FROMOND, Giovanni Claudio (al secolo Guglielmo Giuseppe)
Di famiglia originaria di Dôle, nella Franca Contea, nacque a Cremona il 4 febbr. 1703, terzogenito di Gian Simone e di Lucia Binda.
La condizione civile della famiglia è attestata, oltre che dalla professione forense del nonno paterno, dal matrimonio del padre con una nobile cremonese. Saldi furono anche i legami dei Fromond con la Chiesa, come mostrano le vocazioni religiose del fratello maggiore Gian Francesco (1698-1776) e del cugino Francesco Elia (1713-57), entrambi monaci camaldolesi nel monastero ravennate di Classe.
Anche il F. seguì questa via, vestendo l'abito nel convento di Classe il 27 marzo 1718. Cambiò allora il nome di battesimo di Guglielmo Giuseppe per assumere quello di Giovanni Claudio, che lo accompagnerà nella carriera letteraria. Ingegno versatile e precoce, si trovò però in urto con l'insegnamento teologico classicistico della sua Congregazione, impostato su rigide basi scolastico-aristoteliche: "non poté mai applicarsi a studi così lontani dalla ragione e dal buon senso", scriverà di lui il confratello Isidoro Bianchi; "s'accorgeva… che c'era un'altra filosofia, la sola degna delle meditazioni dell'uomo, e aveva la segreta compiacenza di trovarla scolpita a caratteri indelebili nel gran libro della natura… si occupava solo a tentare esperienze, ed a cercare… la natura delle cose nella natura istessa" (Elogio, p. 17). Sulla passione per la filosofia della natura concordano, del resto, tutte le fonti edite. Una strada, questa, che il F. percorse con entusiasmo, ma che inizialmente acuì il contrasto con i superiori, che sul finire del 1724 lo trasferirono al monastero di Fonte Avellana, presso Gubbio (ibid., p. 18). Qui il F. compì i passi decisivi nella professione, venendo ordinato diacono a Cagli il 26 maggio 1725, quindi sacerdote il 17 marzo 1726. Per il ritorno a Ravenna dovette attendere invece il 26 sett. 1727, quando le porte del monastero umbro finalmente gli si schiusero.
L'insofferenza per la "tirannica educazione scolastica", come scriverà anni più tardi al senatore fiorentino Giovanni Federighi (Milano, Bibl. Ambrosiana, Mss. Z. 391 sup., lettera al Federighi da Pisa, 11 marzo 1764), non lo abbandonò mai, ma gli anni di Fonte Avellana non trascorsero invano, se in quel tempo si delineò la passione del F. per le matematiche e la meccanica - cui rimase fedele anche in seguito pur a scapito della più salda vocazione sua di fisico e di sperimentatore.
Nacque su questo terreno l'incontro con Guido Grandi, professore di matematica a Pisa ed esponente di punta del rinnovamento filosofico italiano nei primi decenni del secolo. Con l'autorevole confratello, il F. appare già da tempo in contatto nel gennaio del 1727, quando lo pregò di adoperarsi per il suo trasferimento al monastero di S. Michele in Borgo di Pisa, retto allora dal Grandi (Pisa, Bibl. univ., Mss., n. 91, Lettere al padre Guido Grandi, IX, c. 263). In una accorata lettera, dettata dal bisogno di sottrarsi all'isolamento che lo circondava, il F. ricordava così "il genio che ho sempre avuto per le mattematiche", la passione per gli studi e il timore, "coll'andar io avanti nell'età… di restar addietro nelle lettere", e concludeva con un richiamo alla "patria comune", Cremona, di cui non voleva "esser l'obbrobrio… nella religione" (ibid.).
