CARMIGNANI, Giovanni
Nacque il 31 luglio 1768 a San Benedetto a Settimo, nel contado pisano, da Giovanni Antonio, fattore, e Maddalena Barsacchi. La prima formazione fu quella tipica di tanti giovani del suo ceto, promossi agli studi attraverso le istituzioni ecclesiastiche e l'opera capillare dei religiosi. Ricevette infatti a Firenze i primi rudimenti "da un buon Sacerdote" (Pardini, p. V); entrò poi a undici anni nel seminario di Arezzo. Durante gli anni della "clausura" aretina si definì uno spiccato interesse per la letteratura, anche latina (cfr. ad es. la lettera a M. Ferrucci del 30 ott. 1784, Pisa. Bibl. univ., ms. 674, n. 103, 2), e per il teatro, sicché, "sprofondato nella lettura dei poeti drammatici francesi" - come scrisse in una perduta autobiografia -, si diede "alla composizione di melodrammi e tragedie", e persino di un poema ariostesco, intitolato Orlandino.
Nel 1786 si iscrisse alla facoltà giuridica dell'università di Pisa, dove seguì con particolare impegno l'insegnamento del Lampredi, continuando tuttavia a coltivare interessi culturali più ampi. Frequentò infatti i corsi del Pignotti, che gli assicurò poi a lungo il suo appoggio e del quale più tardi doveva scrivere un commosso ricordo, e ascoltò le lezioni di scienze mediche e naturali del Santi e del Vaccà.
Il teatro rimase la sua passione dominante, tanto che nel 1789 poté pubblicare una tragedia, Polissena, da cui le Novelle letterarie fiorentine (XXI [1790], col. 129) traevano auspici per il "Toscano coturno" circa la nascita di "un buon Tragico". La tragedia fu rappresentata lo stesso anno a Firenze con un certo successo e suscitò qualche letteraria polemica, di cui è traccia nell'edizione a stampa.
Nel 1790, conseguita la laurea in legge, il C. intraprese l'esercizio dell'avvocatura a Firenze, nello studio dell'avvocato Landi e poi per conto dell'avvocato Vivoli. Contemporaneamente, incominciò a frequentare il salotto di Eugenia Bellini, nipote del Cocchi, dove s'incontravano vecchi esponenti del riformismo leopoldino, futuri protagonisti del '99 in Toscana e più moderati seguaci dei lumi, destinati a orientare la cultura della Restaurazione.
Il decennio trascorso a Firenze, durante le tumultose vicende che si succedettero dalla Rivoluzione francese alla dominazione napoleonica, che scossero anche quegli intellettuali toscani, formatisi nell'atmosfera pacata e protetta dell'assolutismo modernizzante di Pietro Leopoldo, posti al riparo, negli anni della reggenza, dai "veleni" giacobini diffusi nei maggiori centri italiani ed europei, consolidò e rafforzò molti elementi tipici della sua formazione, definitasi tra il riformismo prudente del tardo illuminismo toscano e il liberalismo moderato della Restaurazione. Se infatti l'ambiente pisano dei giuristi e degli scienziati dell'università rimandava certo a indirizzi aperti verso il pensiero europeo, ma non staccati da premesse teologiche e filosofiche di natura conservatrice, né disposti ad abbandonare troppo facilmente il porto tranquillo dell'erudizione, altrettanto indicativi sono i rapporti di amicizia e di confronto intellettuale, stabiliti nei circoli letterari a Firenze sul finire del secolo.
