VASCO, Giovanni Battista (in religione Tommaso). – Nacque a Torino il 10 ottobre 1733 (Torino, Chiesa metropolitana di S. Giovanni, Registro delle nascite e dei battesimi, 1733, c. 153r)
da Giuseppe Nicolò e da Cristina Angelica Misseglia.
Battezzato nel duomo di Torino, Giovanni Battista ebbe come padrino il conte Giovanni Battista Cacherano e come madrina la marchesa Angelica Giacinta Ferrero d’Ormea.
Fu avviato, con i fratelli, agli studi classici grazie soprattutto alla madre. L’intelligenza vivace di Giovanni Battista fu, quindi, affidata allo zio Dalmazzo, vescovo di Alba, che era stato lettore di filosofia e che lo introdusse agli studi di teologia scolastica e filosofia aristotelica. A poco più di dieci anni, nel maggio del 1744, egli fu, così, in grado di difendere già, di fronte al nunzio pontificio a Torino, Ludovico Merlini, alcune tesi di teologia (Torino, Biblioteca Reale, Miscellanea Vernazza 33, Biografia patria, vol. III, n. 51). Il giovane proseguì gli studi presso l’Ateneo torinese, seguendo corsi di legge di chiara impronta giurisdizionalista. Fra i suoi maestri vi fu il canonista Francesco Antonio Chionio, destinato a essere espulso dall’università per aver difeso, nel De regimine Ecclesiae (1754), troppo accesamente le prerogative regaliste dello Stato.
Nell’agosto del 1746 Giovanni Battista conseguiva il magistero delle arti liberali, nel giugno del 1747 il baccalaureato in leggi, nel giugno del 1749 la licenza e infine la laurea in utroque iure nel marzo del 1750. Entrò, quindi, nell’Ordine domenicano, presso il convento di S. Vincenzo a Garessio, nel Cuneese, con il nome di Tommaso. Nel 1755 era esaminatore dei novizi in quel convento, da cui passò a completare i suoi studi presso lo Studio generale di Bologna, dove nel 1758 diventò lettore. Dal 1760 al 1762 rivestì lo stesso incarico nel convento di S. Domenico di Genova, città in cui iniziò a nutrirsi di letture illuministiche.
A Genova, tra il 1760 e il 1762, il doge Agostino Lomellini aveva tradotto il Discours préliminaire all’Encyclopédie. Dopo l’abolizione delle scuole gesuitiche in Portogallo, nella città ligure era, inoltre, rimbalzato il largo dibattito sul ruolo della Compagnia di Gesù e sulla manomorta.
In quegli anni, negli Stati sabaudi, il ministro Giambattista Bogino tentava di applicare alla Sardegna, passata dal 1720 sotto il governo dei Savoia, la politica di riforme già sperimentata in terraferma; il provvedimento più ambizioso che ne nacque fu la riforma delle università di Cagliari e di Sassari. Segnalato dall’Ordine domenicano, Vasco fu, dunque, chiamato alla cattedra di teologia e storia ecclesiastica a Cagliari, dove giunse il 12 ottobre 1764 (copie delle lettere manoscritte inviate a tal fine da Bogino sono in Archivio di Stato di Torino, Corte, Sardegna, serie D, Corrispondenza del Ministero colla Università di Cagliari dalli 2 novembre 1763 alli 26 settembre 1764).
Il corso di teologia tenuto nei due anni di permanenza in Sardegna ci è pervenuto ed è conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari (S.B.I. 4/32, mss. 39-40). Vasco vi citò diversi liberi pensatori e illuministi (Tommaso Campanella, Baruch Spinoza, Renato Cartesio, John Locke, Christian Wolff, Gottfried Leibniz, Étienne Condillac, Voltaire, Denis Diderot, Jean-Baptiste d’Alembert, Charles Bonnet), contestandone le idee più ardite, ma usandole anche per rompere il conservatorismo teologico degli scrittori dell’Ordine domenicano.
Le reazioni negative degli ambienti conservatori cagliaritani e le riserve di Bogino contribuirono ad accrescergli l’insofferenza per quell’incarico. Nel 1766 Vasco aveva ormai abbandonato l’isola, rientrando nel convento di S. Domenico a Genova e consegnando al governo sabaudo un progetto per riformare i corsi di teologia, in cui consigliava di distribuire la materia dando maggior rilievo alle questioni filosofiche e storiche (Archivio di Stato di Torino, Corte, Sardegna, Materie politiche, cat. X, mazzo 6, n. 37). Il progetto non lo riconciliò con il governo sabaudo, essendo stato pesantemente criticato a Torino da padre Giacinto Sigismondo Gerdil (l’influente precettore del futuro Carlo Emanuele IV), che era stato l’estensore delle istruzioni consegnate a Vasco per la conduzione della cattedra cagliaritana. Il fratello Dalmazzo Francesco (v. la voce in questo Dizionario) cercò di procurargli la difesa e l’aiuto di Pietro Verri, che tuttavia evitò di farsi coinvolgere.
