CRESCENZI, Giovanni Battista
Nato a Roma il 17 genn. 1577 da Virgilio e Costanza Del Drago, risulta citato nel testamento del padre (1592) come il quarto di sei fratelli: Giacomo, Pier Paolo, Vincenzo e, dopo di lui, Angelo e Francesco (Arch. di Stato di Roma, Miscellanea famiglie, b. 63 fasc. 2, n. 12). Nulla sappiamo di concreto sulla sua giovinezza e formazione che, tuttavia, dovettero svolgersi nel clima di fattiva austerità che fecero celebrare quella di Virgilio come perfetto esempio di nobile famiglia romana (G. V. de Rossi, 1646).
Virgilio (morto a Roma nel 1592), che nel 1572 ricoprì anche la carica di conservatore del Popolo romano, fu tra i membri più influenti della Confraternita dei SS. Salvatore "ad Sancta Sanctorum" (l'ospedale di S. Giovanni in Laterano) e di quella dell'ospedale di S. Giacomo, della quale fu più volte guardiano. Mentre in tale posizione appoggiò fortemente l'attività di Camillo De Lellis, dal 1585 c. entrò in strettissimi rapporti con Filippo Neri e il suo oratorio mantenendo, al contempo, notevoli e documentate relazioni sia con altri Ordini di recente formazione, quali i gesuiti e i teatini, sia con alcuni membri importanti della Curia come, per es., il cardinal datario Matteo Contarelli di cui divenne esecutore testamentario. Tipico esponente di quella nobiltà romana che si impegnò, anche con la sua attività di tipo amministrativo e finanziario, a riorganizzare le strutture tramite le quali la Chiesa controriformata poteva operare e incidere nel sociale, Virgilio volle per i figli una rigida educazione che, oltre alla formazione religiosa e letteraria, prevedeva quella artistica. Questa - stando al Baglione (1642) - fu loro impartita da Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, pittore che, entrato in rapporto con Virgilio verosimilmente tramite l'oratorio filippino, affrescò nel palazzo Crescenzi alla Rotonda, nei pressi del Pantheon (tuttora esistente), la cosiddetta sala delle Virtù (Toesca, 1960) o dell'Accademia tra il 1590 e il 1592 circa (Ch. Kirwin, C. Roncalli..., Stanford Univ. 1972, Univ. microfilms, Ann Arbor 1973). Qui si esponevano, attraverso una serie di figure simboliche, gli ideali di vita del committente di cui il Roncalli divenne amico rimanendo poi il consigliere artistico della famiglia per la quale svolse numerosi incarichi.
Educato in questo ambiente, che portò i suoi fratelli maggiori ad abbracciare la vita religiosa, il C. ebbe da giovane familiarità con Filippo Neri (compare infatti tra i testimoni del primo processo di canonizzazione) e rimase a lungo in contatto con Camillo De Lellis come dimostra il fatto che nel 1614 assistette alla sua morte e ne fece plasmare la maschera funeraria (Vanti, 1938).
D'altronde fu il Neri, su suggerimento di Virgilio, a distogliere il C. dall'entrare, quando aveva quattordici anni, nell'Ordine domenicano predicendogli che avrebbe preso moglie e continuato così la dinastia familiare (deposizione resa dal C. il 28 ag. 1610 al processo di canonizzazione). Infatti il C., che sposò nel 1601 Anna Massimo dalla quale avrà dieci figli, appare nei primi anni del '600 impegnato nella gestione del patrimonio di famiglia: impegno cui doveva dedicarsi già da minorenne, come palesemente risulta dalla testimonianza da lui resa nel 1596 (durante il primo processo di s. Filippo Neri) nella quale affermava che il santo fiorentino aveva sconsigliato la famiglia di accordare un prestito ad una persona perché questa sarebbe morta prima di restituirlo.
Della sua attività di pittore ed architetto siamo informati essenzialmente dal Baglione (1642) che lo celebrò come uno dei nobili romani che praticarono le arti figurative.
Infatti, per il Baglione (p. 364), dopo l'apprendistato con il Roncalli, il C. sarebbe divenuto tanto abile pittore che nella cappella Rucellai in S. Andrea della Valle "vogliono che facesse di sua mano a olio sopra lo stucco alcuni puttini che stanno su triangoli della cupoletta entro la cappella".