In questo senso, i legami stretti con l'abate Fontani, bibliotecario della Riccardiana, o con Giovanni Rosini, poi professore di eloquenza a Pisa, col quale tra l'altro doveva discutere Sul vero senso di quel verso di Dante "Poscia più che il dolor poté il digiuno" (Pisa 1826), testimoniano d'interessi letterari, classicistici e preromantici, che si costituirono come un riferimento stabile della sua cultura, destinato ad incidere sugli stessi scritti giuridici e ad assicurargli una fama cospicua, tanto da consigliare, ad esempio, una sua perizia durante una causa per la falsificazione di autografi tassiani, che si trascinò dinanzi alla Rota romana a partire dal 1839e mise a rumore il mondo delle lettere (Bibl. Apost. Vat., Vat. lat.9187, f. 18).La partecipazione ai dibattiti letterari non fu dunque un fatto episodico nella sua produzione scientifica, ed è confermata nonsolo dai ripetuti interventi, con brevi saggi o con articoli sulle riviste specializzate (notevole quello sul NuovoGiornale de' letterati, nn.15 e 16, intorno ai Promessi Sposi nel 1826), ma anche dal suo vasto carteggio, in cui ricorrono tra i corrispondenti Monti e Bettinelli, Niccolini, Giusti, Guerrazzi, Tommaseo e Vannucci.
Appunto dalle discussioni che si svolgevano nei circoli dotti a Firenze derivo una contesa letteraria con Ridolfo Gianni intorno alle origini delle società civili. Alle tesi contrattualistiche del suo contraddittore, il C. oppose un discorso risolutamente antirousseauiano, che costituì molto probabilmente il primo abbozzo del Saggiosulla teoria delle leggi civili, pubblicato a Firenze nel 1794. Il C. echeggiava qui i motivi tradizionali del giusnaturalismo sei-settecentesco, polemizzando, ad esempio, sulla scorta del Pufendorf, contro le ipotesi di uno stato naturale selvaggio dell'uomo, che egli ritrovava in Hobbes e in Rousseau. All'idea di quest'ultimo, di una comunione primitiva dei beni, contrapponeva l'affermazione, derivata da Locke, della proprietà come "base di tutti i rapporti sociali" e delle leggi civili come strumento "per aumentare, e conservare la somma di questa proprietà", che costituiva per lui "il vero Palladio sociale".
Dalle posizioni del C. emergeva una chiara preoccupazione conservatrice, come quando affermava che i ragionamenti da lui criticati rischiavano di abolire ogni principio di moralità, generando un pericoloso e "totale disordine". Analogamente, il successivo Saggio di giurisprudenza criminale, pubblicato a Firenze nel 1795 sulla scia delle discussioni suscitate dall'opera del Romagnosi - e più tardi ripudiato per la presenza di un capitolo favorevole alla pena di morte, che aveva scritto su consiglio di L. Pignotti per compiacere al governo toscano -, respingeva il tentativo del Beccaria di ricercare il fondamento del diritto di punire "nelle ombre chimeriche di un preteso patto sociale" e osservava che nella scienza criminologica, si era diffuso "uno spirito forse troppo esaltato di umanità e di compassione", dannoso per la protezione dell'ordine e della sicurezza sociale. Tuttavia i suoi scritti rivelavano anche una conoscenza larga ed approfondita, non senza rilievo nella Toscana del temposuo, della letteratura storica e filosofica dell'illuminismo francese e inglese.
Il precedente diretto del razionalismo giusnaturalistico, che ispirava questi due lavori, risiedeva nell'opera del Lampredi, che già si era orientata verso un tentativo di conciliazione del dottrinarismo, sistematico pufendorfiano e wolffiano con le esigenze empirico-sperimentali della tradizione toscana scientifica o erudita, rinnovata e vivificata dall'incontro con le grandi opere dell'illuminismo europeo.
Dai due saggi giuridici, corrispondenti del resto al tipo di cultura dei professori pisani sul finire del secolo, il C. sperava già allora di ottenere una cattedra a Pisa. In suo favore si adoperò anche l'Alfieri presso il Fabroni, ed anzi il C., con qualche forzatura della cronologia, ricordava nell'autobiografia: "E sì ch'io mi ingegnai di piacergli, esibendomi collaboratore al suo Giornale de' letterati, pel quale scrissi sull'opera del Dussault [sic] Mes rapports avec J. J. Rousseau". Tuttavia non riuscì a vincerne la diffidenza: "perché il Fabroni mi tenea tra i reprobi e mi aveva certo condannato alle tenebre eterne" (Cian, p. 343).