Alla fine del 1766, Giovanni Battista si trasferì nel convento cremonese di S. Domenico, rimanendo ancora in contatto epistolare con Bogino per cercare di giustificare la propria condotta in Sardegna. L’ambiente lombardo non tardò a stimolare in lui una decisa volontà di approfondimento della cultura illuministica, facendolo passare dalle questioni teologiche a quelle di economia politica. A Cremona Vasco entrò, perciò, in contatto con diversi uomini di lettere, fra cui Giambattista Biffi, Giuseppe Cauzzi (traduttore di Jean-Jacques Rousseau), Isidoro Bianchi. Lesse tempestivamente e apprezzò, in quegli anni, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.
Nel 1767 la Società libera economica di Pietroburgo aveva proposto un quesito sull’opportunità, per la pubblica felicità, di estendere la proprietà contadina, bandendo un ricco premio attraverso alcuni giornali francesi e italiani. Le riforme dei catasti promosse dai sovrani illuminati e i dibattiti sull’onda della fisiocrazia appuntavano, allora, sempre più l’attenzione degli studiosi di economia politica sulla struttura fondiaria.
La ridefinizione del ruolo della nobiltà, del peso da assegnare al lusso, dei modi possibili per governare il commercio dei grani e la mendicità ne costituivano i principali corollari. L’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli si era accompagnato, intanto, alla crescita del valore del suolo e degli affitti rustici, aprendo il dibattito fra i sostenitori delle rendite fondiarie e coloro che invece proponevano, sull’onda del pensiero più radicale, la necessità dell’abolizione della proprietà privata. Negli Stati italiani la questione fu affrontata non tanto di riflesso a posizioni dottrinali, quanto in margine ai provvedimenti politici che avevano portato all’estromissione dei gesuiti e alle riforme della manomorta in alcune aree della penisola. La gestione dei braccianti, già alle dipendenze del ceto ecclesiastico, rappresentava il terreno di confronto e di sfida cui guardavano diversi fra i riformatori italiani.
Vasco si inserì in questo panorama partendo da presupposti a metà strada fra il riformismo e le tesi utopiche, in sintonia con posizioni che erano state assunte da Verri e Beccaria: conseguire la massima felicità fra il maggior numero possibile di persone, astraendo da ogni elemento di giustificazione religiosa. Il saggio che ne nacque fu I contadini. La felicità pubblica considerata ne’ coltivatori di terre proprie (1769; in Opere, a cura di M.L. Perna, I, 1989, p. 39).
Scartata la possibilità di ricostituire un’uguaglianza perfetta, Vasco si avvicinava alle tesi roussoviane propendendo per una società senza grandi dislivelli di fortune, a favore di una borghesia in ascesa. Contrariamente al fratello Dalmazzo Francesco, per il quale un’aristocrazia liberale, attiva e operosa, avrebbe dovuto formare il nucleo di uno Stato rinnovato, Giovanni Battista sposava il pensiero antifeudale a favore di un ceto medio che potesse giustificare la proprietà solo come frutto del lavoro, non più come esito di ereditarietà. Una diversa regolazione delle leggi di successione, agevolazioni ai non possidenti, propensione per la forma di governo repubblicana come la migliore possibile per attuare la riforma agraria: erano queste le soluzioni avanzate da Vasco, che non passarono inosservate, senza però ottenere il premio dell’accademia russa.
A Venezia, l’opera fu tempestivamente pubblicata in estratto da Alberto Fortis nel foglio Europa letteraria (II (1° settembre 1769), pp. 7-14; (1° novembre 1769), pp. 8-13). Isidoro Bianchi la recensì sulle fiorentine Novelle letterarie (XXX (22 settembre 1769), 38, coll. 600-609; (13 ottobre), 41, coll. 645-650; (27 ottobre), 43, coll. 676-680; (3 novembre), 44, coll. 694-699), facendone un caldo elogio. Un ampio stralcio ne offrì l’Estratto della letteratura europea stampato a Milano (1769, vol. 2, pp. 140-152). Una traduzione in francese («par Mr. Vignoli», Lausanne 1770) fu annunciata dal Journal oeconomique, ou mémoires, notes et avis sur les arts (Paris 1771, p. 343). Critiche a Vasco, per questo testo, si levarono, invece, in Piemonte, dove l’intendente generale di Alessandria, Ignazio Nicolis di Brandizzo, indirizzò all’erudito Giuseppe Vernazza dure considerazioni sul progetto del padre domenicano (Torino, Biblioteca Reale, Miscellanea Vernazza 51, Scritti letterari diversi, n. 23, ms.).