A Pisa il F. finì per approdare, restandovi per tutta la vita, nel marzo 1728, superate le ultime resistenze ecclesiastiche e una nuova, breve parentesi ravennate. Non mancarono, anche in questa sede, i segni della sua "vivacità" temperamentale (Bianchi, Elogio, p. 17), ma egli seppe comunque adattarsi alla difficile personalità del Grandi. Ne divenne allievo e uomo di fiducia e ne curò la ricca biblioteca e i rapporti personali durante le frequenti assenze da Pisa, giungendo a sostituirlo nelle lezioni private di matematiche dopo la nomina dell'abate a visitatore generale dell'Ordine nella primavera del 1729. Quattro anni più tardi entrò nei ruoli dell'ateneo come lettore pubblico di matematica con uno stipendio di 60 scudi annui (Pisa, Bibl. univ., Mss., n. 91, Lettere al p. G. Grandi, IX, 2 nov. 1733). Appartengono a questa prima fase dell'esperienza pisana del F. un soggiorno in patria nell'estate del 1729 e le visite a Bologna, che lo misero in contatto con prestigiosi esponenti dell'Istituto delle scienze (ibid., IX, 7 dic. 1730).
Tra il terzo e il quarto decennio del Settecento S. Michele in Borgo fu per il F., come per altri giovani camaldolesi - si pensi a G.M. Ortes, che nel 1734 ne frequentò le lezioni "domestiche" di geometria (ibid., IX, 22 nov. 1734) -, un centro formativo di primaria importanza, all'insegna del rigoroso sperimentalismo galileiano e newtoniano introdottovi dal Grandi e in rapporto con il risveglio dell'erudizione storico-ecclesiastica grazie ai legami con gli altri monasteri della Congregazione. Ma il passaggio a Pisa significò anche l'immediato coinvolgimento nello scontro tra vecchi e giovani docenti dell'ateneo, sfociato nella diaspora di alcuni dei migliori professori della nuova generazione, e culminato nella nota disputa tra il Grandi e Bernardo Tanucci sull'origine del codice fiorentino-pisano delle Pandette. Nessun dubbio, in questo frangente, sulla sostanziale fedeltà del F. al maestro, che tenne regolarmente informato, tra il 1728 e il '31, delle mosse di amici e avversari - rappresentati i primi dal medico P. Giannetti, da G. Averani e dall'auditore dello Studio e gran maestro dell'Ordine stefaniano Pier Francesco Ricci, i secondi, oltre che dal Tanucci, dal giurista A. Padroni e dal matematico C. Rollo. In questo contesto il F. suggerì più volte al Grandi di ricorrere direttamente al granduca, Gian Gastone de' Medici, finendo però, di fronte all'esasperarsi del conflitto, per consigliargli di smorzare la polemica.
In seguito i rapporti con il Grandi si deteriorarono, giungendo alla completa rottura prima del 1740: forse a causa della "gelosia" e dell'insenilimento dell'antico maestro, come sostengono le Memorie per servire alla vita del p. abate Guido Grandi (p. 23), riprese dal Lami nell'elogio postumo del F. (Novelle letterarie [Firenze], XXVI [1765], coll. 562-565), o per cagione dell'indole del personaggio, "singolare" e "capo di sistema nella fisica" e nella logica (ibid., col. 563), ma anche schietto e combattivo, "generoso amico e generoso nemico" come ebbe a ricordarlo, con assai più calore, Giuseppe Bencivenni Pelli, che fu suo allievo e che lo definì nel proprio diario "vero filosofo di merito… e molto bravo nella storia naturale", attribuendone il carattere "sospettoso" alle "sofferte molte persecuzioni" (G. Pelli Bencivenni, Efemeridi, s. 1, XIV, Firenze, 4 maggio 1765, p. 67). Quel che è certo è che i contrasti con il Grandi sono riconducibili anche a importanti dissensi sul piano del metodo scientifico e, in particolare, al progressivo e sempre più insistito rifiuto, da parte del F., del modello geometrico-corpuscolare nell'indagine sulla materia e le sue proprietà. Dissapori e attriti con l'ambiente accademico pisano non si attenuarono negli anni Quaranta e Cinquanta, come dimostrano il conflitto con l'abate Zanobi Cateni, successore del Grandi alla guida del monastero di S. Michele in Borgo, che tentò di escluderlo dall'insegnamento, e le divergenze con il provveditore dell'università, Gaspare Cerati (Arch. di Stato di Firenze, Reggenza, f. 639, Pisa, 26 febbr. 1747; cfr. anche Carranza, Monsignor G. Cerati, p. 280).