L'incontro con Vittorio Alfieri fu l'elemento di maggior spicco del periodo fiorentino. Ammesso ad una confidenza assai lusinghiera, il C. partecipò nelle vesti di David alle rappresentazioni del Saul, che si tennero presso la Bellini, e poi nel '91, nel '95 e nel 1804 a Pisa, in case private.
In una lettera al Bianchi del marzo 1793, l'Alfieri esprimeva il suo apprezzamento per la recitazione del giovane, ma anche un indicativo dissenso, che coinvolgeva aspetti importanti del modo d'intendere l'arte teatrale. Su questo punto, l'autobiografia del C. conservava ulteriori dettagli, mentre giudizi rappresentativi dei suoi gusti teatrali ricorrono spesso negli articoli e nelle lettere.
Il C., del resto, sviluppò ampiamente le proprie vedute in una Dissertazione critica sulle tragedie di Vittorio Alfieri (Pisa 1806), premiata dall'Accademia Napoleone di Lucca e divenuta ben presto un punto di riferimento obbligato nell'ambito della prima critica alfieriana.
Il saggio del C. conferiva una voce esplicita a tutto un tessuto di riformismo letterario prudente, sospeso tra neoclassicismo e poetica dei sentimenti, tra riaffermazioni edonistiche del buon gusto e riconoscimenti preromantici dei diritti della passione.
Esso ottenne un successo vastissimo: piacque al Monti e al Bettinelli, ed interessò anche il Foscolo, assicurando al suo autore una fama durevole nei circoli colti, che in seguito accolsero con favore le sue prove su Dante, su Manzoni e sul Niccolini, come già la Dissertazione critica sulle traduzioni (Firenze 1808), premiata anch'essa dall'Accademia di Lucca e dedicata, con qualche accentuazione sensistica e una patina d'ideologie, a un tema che investiva fortemente in quegli anni la critica letteraria italiana ed europea.
Frattanto, vicende complesse si erano succedute in Toscana e nella stessa biografia del Carmignani. Nel 1799 egli aveva aderito a Firenze al circolo patriottico, che conduceva un'aperta campagna riformatrice. IlMonitore fiorentino pubblicò una sua petizione, nutrita di spiriti umanitari, che invitava le autorità a vigilare sulla salubrità delle carceri (n. 28, 7 fiorile-26 aprile, pp. 109 s.), e una lettera al Rivani (n. 22, 30 germinale-19 aprile, pp. 87 s.), in cui si sollecitava un'azione più energica per proteggersi dai pericoli controrivoluzionari. Nel maggio egli ebbe anche l'incarico di vicario governativo a San Miniato (n. 41, p. 169), sicché, compromesso con il nuovo regime, dové subire alla sua caduta - assieme all'amico Valeri - l'accusa di giacobinismo e una breve relegazione a Volterra. Ritornati i Francesi, conservò un atteggiamento più cauto, rifiutando l'offerta di una cattedra di diritto pubblico - a Pisa e ottentando una cura per gli affari domestici. Si trattava di una scelta coerente col suo richiamo al riformismo leopoldino, espresso già in pieno '99, alla quale si attenne durante il Regno d'Etruria, mentre le accuse di radicalismo investivano molti amici pisani. Rifiutò quindi incarichi pubblici troppo esposti e respinse la possibilità di entrare nel Corpo legislativo, che definì in seguito "strumento passivo di prepotente volere" (autobiografia). Ancora nel 1808 evitò una nomina nella magistratura, per non dover pronunciare "sentenze di morte in opposito ai principi che professava". Accettò invece una cattedra a Pisa di diritto penale, offertagli nel 1803 dall'auditore Pignotti, che mantenne sino al 1840, per poi passare sino al 1843 alla cattedra allora istituita di filosofia del diritto.
Mantenne l'insegnamento senza interruzioni, se si esclude un lungo viaggio a Parigi nel 1813. Col decreto del 9 nov. 1814, restaurati i Lorena, fu confermato senza difficoltà sulla cattedra e dette mano da allora a una produzione vastissima, cui accompagnò sempre un'intensa attività professionale (della quale spesso lamentava il peso nelle sue lettere) e una costante partecipazione a numerose iniziative editoriali.