Da Cremona, Vasco aveva intanto chiesto il trasferimento a Milano presso il convento delle Grazie, da dove passò a quello di S. Eustorgio. Nella città lombarda frequentò Beccaria, fallendo nel tentativo di avvicinare i fratelli Verri. Si legò, poi, in particolare, all’ambiente del libraio e stampatore milanese Giuseppe Galeazzi, che si era rivelato sensibile alle posizioni dell’Illuminismo in fatto di economia, contrario alla scuola fisiocratica e favorevole invece allo sviluppo delle manifatture e dei commerci come principale fonte di ricchezza. Su un punto, nelle questioni economiche, Vasco arrivò però a polemizzare contro le tesi di Antonio Genovesi, Pietro Verri, Beccaria e del fratello Dalmazzo Francesco: negando, cioè, l’utilità del lusso e concordando con i fisiocratici toscani, che consideravano pernicioso tale fenomeno. Idealmente, la vita in provincia e nella campagna era da lui contrapposta al lusso e ai vizi della città, secondo uno spirito che si rifaceva sia al cristianesimo delle origini sia a Rousseau.
Aspirando a un nuovo incarico Vasco chiese aiuto al ministro plenipotenziario e governatore della Lombardia austriaca Karl Joseph von Firmian, in anni in cui era ormai tramontata la stagione dello slancio riformistico portato dal gruppo del Caffè e dell’Accademia dei Pugni. Grazie a von Firmian ottenne in Lombardia, solo nel 1772, la nomina a «censore politico per la stampa», senza peraltro ricavarne alcuna pensione. Lo stesso anno fu nominato accademico onorario della senese Accademia dei Fisiocritici e pubblicò il trattato Della moneta. Saggio politico (Milano 1772). Il trattato entrava in dialogo con una delle questioni economiche allora più dibattute, confrontandosi con le tesi esposte da Gianrinaldo Carli, Pompeo Neri e dai principali philosophes milanesi. Riprendendo idee avanzate da Ferdinando Galiani, Vasco proponeva l’introduzione di un sistema monetario con progressione decimale.
Interessandosi anche ad argomenti di geografia, pedagogia, biologia, filosofia politica, letteratura, etica e giurisprudenza, Vasco espresse ammirazione per il sistema monarchico temperato britannico, allontanandosi progressivamente dal pensiero di Rousseau.
Le delusioni per i mancati incarichi accademici cui avrebbe aspirato in Lombardia lo spinsero a secolarizzarsi rimanendo abate (1774) e rientrando in Piemonte, dove il clima culturale non aveva cancellato le critiche che gli erano già state mosse. L’opinione dei più lo riteneva, infatti, connivente con le tesi illuministiche radicali che avevano portato in carcere il fratello Dalmazzo Francesco. Né l’estromissione dei gesuiti nel Regno di Sardegna (1773) aveva, del resto, favorito, tra le forze clericali, un processo di apertura. Vasco offrì, dunque, al governo sabaudo gratuitamente per alcuni anni i propri servigi all’Azienda delle finanze, alla quale indirizzò due memorie, dedicate rispettivamente alla perequazione dei terreni (Torino, Biblioteca Civica, Autografi Cossilla, m. 38, n. 1; una copia nella Biblioteca dell’Accademia delle scienze di Torino, ms. 386) e alla semplificazione dei tributi (Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo Balbo jr. 17.3). Nel 1779 gli fu infine concessa una modesta pensione annuale di 500 lire.
Aiutato anche materialmente dall’amico Nicolao Incisa della Rocchetta, poté dedicarsi a esperimenti e ricerche sulla sericoltura e la vinificazione, diffondendone i risultati in diversi periodici scientifici. Probabilmente grazie all’amico Carlo Denina, entrò, poi, in contatto con i rappresentanti diplomatici inglesi a Torino, arrivando a padroneggiarne la lingua, tanto da nutrirsi di letture del pensiero liberista, senza ricevere ostacoli, in ciò, da parte del governo sabaudo.
La sua produzione riprese con nuovo vigore dagli anni Ottanta, nella stagione che vide sorgere a Torino e in Piemonte una rete di accademie scientifiche e letterarie capace di attrarre menti vivaci, destinate a svolgere una fondamentale opera di rinnovamento culturale. Nel 1784 collaborò con l’Accademia delle scienze di Torino rispondendo a un quesito sul modo migliore per la conservazione dei grani, tema molto dibattuto dagli anni Sessanta in relazione al problema del commercio dei cereali. Alla nascita della Biblioteca oltremontana (1786), il periodico mensile torinese che per alcuni anni avrebbe costituito una delle voci più vive della cultura italiana di fine Settecento (prima di essere ribattezzata Biblioteca oltremontana e piemontese nel 1790, avviandosi a un taglio sempre meno fiducioso nel riformismo politico), Vasco ne divenne redattore, scrivendo negli anni 1787-88 la maggior parte dei compendi e delle rubriche del giornale, su argomenti economici, statistico-demografici, scientifici e letterario-filosofici.