Non venne mai meno, frattanto, l'impegno del F. sul fronte della ricerca fisica e storico-naturalistica. Tra il 1731 e il 1759 le lettere a Giovanni Targioni Tozzetti, che fu per qualche tempo suo allievo, lo mostrano attento a indagini botaniche, microscopiche e cristallografiche, al reperimento e allo studio dei fossili nelle campagne pisane e nel Volterrano, all'analisi del corallo - di cui congetturò acutamente, e in dissenso dal Targioni Tozzetti, la natura animale (Firenze, Bibl. naz., Mss. Targioni Tozzetti, 160, Ins. 1, lettera da Pisa, 8 nov. 1751) -, dedito a ricerche ottiche di derivazione newtoniana e all'indagine, allora d'avanguardia in campo fisico, dei problemi concernenti la dinamica dei fluidi: tematiche destinate tutte a confluire nelle opere a stampa. Inedito, e incompleto per la morte dell'autore, è invece il Racconto di un sogno filosoficamente cosmologico, contenente ardite ipotesi geomorfologiche in contrasto con il testo biblico, inviato al confratello Guido Vio (E. Vaccari, Giovanni Arduino (1714-1795). Il contributo di uno scienziato veneto al dibattito settecentesco sulle scienze della terra, Firenze 1993, pp. 196-199).
Se quasi certamente non sua è la Lettera… in cui si esamina il taglio della macchia di Viareggio (Pisa 1739), a lui riferita dal Melzi sulla scorta dell'Elogio del Bianchi, ma attribuibile al medico senese Pietro Tabarrani in base a una puntualizzazione del F. al Tozzetti (Mss. Targioni Tozzetti, lettera da Pisa del 6 maggio 1740), a lui si devono invece le Due lettere sull'ottica del P. Castel apparse nelle Novelle letterarie del Lami (II [1741], coll. 436-439, 610-619, 629-631) in cui difendeva l'Ottica di Newton, letta nella terza edizione latina (Losanna-Ginevra 1740), dalle accuse del gesuita francese, criticandone gli errori commessi nella ripetizione delle esperienze prismatiche del filosofo inglese, ma ponendo anche in rilievo l'interesse pratico dell'Optique des couleurs del Castel (Paris 1740) nel campo delle arti, e in particolare in quello della tintoria (Novelle letterarie, 1741, col. 619). Quattro anni dopo usciva la Risposta apologetica ad una lettera filosofica sopra il commercio degli olii navigati procedenti da luoghi appestati etc. con l'esposizione e l'esame di essa arricchita di fisiche osservazioni dal p. d. C. F. pubblico professore di filosofia nella università di Pisa, Lucca 1745.
Dedicata al commissario di Pisa, Pier Girolamo Inghirami, la Risposta era frutto della controversia avviata nel 1743 con il medico di Sanità del porto di Livorno, il fiorentino Giovanni Gentili. Quando ancora non era spento il timore per la peste di Messina, il Gentili si era trovato ad attestare formalmente - su richiesta di un mercante inglese di Livorno, Pietro Diharce - l'assoluta innocuità di un carico d'olio proveniente dalle Calabrie e diretto in Inghilterra: dove, secondo le leggi, avrebbe dovuto essere bruciato. Il rifiuto del F. di sottoscrivere l'attestato, avallandone con la propria autorità la validità scientifica, aveva innescato la diatriba spingendo il Gentili a pubblicare una Lettera filosofica sopra il commercio degli olii navigati in cui, non senza ironia, si sosteneva la conformità del proprio comportamento alla normale prassi commerciale e l'eccessivo scrupolo del F., che aveva preteso, invece, trattare l'argomento "da rigido filosofo sperimentatore" (Risposta, p. 75).