Nel 1825-26 ebbe anche un leggero screzio con le autorità per motivi strettamente accademici, che il granduca cercava di fargli dimenticare con vaghe allusioni a una sua chiamata a Firenze, nel quadro del potenziamento di quella università su tutte le altre toscane (lettera al Valeri del 12 luglio 1826: Scalvanti, pp. 231 s.). In realtà, egli stesso credette assai poco alle offerte d'incarichi pubblici, di cui corse voce per un momento, e date per certe dai successivi biografi e apologisti.
Fin dal 1825, infatti, aveva scritto al VaIeri: "né credo poi che a Firenze si pensi tanto a me da non lasciarmi nell'ozio, nel quale mi trovo" (ibid., pp. 219 s.), sicché preferì sempre restare lontano da ogni coinvolgimento politico, contrastante del resto col quietismo e la moderazione delle sue idee liberali, che assumevano toni più accesi solo intorno al problema della censura, patita ogni volta con insofferenza, come testimonia vivissimamente l'epistolario.
Simili inclinazioni traspaiono anche nei rapporti stabiliti in virtù dell'insegnamento pisano. Tracce scarsissime rimangono degli incontri, che pure vi furono, col Leopardi e con il Giordani, mentre il Tommaseo lo giudicò addirittura un "ingegno servile", che "troppo docilmente piegò le proprie dottrine a seconda dei tempi", riferendosi forse, non del tutto a torto, al suo desiderio di guadagnarsi protezioni influenti sotto la reggenza e sotto i Bonaparte (ne fu al corrente anche il Monti), come sotto i Lorena. Così tra i suoi allievi, mentre predilesse il Del Rosso e soprattutto il Forti, di cui rimpianse sovente la perdita prematura, ricordandolo come "il più valoroso de' miei scolari, che io mi abbia mai avuto" (lettera al Mittermaier del 19 marzo 1841: Heidelberg, Universitätsbibl., Heidelb. Hs.3468, cc. n. n.), cessò ben presto ogni relazione con il Guerrazzi, con cui ebbe una dura polemica su una sua tragedia nel '26; diradò quelle con altri livornesi più radicali, come Giuliano Ricci; giunse a rottura aperta con il Montanelli; si scontrò col Frangi e con A. Bottone di San Giuseppe, del quale diffidò anzi fin dall'inizio, giacché è lui il "girellone americano", di cui è traccia nelle lettere al Valeri del 1822 (Scalvanti, pp. 210, 212).
Non può dunque stupire il suo netto antifrancesismo, accentuatosi via via nel tempo, e tuttavia costante nelle lettere e negli scritti, indirizzato contro la Rivoluzione e il dispotismo dei Bonaparte, ma espresso anche con le ripulse verso la legislazione francese (rimasero inedite le sue annotazioni critiche al codice penale, giudicato sempre negativamente) e verso le opere di una "gens ventosa", che gli facevano scrivere al Mittermaier: "Dal Beccaria in poi non ho veduto uscir di Francia un libro in criminale che vaglia" (14 dic. 1836: Heidelb. Hs.cit.). Ne derivavano conseguenze anche sul piano scientifico, che possono misurarsi in pieno, se si consideri la sua avversione per il jury, manifestata nelle opere penalistiche con piena coscienza della rilevanza europea di un similetema, ed argomentata ulteriormente in alcune lettere, che sono tra le più significative del suo carteggio. Il suo ideale fu sempre la legislazione di Pietro Leopoldo, di cui fornì un'illustrazione diffusa sulla Kritische Zeitschrift für Rechtswissenschaft und Gesetzgebung des Auslandes nel 1829 e nel 1830 (pp. 345-384 e 385-414), e che apprezzò in genere con toni che dicono molto sul suo patriottismo, più spesso regionalistico che nazionale. In questo senso, il C. può considerarsi tra i primi che, accreditarono il mito, poi divenuto corrente tra i moderati toscani, delle riforme leopoldine come quelle che, "tutto facendo per il popolo in prevenzione del pericolo che il popolo faccia tutto da sé…, produssero alla Toscana vantaggi che altrove una sanguinosa rivoluzione diretta a ottenerli non tutti poté conquistare" (Scritti inediti, III, p. 175).
