tronchi ferroviari nelle regioni meridionali; impegnato lui stesso in lavori di rimboschimento nella sua provincia, chiese che lo Stato agevolasse i privati capaci e intraprendenti in tali campi.
Tornata d'attualità nel marzo 1904 la questione della marina, il C. riprese a sollecitare una preparazione militare adeguata alle esigenze di una "patria grande", timoroso delle influenze negative dei partiti. Perplesso sull'opportunità dell'inchiesta, il 14 marzo venne eletto membro della relativa commissione e da allora intervenne ripetutamente sulle spese militari. Rassegnò le dimissioni il 13 giugno 1905, ma venne subito rieletto; si dimise infine per ragioni di salute il 5 dic. 1905, ma non cessò di interessarsene, dedicando all'opera della commissione il suo ultimo importante discorso, tenuto il 6 luglio del 1906.
Nominato vicepresidente del Senato il 3 dic. 1904, ne presiedette più volte i lavori fino al giugno 1906. Nonostante le condizioni di salute sempre più precarie, lavorò anche in commissioni minori, specie sulle questioni delle amministrazioni locali. Nel giugno 1905, come relatore sui servizi marittimi, poté illustrare i progetti già elaborati per aumentare la velocità e il numero dei piroscafi, per l'istituzione del credito navale, per la abolizione dei premi e la concessione di sgravi e per la fondazione di una cassa di previdenza per i lavoratori. Nelle discussioni sulle spese del ministero degli Interni, il C., nel maggio 1905 e nel maggio 1906, sempre come relatore, sollevò importanti questioni come quella degli archivi di Stato, di un ruolo unico per gli impiegati dello Stato e delle province e di una più equa ripartizione dei tributi locali. Avendo lui stesso proposto nell'aprile modificazioni al regolamento del Senato, nel dicembre 1905 condusse la discussione come presidente della relativa commissione.
Gli ultimi suoi interventi politici di risonanza nazionale furono affidati a due articoli comparsi sul Corriere della sera del 1º ott. 1905 (Iproblemi del Mezzogiorno. Le idee del conte Codronchi sulla Sicilia) e del 15 genn. 1906 (Terre irredente); qui egli non si limitò a riproporre le sue analisi e le sue proposte per la Sicilia, ma espose vasti progetti di rinnovamento politico: una politica di potenziamento del credito, di bonifiche e di colonizzazione interna, che comportava anche l'esproprio delle terre incolte da parte dello Stato e la loro concessione a tenui canoni ai braccianti disoccupati.
Morì il 9 maggio 1907 a Roma.
Scritti: Discorso ai suoi elettori. Pronunciato a Imola il 5 ott. 1876, Imola 1876; Sugli agenti di Sicurezza pubblica. Discorso pronunciato in Bologna all'Associazione costituzionale delle Romagne il 16nov. 1879, Bologna 1879; Sul riordinamento della Pubblica sicurezza in Italia, in Nuova Antologia, 15 sett. 1895, pp. 215-22; Per due libri di testo,ibid., 16 sett. 1898, pp. 278-91; Un gonfaloniere romagnolo nel secolo XIX,ibid., 16 ott. 1905, pp. 529-35.
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