Se la reazione del F. apparve già ai contemporanei sproporzionata, e trovò composizione poco dopo con le Lettere di reconciliazione del p. d. C. F. professore di filosofia nella università di Pisa, e del signor d. Giovanni Gentili medico della Sanità di Livorno (Firenze 1746), e se l'eccessiva virulenza dei toni fu subito ammessa dallo scienziato camaldolese, la Risposta offrì però il destro al F. di raccogliere in volume gran parte dei materiali elaborati nelle sue ricerche. Di fatto, il lungo commento alla Lettera del Gentili tendeva a ordinare un'ampia congerie di osservazioni e fondeva scienza ed erudizione entro un quadro dominato da un vigile senso della complessità della natura. Di qui nei trentatré argomenti (Discorsi) trattati, la rilevanza dei problemi medici e igienico-profilattici, che saranno poi alla base dell'influenza del F. su una parte dell'ambiente medico pisano, e l'attenzione ai fenomeni chimico-fisici e meteorologici ("Sopra la causa delle piogge", pp. 272 ss.) che costituiscono, come già notavano i contemporanei (Bianchi, Elogio, pp. 34 s.) la parte più originale dell'opera. E di qui, anche la critica alla iatromedicina, collocabile entro un più generale e motivato antimatematicismo e nell'anticorpuscolarismo che troveranno di lì a poco nella Nova et generalis introductio ad philosophiam (Venezia 1748) la propria fondazione teorica.
Prodotto della pratica didattica universitaria l'opera costituisce un vero e proprio compendio di logica, propedeutico allo studio della filosofia naturale, e tenta di fissare rigorosamente i criteri di distinzione tra vero e falso nel discorso scientifico. Diviso in due parti, il testo distingueva la sfera delle relazioni verbali e cognitive, in cui propriamente consiste il sapere, dal mondo dei fenomeni naturali costituito da sostanze semplici e da forze materiali e immateriali conoscibili per via logico-induttiva a partire dall'esperienza. Se la conoscenza si organizza attraverso successivi tipi di giudizio sulla base dei dati dei sensi, ad attirare le critiche dei contemporanei fu soprattutto l'equivalenza tra percezione e giudizio suggerita dal F. (Bianchi, Elogio, p. 23). Ma, al di là degli aspetti formalistici del suo lavoro, nell'Introductio il F. prendeva posizione su alcune delle questioni più dibattute dalla scienza del primo Settecento: dalla definizione dei concetti di spazio e tempo, di cui il camaldolese rivendicava la realtà ontologica in contrasto con Leibniz, al problema delle forze vive, dove polemizzava con il De Castellis di Giovanni Poleni e con le Istituzioni meccaniche del Grandi affermando che la formula matematica della forza di un corpo consiste nel prodotto della massa per la ragione composta della sua velocità (F = m × v²): formula corretta, ma in contrasto con quella elaborata dagli avversari (F = m × v, corrispondente, in realtà, all'urto tra corpi rigidi). Se altre critiche non risparmiavano il Trattato del moto delle acque del Grandi (Introductio, p. 260), in esse, e in genere in tutto il cap. XV e ultimo (pp. 248 ss.) appariva soprattutto l'insofferenza del F. verso ogni eccessiva formalizzazione in senso geometrico-matematico dell'esperienza, e la volontà sua di giungere per altra via alla comprensione dei fenomeni naturali. Si tratta di una prospettiva non priva di conseguenze positive sul piano delle possibili applicazioni pratiche del sapere - e percorre in questo una delle vie maestre della filosofia settecentesca -, ma che spingeva il F. a generosi quanto poco concludenti tentativi di rifondazione del metodo scientifico su basi qualitative: lontano, cioè, da quella progressiva matematizzazione delle leggi naturali che costituisce uno dei percorsi di fondo della scienza moderna. È comunque vero che il dotto camaldolese non esprimeva, nel complesso delle sue opere, un aprioristico rifiuto dello strumento matematico, quanto il definitivo tramonto del meccanicismo e le difficoltà dell'indagine sperimentale newtoniana davanti all'infinitamente piccolo. Non è un caso che la parte conclusiva dell'Ottica di Newton - certo uno dei testi più noti al F. - contenga, pur tra innumerevoli spunti per la ricerca successiva, soluzioni poco soddisfacenti in tema di struttura della materia e di dinamica dei fluidi: proprio gli argomenti cui il F. ritornò con maggiore insistenza, dai primi accenni nelle lettere al Targioni Tozzetti al trattato Della fluidità dei corpi (Livorno 1754). Lungo questa linea egli si mostrò disponibile verso gli sviluppi più aggiornati della filosofia naturale dell'epoca, sino ad accogliere senza riserve in un opuscolo della maturità alcune delle più suggestive riflessioni di Diderot nelle Pensées sur l'interpretation de la nature (la citazione diderotiana in De ratione philosophica, Pisa 1759, p. 28 e n.; cfr. anche la lettera del F. a G. Federighi, Pisa 3 dic. 1759).