Si trattava dunque di una cultura justemilieu, ilcui eclettismo fu funzionale al suo stesso moderatismo, non di rado incline, specie dopo il '31, a marcate spinte conservatrici. Non a caso nel terzo decennio del secolo essa coincise con i programmi dell'Antologia (la collaborazione del C. è documentata anche da un fitto carteggio con il Vieusseux) e del NuovoGiornale de' letterati pisano, di cui scrisse l'editoriale per il primo numero nel '22 e in cui assunse responsabilità dirigenziali. Sicché si comprende non solo la valutazione riduttiva, fornita al Vieusseux circa la cessazione di questa rivista, con una sostanziale incomprensione dei più profondi processi che scuotevano la società italiana (lettera dell'11 marzo 1840: Firenze, Bibl. naz., Cart. Vieusseux, cass. 18, n. 150), ma anche la pronta adesione al progetto dell'Archiviostorico, che - come è noto - rappresentò un esplicito ripiegamento di tutto il gruppo della Antologia.
Un punto ancora deve essere sottolineato negli orientamenti del C., e cioè il tentativo, fosse anche timido, di radicare la propria cultura in un rapporto più stretto coi contesti produttivi e politici della società toscana. Se si pensa al sostrato "agrario" di quei circoli liberali, va considerato con attenzione il tono del suo interessamento per l'economia politica, il liberalismo in tema di commercio dei grani, l'attenzione infine per il diritto "rurale", che si concretò in una recensione al Vaudoré sul NuovoGiornale de' letter.(t. IX [1824]) in un progetto inedito di Codice di polizia rurale, del 1813, ed in un parimenti inedito Saggio didiritto rurale. Anche l'evoluzione della borghesia toscana moderata da classe meramente agraria a classe speculativo-finanziaria, trovò un riscontro, non casuale, in una sua Apologiadelle concezioni sovrane per le strade ferrate in Toscana, pubblicata a Pisa nel 1846.
Tuttavia la parte maggiore della sua opera fu dedicata al diritto penale e alla filosofia del diritto. Inserita in un confronto europeo coi più noti penalisti del tempo, che ha pochi eguali nell'Italia della Restaurazione, essa riuscì a fornire, con le cinque edizioni degli Elementa iuris criminalis, continuamente arricchiti mediante aggiunte e modifiche, una definizione di molte teorie ed istituti assai controversi (il fondamento del diritto di punire e la sua "politica necessità", la classificazione dei delitti, la distinzione tra imputazione e pena e tra "qualità" e "grado" del delitto, la teoria del "conato", la valutazione dei vantaggi e dei limiti del sistema inquisitorio ed accusatorio, ecc.), e soprattutto una sistemazione complessiva dell'intera dottrina del diritto penale e dei suoi fondamenti filosofici, egualmente lontana dalle tradizioni rigidamente utilitaristiche dell'illuminismo e dalle commistioni etiche dei kantiani. Il Carrara vi riconobbe non solo un'opera di evidente efficacia didattica, ma anche uno spirito di sistema, un'esattezza del metodo e una conseguenzialità logica dello stesso rigore di "una matematica", che faceva del suo autore il vero "riordinatore del giure punitivo", il "fondatore dell'insegnamento filosofico del diritto penale", o, come poi si disse per tutto il secolo, della scuola classica del diritto penale.
La prima edizione degli Elementa, pubblicata a Firenze nel 1808, conteneva solo la trattazione della parte generale e fu completata da un secondo volume nel 1814. Nel 1819 comparve a Pisa la seconda edizione, largamente rimaneggiata e seguita poi da altre tre, sino alla quinta, pisana, del 1833-34. Nel 1822 ne apparve anche un Compendio in italiano fra i Trattatie memorie di legislazione e giurisprudenza criminale stampati a Firenze, mentre nel 1847 a Malta l'allievo Caruana Dingli ne pubblicò una traduzione italiana completa, controllata e qua e là integrata dallo stesso autore, che fu la base di successive ristampe.