A tal proposito va notato che questa cappella, fondata nel 1602, fu per tutto il resto dipinta dal Roncalli tra il 1604 e il 1605. Ammesso che siano veramente del C. i superstiti Puttini di quella decorazione (si noti come il Baglione nel suo dettato riporti una voce e non una notizia di cui ha conoscenza diretta), va tenuto presente, per un verso, che a quella data il C. aveva ormai 27-28 anni e, oltre ad interessarsi degli affari di famiglia, doveva anche essere impegnato in qualcuna di quelle cariche pubbliche che a quella età era allora normale fossero ricoperte dai membri delle famiglie patrizie romane; d'altra parte è bene ricordare che egli non mise minimamente mano nella decorazione della cappella di famiglia fatta costruire nella stessa chiesa tra il 1604 e il 1606 dal fratello Pier Paolo (cfr. H. Hibbard, C. Maderno, London 1971, p. 147).
Stando al Baglione, il C. "co' tratti del suo pennello in alcuni luoghi ha onorato alla piazza della Rotonda le stanze del suo palagio: et alcuni quadri ha parimenti co' suoi colori abbellito". La seconda di queste due notizie non sembra a tutt'oggi trovar riscontro neanche negli inventari delle collezioni di famiglia, nei quali vengono invece ricordate sia opere degli artisti che dalle fonti sappiamo essere stati in relazione con il C. e i suoi fratelli sia quelle opere che, come ci è noto anche da altri documenti, avevano un particolare valore testimoniale per le glorie della casata, quale per esempio il Ritratto di Tommaso Moro di Holbein (J. B. Trapp, Supplementa iconographica moreana: portraits..., in Moreana, XVI 1979, 62, pp. 73 ss.). Invece la notizia secondo cui il C. avrebbe decorato alcune sale del suo palazzo alla Rotonda gli ha fatto attribuire (Grelle, 1961) quattro figure allegoriche dipinte nei cassettoni del soffitto di una saletta contigua al già ricordato salone delle Virtù o dell'Accademia affrescato dal Roncalli: e ciò - ammesso e non concesso che si tratti proprio del C. -, mentre ce lo mostrerebbe (ma a quale data non è precisato) come uno dei tanti tardo-manieristi romani dalla personalità pittorica di assai limitato valore, ce ne potrebbe ribadire l'attività non come quella di un innovatore, bensì quale quella di un dilettante.
Sempre secondo il Baglione (p. 365) il C. fu soprintendente della cappella Paolina di S. Maria Maggiore e quindi "di tutte le fabbriche et le pitture che furono fatte" durante il pontificato di Paolo V.
Malgrado tale attività sia ancora tutta da studiare, appare però chiaro che tale carica permise al C. di attuare una vera e propria politica artistica il cui senso è forse deducibile dai nomi dei pittori impiegati nella decorazione, avvenuta tra il 1610 e il 1613 (Corbo, 1967), della cappella Paolina di S. Maria Maggiore: il Cavalier d'Arpino, Baglione, Baldassarre Croce, il Passignano, Cigoli, Guido Reni. È evidente che non si tratta di rappresentanti di una tendenza artistica unitaria, bensì di pittori che si erano già ampiamente affermati nel corso del precedente pontificato di Clemente VIII e che durante quello di Paolo V detenevano il primato del mercato artistico romano. E a conferma di ciò si potrebbe avere il fatto (Baglione) che il C. protesse pure Gaspare Celio, facendogli dipingere sotto Paolo V due Storie di Salomone nella sala attigua alla Clementina del nuovo palazzo pontificio in Vaticane, ed è ricordato (Bellori, 1672, p. 88) come presente ai funerali di Annibale Carracci il quale, seconde il Baglione (p. 108), "da Signori Crescentii, amatori de Virtuosi, fu grandemente onorato".
Una serie di lettere del 1610-11 tra il C. e il cardinal Federico Borromeo, relative all'acquisto da parte di quest'ultimo della Marina di Paul Bril oggi all'Ambrosiana di Milano ( M. Vaes, Prospettiva..., in Mélanges Hulin de Loo, Bruxelles 1931, pp. 309-20 passim), documenta inoltre che a quella data anche il Bril lavorava per il C. - per il quale forse eseguì una serie di affreschi nel palazzo alla Rotonda (Toesca, 1968) - e costituisce così un notevole indizio per comprendere il senso manageriale dell'attività che il C. svolgeva in campo artistico. Tutto ciò può quindi illuminare su cosa realmente fosse l'accademia che il C. teneva nel proprio palazzo. Secondo il Baglione (p. 365) egli "havea gusto che sempre nella sua casa si essercitasse la virtù e continuamente vi facea studiare a diversi giovani, che alla pittura erano inclinati, e sempre, vi teneva Accademia tanto di giorno quanto di notte tempo, acciocché avessero tutti maggiore occasione d'apprendere le difficoltà dell'arte; et anche talvolta havea gusto di far ritrarre dal naturale et andava a prendere qualche cosa di bello e di curioso che per Roma ritrovavasi di frutti d'animali e d'altre bizzarrie e consegnavala a quei giovani che la disegnassero, solo perché divenissero buoni Maestri si come veramente adivenne".