La fortuna non arrise al sistema logico del F., come mostrano i commenti manoscritti in margine a un esemplare della Introductio (Firenze, Bibl. naz., 5.7.70) e l'ostinato silenzio del Lami e delle Novelle letterarie, cui pure egli l'aveva trasmessa sollecitando un estratto in termini accattivanti (Firenze, Bibl. Riccardiana, Ricc. 3728, Carteggio Lami, lettera da Pisa, 25 febbr. 1748). Maggiore interesse destò il Della fluidità dei corpi (1754). Dedicato al capo della Reggenza lorenese in Toscana, Emanuele di Richecourt, e frutto anch'esso della pratica didattica universitaria, il saggio si apriva con una prefazione di schietto tono illuminista in cui si ribadiva il fine pratico-utilitario del sapere, nonché la funzione delle accademie scientifiche settecentesche "che il giogo e la pedanteria delle scuole con sovran protezioni hanno scosso" (p. IX). Se non erano spenti gli echi delle polemiche che circondavano il F. a Pisa, queste pagine sancivano soprattutto l'alleanza tra dotti e governi tipica dell'età delle riforme e riflettevano l'esperienza dell'autore al centro di una fitta trama di rapporti con personalità dell'aristocrazia non soltanto toscana e con esponenti di rilievo della Reggenza: tra i primi ricordiamo Gian Rinaldo Carli e Agostino Lomellini, Giulio Mozzi e la sua compagna, lady Margaret Walpole, Alberico Archinto, cardinale e nunzio in Polonia, e il futuro doge di Genova Giovan Battista Negroni; tra i secondi, oltre al già citato Federighi, Stefano Bertolini e Giulio Rucellai, che nel 1760 si adoperò per favorire l'"uscita d'Egitto" del F., cioè il trasferimento dal convento di S. Michele in Borgo alla nuova residenza presso il nobile pisano Cammillo Ruschi (Milano, Bibl. Ambrosiana, Mss. Z. 391 sup., lettere al Federighi da Pisa, 28 marzo e 14 apr. 1760; Bianchi, Elogio, pp. 53, 57).
Frattanto il Della fluidità dei corpi ribadiva in forma organica l'avversione per tutte le filosofie corpuscolari e l'indicazione della pratica sperimentale e del "senso comune" quali vie maestre per l'indagine scientifica. Scaturiva di qui anche la pur garbata critica al d'Alembert che al corpuscolarismo si era attenuto in due recenti scritti, l'Essai d'une nouvelle théorie de la resistance des fluides (Paris 1752) e le Reflexions sur la théorie de la résistance des fluides lette all'Académie des sciences nel 1751. A essi il F. contrapponeva una filosofia naturale fondata sulle forze di attrazione e repulsione e una concezione della natura ricca di implicazioni metafisiche ed esoteriche. Più utili le numerose osservazioni del trattato sull'elasticità e la pressione dei fluidi, sulla natura dell'aria e dei gas e sul comportamento dei metalli e dei sali solubili: ricerche che contribuirono all'impulso dato dal F. allo sviluppo della chimica nell'ateneo pisano e che ne favorirono l'ascrizione a numerose accademie, tra le quali, come socio corrispondente, l'Accademia delle scienze di Parigi.