Tuttavia l'opera più importante di diritto penale furono i quattro volumi della Teoria delle leggi sulla sicurezza sociale, Pisa 1831-32, che si impose come una delle maggiori trattazioni penalistiche dell'Ottocento.
Essa ebbe numerose recensioni: meno impegnative quelle del Mittermaier e del Rauter sulla Revue étrangère et française de législation et d'économie politique (I [1834], pp. 147-156; IV [1837], pp. 38-48), alle quali comunque dovette principalmente la notorietà all'estero (cfr. la lettera al Mittermaier del 19 marzo 1834); più rilevanti e di vasto impegno quelle del Montanelli (Nuovo Giornale de' letterati, t. LX [1831] pp. 145 ss.), del Centofanti (Antologia, t. XLVIII [1832], n. 138, pp. 92-137) e del Forti (del 1831, ma uscita postuma negli Scritti varii, Firenze 1865, pp. 714-732), nelle quali venne via via confrontata con gli scritti del Rossi e del Romagnosi e con le correnti filosofiche del pensiero italiano ed europeo.
Nel decennio successivo volle rivolgere il vasto prestigio scientifico conseguito ad orientare l'attività legislativa di vari paesi. Aderendo a un concorso bandito dalle Cortes del Portogallo nel 1835, preparò un Progetto di Codice penale e di Procedura criminale, che però non venne adottato, generando in lui un disappunto di cui è traccia in numerose lettere (fu poi pubblicato postumo nel quinto volume degli Scritti inediti).
Intervenne inoltre con Osservazioni alle Istruzioni per norma dei redattori di un Codice penale Toscano alla fine del '39 (ibid., VI) e nel 1846 con un Parere sopra un Progetto di riforma del regolamento di procedura penale vigente nello Stato pontificio, del quale si era occupato fin dal 1838 (ibid.).Tra gli altri suoi scritti minori, particolare fortuna ebbe una Lezione accademica sulla pena di morte, Pisa 1836, pronunciata lo stesso anno nell'università con gran concorso di giovani e di studiosi.
Nel 1840, passato ormai ad insegnare filosofia del diritto, si dedicò pienamente alla realizzazione di un programma scientifico già adombrato in una lettera al Valeri del 1817 (Scalvanti, pp. 178 s.) e via via precisato nel corso degli anni, lungo il filo di una riflessione percorribile attraverso tutta la sua esperienza. Nel 1841 pubblicò a Pisa il Prodromo di un insegnamento della filosofia del diritto, mentre rimasero inediti i Iuris philosophiae lineamenta, di cui lo Scalvanti fornì una minuta descrizione. Il suo impegno maggiore era però dedicato ad una storia dell'eloquenza forense, mai compiuta, alla quale attendeva sin dal 1828 (nel primo volume delle Cause celebri, Pisa1843-47, comparve solo una breve Escursione storico-giuridica sulle vicende della eloquenza giudiziaria antica e moderna, che introduceva la raccolta delle sue allegazioni), e soprattutto ad una Storia della origine e de' progressi della filosofia del diritto, che poi occupò i primi quattro volumi degli Scritti inediti (Lucca 1851; il quinto ed il sesto si aggiunsero nel '52).
La Storia si arrestava alle soglie del proprio secolo, rivelando i limiti di una cultura sempre ancorata alle sue radici settecentesche, rimasta chiusa agli sviluppi recenti dell'idealismo (nei suoi scritti non v'è traccia di Hegel, né della filosofia tedesca dell'identità), arrestatasi tra ostile e perplessa di fronte a Kant, che criticava aspramente nel volume IV (pp. 40 ss.) e la cui filosofia giudicava persino "incomprensibile" in una lettera al Fornaciari del 19 genn. 1844(Firenze, Bibl. naz., Cart. vari, cass. 47, n. 176).Il nome di Vico acquistava qui un rilievo particolare, contribuendo a definire i caratteri di uno storicismo che avvicinava Montesquieu a Machiavelli ed accomunava Dante e Vico, lungo il filo di una tradizione ininterrotta, caratterizzata da un costante razionalismo, da un'aura di spiritualismo cattolico e da un'inclinazione alla storia ed all'erudizione. In tal modo il C. si collocava con una posizione non marginale nell'ambito del primo vichismo ottocentesco, accogliendo anzi gli echi di un dibattito assai più ampio, cui certo dové avvicinarlo in parte anche l'amicizia con Pietro Capei. Egli fu tra i primi in Italia a studiare il Savigny (Cart. Vieusseux, cass. 18, n. 98: 2dic. 1828), recensì Herder (Nuovo Giorn. de' lett., VIII [1829], n. 18) e s'interessò al Niebuhr (Cart. Vieusseux, cass. 18, n. 135: 1º febbr. 1830), conquistandosi un posto di rilievo negli sviluppi dello storicismo tra Sette e Ottocento.