È oggi impossibile dire quando il C. dette avvio a tale accademia. Ma è lecito supporre che l'abbia diretta in prima persona più o meno solo dopo la partenza per Loreto del Roncalli (1606), momento che forse coincise con l'assunzione da parte del C. della sovrintendenza della cappella Paolina. D'altra parte la cultura del Pomarancio dovette rimanervi a lungo egemone, come può dimostrare la vicenda del protetto del C., Bartolomeo Cavarozzi detto il Crescenzio, che rimase un seguace del Roncalli fino ai primi anni del secondo decennio del '600 quando "cangiò gusto" (Baglione, p. 287) in senso caravaggesco. È probabile quindi che in tale accademia si siano prodotte opere caravaggesche solo verso la metà del secondo decennio del '600 (quando, il caravaggismo, soprattutto per alcuni generi e produzioni di destinazione privata s'era ormai ampiamente affermato sul mercato romano) e che perciò essa non sia stata neanche uno dei centri da cui prese avvio l'elaborazione della nuova natura morta come, sulla base delle scarse conoscenze allora disponibili sui rapporti tra la famiglia Crescenzi e il Merisi, ipotizzò il Longhi nel 1950. Infatti, mentre gli aggettivi "bello" e "curioso" usati dal Baglione confermano che le "bizzarrie" ritratte "dal naturale" nell'accademia erano non raffigurazioni di brani di realtà quotidiana, bensì, come nelle nature morte di tipo nordico, rappresentazioni di oggetti insoliti, gli interessi manageriali del C. lasciano pensare che egli, seguendo una moda ormai consolidata sul mercato, abbia dapprima fatto produrre ai suoi giovani protetti nature morte di questo tipo e che solo più tardi costoro abbiano riconfigurato la loro produzione in modi caravaggeschi.
Tutto ciò potrebbe essere confermato dall'attività di P. P. Bonzi che da giovane, stando alla biografia scritta dal Baglione (p. 343), "si accomodò in casa de signori Crescentii romani e diedesi a dipingere frutti dal naturale, et in quei genio non si poteva far meglio; e quelli signori haveano gusto di fargli trovare di bellissimi frutti e d'uve diverse acciocché al segno di valent'uomo egli giungesse". Tale soggiorno giovanile si può collocare negli anni in cui a Roma era presente anche il Caravaggio mentre le opere firmate del Bonzi, che "hanno tutta l'apparenza di opere mature posteriori al 1620" (Gregori, 1973, p. 40), conservano, malgrado tutto, un carattere di tradizione cinquecentesca e di finalità decorativa. Ciò evidentemente significa non solo che, negli anni in cui il Merisi era a Roma, in casa Crescenzi non si dipingevano - come pure potrebbe essere ovvio - nature morte di tipo caravaggesco, ma anche che solamente nell'inoltrato secondo decennio del '600 il Bonzi, che era sicuramente rimasto in stretto contatto con i Crescenzi ed esercitava il genere paesaggistico in maniera classicheggiante (Pugliatti, 1975), iniziò ad assumere nel genere della natura morta modi caravaggeschi piuttosto impacciati.
Tutto ciò induce anche a ridimensionare l'importanza del C. come autore di nature morte. Infatti, l'unica sua opera del genere descritta è quella che, stando al Baglione (p. 365), avrebbe dipinto in Spagna per il re: "una bellissima mostra di cristalli variamente rappresentati, altri con appannamenti di gelo, altri con frutti entro l'acqua, chi con vini e chi con varie apparenze; e la diligenza di quell'opera meritò il gusto di quel re". A tal proposito va però notato che il Baglione riferisce solo per fama di un'opera da lui certamente non vista e che la sua descrizione non offre alcun elemento certo per affermare che si trattasse di una natura morta di tipo caravaggesco e non piuttosto di tradizionale tipo nordico. Pertanto è forse non del tutto improbabile ritenere che anche in questo genere la sua attività di pittore fosse quella di un buon dilettante e venisse considerata come un fatto abbastanza insolito, come si comprende anche dal Palomino (1715) che afferma che di lui c'era "en Palacio un lienzo de frutas y flores, que dan testimonio de su excelente ingenio y abilitad en esta arte" (p. 890).