Personalità complessa e ricca, il F. fu soprattutto un filosofo naturale, che seppe attirare la stima di illustri contemporanei. Non gli mancarono, però, interessi di tipo etico e politico. Lo dimostra la fitta corrispondenza con il Federighi negli ultimi sei anni della sua vita, che lo mostrano attento lettore degli illuministi francesi - da Voltaire a Rousseau, da d'Alembert a Buffon a Diderot e all'Encyclopédie - e assai legato alla cultura livornese tramite il mercante Luigi Michel, che gli fu amico fraterno, il bibliofilo George Jakson, che spesso lo ospitò e che gli aprì la propria biblioteca. Risalgono a questo contesto, come ha ricordato Franco Venturi, gli entusiastici giudizi del F. sulla Lettre à Christophe de Beaumont di Rousseau ("la più bella e nerboruta di quante io ne abbia lette", lettera al Federighi del 22 giugno 1764, in F. Venturi, Un'edizione italiana del "Contract social" e della "Lettre à Christophe de Beaumont" di J.J. Rousseau, in Riv. stor. ital., LXXXVII [1975], pp. 571-574), nonché i rapporti con Giuseppe Aubert e la lettura partecipe della princeps del Dei delitti e delle pene di C. Beccaria (lettere al Federighi, 24 giugno, 1 e 9 luglio 1764), egualmente favorevoli furono i commenti alla lettura del Caffè e delle Meditazioni sulla felicità di P. Verri, che gli furono donati, freschi di stampa, da un mercante scozzese di Livorno, Robert Rutherfurd, molto amico del residente inglese a Firenze, Horace Mann, e probabilmente massone: lo stesso che gli fu accanto sul letto di morte (lettere al Federighi, 8 e 25 ott. 1764; e Pelli Bencivenni, Efemeridi, p. 69).
Il F. morì a Pisa il 29 apr. 1765.
Numerose opere inedite del F. sono conservate presso la Bibl. univ. di Pisa, Mss., n. 11: Ars bene cogitandi quam adm. R. Claudius Fromond in Pisano athenaeo logicae professor celeberrimus tradidit anno Domini MDCCXLIV audiente Antonio Chiarugi Prati almi collegii Ferdinandi convictore et medica facultate incumbente, cc. 78; n. 18: Institutiones physicae (adespote); nn. 27-28: Adm. rev. patris Claudii Fromond ex monacis camaldulensibus, et in Pisana Academia publici professoris celeberrimi "Insitutiones physicae", I, Pisis 1751; II, Ibid. 1756; n. 1084: Instituzioni fisiche dettate dal p. C. F. lettore in Pisa, 1750-51; nn. 123-128: Opera (6 tomi).
Oltre a quelle citate, altre opere a stampa del F. sono: Examen in praecipua mechanicae principia, Pisa 1758; De ratione philosophica, qua instrumento mechanica generatim conferunt potentiarum actionibus corroborandis vel enervandis, Ibid. 1759; Sentimento del fu d. p. C. F. cremonese, stato lettore nell'università pisana, intorno alla possibilità del lume perpetuo, in Magazzino toscano, XXV (1776), pp. 21 ss.; si segnala anche una relazione sulla salubrità delle colmate della celebre tenuta di Bellavista, di proprietà del marchese Francesco Feroni, inserita in una raccolta di Giovanni Targioni Tozzetti, Ragionamento sopra le cause e sopra i rimedi dell'insalubrità d'aria della Valdinievole, II, Firenze 1761.
Fonti e Bibl.: M. Ziegelbaur, Centifolium camaldulense, Venezia 1750, p. 33; G.G. De Soria, Raccolta di opere inedite…, I, Livorno 1773, p. 179; G. Calvi, Commentarium inserviturum historiae Pisani Vireti botanici Academici, Pisis 1777, p. 190; A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium…, Pisis, poi Lucae, 1778-1805, XIV, pp. 256-275; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri…, VI, Venezia 1837, pp. 487-91; G. Melzi, Dizionario delle opere anonime e pseudonime, II, Milano 1863, p. 82; C. von Wurzbach, Biographisches Lexikon…, IV, pp. 383 ss. La ricostruzione più ricca della biografia del F. resta I. Bianchi, Elogio storico del p. d. G.C. F.…, Cremona 1781. Utile anche il ricordo di G. Pelli Bencivenni, in Firenze, Bibl. naz., Mss.N.A. 1050, s. 1, Efemeridi, XIV, pp. 67 ss., in data 4 maggio 1765. Da vedere inoltre le anonime Memorie per servire alla vita del p. abate d. Guido Grandi, camaldolese, Massa 1742, pp. 22 s.; V. Lancetti, Biografia cremonese, in Cremona, Bibl. statale, ms. 7.8, ad vocem; F. Griselini, Breve elogio del p. G. F., in Giorn. d'Italia, spettante alla scienza naturale e principalmente all'agricoltura, II (1766), pp. 38 s.