In questa attività suoi principali collaboratori furono il fratello Dalmazzo Francesco, Felice San Martino, Giuseppe Pavesio, Prospero Balbo, Giuseppe Franchi di Pont, Amedeo Ferrero di Ponziglione, Gian Francesco Galeani Napione, Vincenzo Malacarne. Più cauto rispetto alle posizioni del fratello maggiore, sulle pagine di quel periodico non perse l’occasione per commentare le vicende francesi, elogiando le formule del riformismo proposto dal ministro Robert-Jacques Turgot (Biblioteca oltremontana, I (1787), 2, pp. 162 ss.; 5, p. 159). Il suo ideale politico, come di buona parte dei collaboratori del giornale, era rappresentato da un riformismo politico moderato e gradualistico.
Nel 1788 Vasco si impegnò, senza risultare però fra i vincitori del premio che era stato bandito, nella risposta a un quesito formulato dall’Accademia delle scienze di Torino per arginare i danni di una grave crisi delle manifatture sericole piemontesi, ponendosi il problema del reimpiego della manodopera rimasta disoccupata, per evitare i danni provocati dall’ozio inoperoso.
Perso il ruolo di redattore della Biblioteca oltremontana, dal 1789 fu ammesso fra i soci di diversi cenacoli culturali, che contribuirono a diffonderne gli studi a livello non solo nazionale: l’Accademia delle scienze di Torino, la Società reale e patriottica di Valence (in Delfinato), l’Accademia di agricoltura, commercio e arti di Verona, la Società patriottica di Milano e l’Accademia dei Georgofili di Firenze (nelle ultime due delle quali fu socio corrispondente). Fu per lui l’ultima stagione di intense letture, compiute spesso come ospite di amici quali Incisa, a Rocchetta Tanaro, e Galeani Napione, presso la villa del Rubatto, poco distante da Torino.
Nel 1793 compose forse la sua opera migliore: Della carta-moneta. Saggio politico (rimasto inedito fino alla pubblicazione curata da Giuseppe Prato nel 1914), superamento in chiave più matura del precedente Della moneta.
In Piemonte la cartamoneta non costituiva una novità, avendo già goduto di favore sotto il regno di Carlo Emanuele III (1730-1773). Sotto il successore, Vittorio Amedeo III (1773-1796), l’inflazione aveva tuttavia portato a uno sfrenato corso forzoso, che Vasco, con Galeani Napione e Balbo, suggerì di sanare, senza peraltro riuscire a riscuotere l’attenzione del governo, impegnato allora sul difficile fronte militare contro la Francia.
Stretto dalla situazione, aggravata privatamente dal secondo arresto del fratello Dalmazzo Francesco (1791), Vasco maturò infine la decisione di lasciare il Piemonte, chiedendo al sovrano, tramite il ministro Pietro Giuseppe Graneri, di poter compiere un viaggio in Italia per ragioni di salute. Nel settembre del 1791 gli fu concesso di uscire dai confini del Regno di Sardegna per un periodo non superiore ai due anni, comunicando periodicamente le sue tappe. Prese così nuovamente la via per Milano. In Lombardia era vivo, in quegli anni, il dibattito costituzionalista che prendeva a modello la Costituzione francese del 1791; Vasco non pare, tuttavia, avervi partecipato, ma aver mantenuto, piuttosto, i contatti con le pagine dei giornali letterari e con uomini di scienza, fra cui Luigi Galvani e Alessandro Volta.
Nell’opera L’usura libera, pubblicata a Milano nel 1792 con dedica alla memoria dell’imperatore Giuseppe II, Vasco affrontò ancora, con un’erudita ricerca sulla tradizione giuridica e teologica, il tema dell’ingiusta carcerazione per debiti, proponendo la cancellazione di leggi volte a punire direttamente il reato e l’adozione, invece, di mezzi indiretti per togliere incentivi al lusso, agli sperperi, al gioco d’azzardo, con la costituzione di casse di risparmio e di pubblici sussidi per aiutare i più bisognosi, vittime frequenti degli usurai.
L’eco dei fatti parigini dopo la condanna a morte di Luigi XVI portò Vasco a ritrarsi davanti all’avanzare delle idee rivoluzionarie. La morte del fratello Dalmazzo Francesco lo indusse a rientrare in Piemonte.
Morì l’11 novembre 1796 a Rocchetta Tanaro, presso la famiglia Incisa.
Opere. Opere, a cura di M.L. Perna, I-II, Torino 1989-1992 (con una bibliografia commentata nel secondo volume, pp. 971-1032).
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