Ma i tempi andavano rapidamente mutando e sfuggivano alla comprensione del suo pensiero. Morì a Pisa il 29 apr. 1847. Pochi giorni dopo, gli studenti dell'università trassero spunto dalla cerimonia solenne della sua sepoltura per inscenare una manifestazione politica contro le numerose autorità convenute.
Fonti e Bibl.: Con la distruzione, nel corso dell'ultima guerra, del palazzo sul lungarno pisano, sembra ormai perduto l'archivio del C., cui attinsero vari biografi e nel quale si conservavano molte opere inedite, un carteggio di proporzioni vastissime e una tarda autobiografia. Di essa, alcuni brani sono riportati in F. Pardini, Cenni biogr. intorno al prof. G. C., premessi alle Cause celebri, I, Pisa 1843, pp. I-XLIV. Ne pubblica dei passi, assieme a lettere a lui dirette (per es. del Monti e del Bettinelli), anche V. Cian, Per la fortuna dell'Alfieri. Docum. e commenti, in Giorn. stor. d. lett. ital., CXXVI(1949), pp. 337-373. Del Cian cfr. anche, per ulteriori dettagli, Vittorio Alfieria Pisa, in NuovaAntol., 16 ott. 1903, pp. 548-589. I carteggi inediti più consistenti sono quelli con il Vieusseux, con il Mittermaier e con vari corrispond. toscani: Firenze, Bibl. del Gabinetto Vieusseux, Copialettere, voll. II, VII, IX, X, XIII, XIX, XX, ad Indices;Firenze, Bibl. naz., Cart. Vieusseux, cass. 18, nn. 96-167; cass. 122, n. 105; cass. 124, n. 28; Cart. vari, cass. 47, nn. 173-177; cass. 53, n. 50; cass. 57, n. 157; cass. 61, nn. 78-79; cass. 65, nn. 29-32; cass. 67, nn. 99-101; cass. 444, n. 97; cass. 453, nn. 4, 8; cass. 480, nn. 79-80; Cart. Capponi, cass. 3, n. 82; Cart. Chiappelli, cass. 11, n. 109; Cart. Tommaseo, cass. 64, n. 85; Cart. Vannucci, cass. 3, n. 93; Heidelberg, Universitätsbibl., Heidelb. Hs.3468; Livorno, Bibl. comun. Labronica F. D. Guerrazzi, Autogr. Bastogi, cass. 12, ins. 656, 804-810, 513. Alcune lettere, di scarso interesse, si conservano a Pisa, Bibl. univ., ms. 674, n. 103 e ms. 973, n. 2, ed all'Archivio di Stato di Lucca, Segr. di Stato e di Gabinetto, b. 201, nn. 232 s. L'ampia raccolta di lettere con il Valeri, custodita tuttora presso la Bibl. univ. di Pisa (ms. 441), fu pubblicata da O. Scalvanti, Saggio sopra alcune opere inedite di G. C. Aggiuntavi una corrispondenza inedita fra C. e G. Valeri, Perugia 1892, che fornisce anche notizie sulle opere mai pubblicate. Varie lettere a Nicola Nicolini sono riportate da F. Nicolini, N.Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del sec. XIX, Napoli 1907. Una lettera al Carrara sul problema della pena di morte è pubblicata nel Giorn. per l'aboliz. della pena di morte, I (1861), pp. 265-267. Altre lettere, in genere di nessun rilievo, sono edite in pubblicaz. minori, mentre di altre ancora è forse possibile il recupero (per es. tutto il carteggio con F. Carrara). Infine lettere del C., a lui dirette o contenenti significative menzioni che lo riguardano, si leggono in: V. Alfieri, Lettere edite e inedite, a cura di G. Mazzatinti, Torino 1890, pp. 254, 257; Lettere di Gino Capponi e di altri a lui, a cura di A. Carraresi, II, Firenze 1886, pp. 206 s.; U. Foscolo, Epistolario, ediz. naz., XV, pp. 