Per la corrispondenza del F. si veda: Pisa, Bibl. univ., Mss., n. 91: Lettere al padre Guido Grandi, IX, cc. 263-342 (cinquantotto lettere del F. a G. Grandi, scritte tra il 1 genn. 1727 e il 22 nov. 1734); Milano, Bibl. Ambrosiana, Mss. Z. 391 sup. (duecentoquarantotto lettere a Giovanni Federighi, dal 1 luglio 1759 al 18 marzo 1765); queste lettere - di fondamentale importanza per la biografia del F. - sono trascritte nella tesi di laurea di R. Luccherini, Un professore pisano: C. F. nei suoi carteggi inediti, Università di Pisa, Facoltà di lettere, a.a. 1976-77. Altre missive con uomini di cultura e scienziati sono conservate a Firenze, Arch. Baldasseroni, Lettere ad A. Cocchi, codd. 179/2; 166/2; 107/2; 86/2, 20 luglio 1742 - 28 ott. 1744; Arch. di Stato di Firenze, Carteggio Pelli Bencivenni, 1122, lettera del 28 dic. 1761 (segnalata in Lettere a F. Pelli Bencivenni 1747-1808, a cura di M.A. Timpanaro Morelli, Roma 1976); Reggenza, f. 639 (lettera in data 26 febbr. 1747); Firenze, Bibl. Marucelliana, Mss. B. I., 27, V. 9, c. 296; B. III, 40, I. 28; Ibid., Bibl. naz., Mss. Targioni Tozzetti, 160, ins. 2 (21 lettere a G. Targioni Tozzetti, 1734-59, segnalate in T. Arrigoni, Uno scienziato nella Toscana del Settecento: Giovanni Targioni Tozzetti, Firenze 1987, pp. 77, 116); Ibid., Bibl. Riccardiana, Ricc. 3728 (quindici lettere a G. Lami, 1741-52); Modena, Bibl. Estense, Archivio muratoriano, f. 64, ins. 39 (una lettera a L.A. Muratori del 20 maggio 1745); Roma, Bibl. Corsiniana, Mss. 2018; 1570; 1637 (tre lettere a G. Bottari); Siena, Bibl. comunale degli Intronati, D.VI.14 (trenta lettere a O. Nerucci, 1743-64).
F. Robolotti, Storia e statistica economica medica dell'Ospitale Maggiore di Cremona. Libri tre, Cremona 1851, pp. 171-175; L. Ferrari, L'epistolario manoscritto del padre G. Grandi, in Arch. stor. ital., s. 4, XXXIII (1906), p. 231; C. Fedeli, L'insegnamento della fisica nella università di Pisa, in Il Nuovo Cimento, s. 6, X (1915), p. 74; G. Capone Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, II, Padova 1942, pp. 38 s.; M. Rosa, Encyclopédie, lumières et tradition au 18e siècle en Italie, in Dix-huitième siècle, 1972, p. 116; N. Caranza, Mons. G. Cerati provveditore dell'università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa 1974, pp. 280 e n., 281, 339, 362; U. Baldini, L'attività scientifica nel primo Settecento, in Storia d'Italia (Einaudi), Annali, III, Torino 1980, pp. 466 s., 517; L. Firpo, Le edizioni italiane del "Dei delitti e delle pene", in C. Beccaria, Ediz. naz. delle Opere, I, Milano 1984, pp. 387 ss., F. Venturi, Settecento riformatore, V, 1, L'Italia dei lumi (1764-1790), Torino 1987, pp. 660, 661 n.; M.A. Timpanaro Morelli, A Livorno, nel Settecento. Medici, mercanti, abati, stampatori: Giovanni Gentili (1704-1784) ed il suo ambiente, Livorno 1997, pp. 35 s., 40, 73 s.; A. Savorelli, La filosofia (1737-1860), in Storia dell'Università di Pisa, II (in corso di stampa, 1998).