304, 425-428; P. Giordani, Lettere, a cura di G. Ferretti, I, Bari 1937, p. 168; F. D. Guerrazzi, Lettere, I, Livorno 1880, pp. 1 ss. (e cfr. anche: A. Mancini, Sulla corrispond. tra F. D. Guerrazzi e G. C., in Riv. di Livorno, I[1951], pp. 284-288); G. Giusti, Epistolario, I, Firenze 1859, p. 169; G. Leopardi, Lettere, a cura di F. Flora, Milano 1955, p. 856; V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, III, Firenze 1929; IV, ibid. 1929; VI, ibid. 1931, ad Indices;N.F. Cimmino, Ippolito Pindemonte e il suo tempo, II, Roma 1968, pp. 495, 506; N. Tommaseo-G. P. Vieusseux, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, Roma 1956, p. 195 (del Tommaseo cfr. anche DiGiampietro Vieusseux e dell'andamento della civiltà ital. in un quarto di secolo, Firenze 1863, p. 31; e Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino 1946, pp. 114, 154, 158). Tra i biografi del C., oltre al Pardini, meritano d'essere segnalati: C. Dingli, Biografia dell'avv. G. C., premessa alla traduzione ital. degli Elementa (Elementi del diritto criminale, Malta 1847, pp. III-XXXIV); F. Ambrosoli, Cenni intorno alla vita e alle opere di G. C., premessi alla edizione milanese degli stessi Elementi (Milano 1863). Notizie e valutazioni critiche, di diversa utilità, forniscono, tra gli altri, G. Montanelli, Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, I, Torino 1853, p. 22; C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze 1862, p. 292; F. Carrara, Cantù e C., in Opuscoli didiritto criminale, II, ediz. di Prato 1878, pp. 595-619 (del Carrara cfir. anche ibid., pp. 621-630; e Programma del corso di diritto criminale, parte gen., Prato 1866, I, pp. 99 s.; III, p. 12; parte spec., ibid. 1882, III, p. 287; IV, p. 413); A. Vannucci, Ricordidella vita e delle opere di G. B. Niccolini, Firenze 1866, I, p. 143; II, p. 51; G. Zanardelli, L'avvocatura, Firenze 1879, pp. 104 s.; G. Giuliani, La mente di G. C., Pisa 1874; E. Pessina, Ildiritto penale in Italia da C. Beccaria sino alla promulgaz. del Codice Penale vigente (1764-1890), Milano 1906, pp. 54 s.; G. Canuti, G. C. e i suoi scritti di filosofia del diritto, Grottaferrata 1924; U. Spirito, Storia del diritto penale ital. da C. Beccaria ai nostri giorni, Firenze 1974, pp.75-82; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1934, I, pp. 122 s., 160; II, p. 1091; E. Michel, Maestri e scolari dell'Università di Pisa nel Risorgimento nazionale (1815-1870), Firenze 1949, ad Indicem;M. Nobili, La teoria delle prove penali e il principio della "difesa sociale", in Materiali per una storia della cult. giur., a cura di G. Tarello, IV, Bologna 1974, pp. 422 n., 428 n., 432 s., 453 n. Le rencens. del Centofanti e del Forti alla Teoria sono discusse, o citate da G. Gentile, in uno scritto del 1916, poi rifuso in Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo XIX, Firenze 1973, pp. 125-131; da F. Pitocco, Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento, Bari 1972, pp. 100, 137; e da U. Carpi, Letter. e società nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell'Antologia, Bari 1974, pp. 108 n., 206 n., 214 n., 232.