Fino ad oggi i tentativi più impegnati per dare concretezza di opere al C. sono quelli, tra di loro divergenti, di M. Gregori e di C. Volpe del 1973, i quali li hanno condotti su base dichiaratamente ipotetica per quanto riguarda la corrispondenza del nome alla personalità pittorica ricostruita.
D'altra parte, pur se per motivi tra di loro differenti, sembrano infondati i tentativi posteriori che hanno cercato di agganciare il nome del C. ad opere fornite di documentazione. Infatti M. Natale (1976 e 1979), pur se con molte cautele, ha ipotizzato il C. quale autore di due Festoni di frutti che, oggi nel Museo di Ginevra, sono parte dei resti degli affreschi che decoravano la villa della famiglia Crescenzi presso Roma. Per motivi stilistici tali festoni appaiono però opera del Bonzi sicuramente attivo nella decorazione della villa come paesaggista. Per un altro verso invece M. Marini (in Storia dell'arte italiana, VI, Torino 1981, pp. 391 ss.), distorcendo il dettato di una serie di documenti del 1624 e del 1626 (N. Pagliara, ibid., VIII, Torino 1980, pp. 259 s.) che attribuiscono al "Crescentio", ossia a B. Cavarozzi detto il Crescenzio, un dipinto raffigurante la Lapidazione di s. Stefano oggi nel duomo di Monterotondo (dipinto peraltro coerente con la personalità nota del Cavarozzi), vorrebbe fare di questo l'unico quadro certo del C. e su tale base ricostruirne la figura.
Stando alla didascalia della tavola relativa (16 e 17) del Falda (P. Ferrario-G. B. Falda, Nuovi disegni..., Roma 1655), il C., nella cui accademia lavorarono anche architetti come N. Sebregondi (Baglione, p. 365), avrebbe progettato la facciata del palazzo di famiglia alla Rotonda, ma a tutt'oggi mancano le prove documentarie di questa impresa architettonica del Crescenzi. D'altronde come il C. dovesse effettivamente svolgere la propria attività in questo settore ce lo può far in qualche modo intuire un altro passo del Baglione: quello in cui (pp. 326-27) si descrivono le fasi della complessa organizzazione del lavoro tramite cui fu realizzato il "ricchissimo altare" della cappella Paolina in S. Maria Maggiore.
Da esso risulta che il C. svolgeva nella fase della progettazione un ruolo assai delicato, in quanto dava concretezza al disegno ideato dal Rainaldi facendone realizzare un modello esecutivo completo che, da lui presentato all'approvazione del pontefice, sarebbe poi servito di base alla fase costruttiva vera e propria. Se questo è vero, il ruolo soprattutto gestionale del C. aveva necessariamente un impatto preciso sulla realizzazione concreta del manufatto in quanto, come è per esempio evidente in questo caso, dipendeva da lui la decisione di quali sarebbero dovuti essere i materiali da utilizzare. È tuttavia indubbio che, proprio perciò, il C. doveva avere una qualche esperienza sia nelle regole della progettazione sia soprattutto nelle concrete pratiche costruttive che permettevano l'effettiva realizzazione dei progetti architettonici.
Nel 1617, al seguito del cardinal Zapata, il C. si recò in Spagna al servizio di Filippo III. Non sono chiari i motivi che lo indussero a trasferirsi nella penisola iberica né i modi attraverso cui egli riuscì ad entrare al servizio di quel sovrano. Del tutto certo è invece che nel 1618 fu nominato sovrintendente alla costruzione del Pantheon dei re dell'Escorial con un salario di ben 100 ducati mensili e che nel maggio del 1619 ritornò in Italia per assumere una serie di bronzisti, fonditori ed argentieri da impiegare nella realizzazione di tale opera, che fu avviata dopo il suo rientro a Madrid entro la fine di quello stesso anno.
Il progetto, ricostruibile dalla descrizione che nel 1626 ne dette C. Del Pozzo, si caratterizza soprattutto per le soluzioni dell'arredo architettonico che risolvevano una struttura ottagonale di ascendenza tardo-manierista in un ricco e pesante apparato decorativo di marmi policromi e di bronzi dorati. La realizzazione dell'opera - il cui modello il C. ancora molti annidopo esponeva nella propria casa di Madrid (Palomino), si protrasse a lungo sia per le difficoltà finanziarie della casa reale che, a quanto dichiarò lo stesso C. a Cassiano del Pozzo, non pagava le maestranze, soprattutto italiane, sia, verosimilmente, per le difficoltà interposte dalla gelosia professionale degli architetti spagnoli e in particolare da Juan Gomez de Mora. L'operato del C. doveva tuttavia esser molto apprezzato dalla corte spagnola: o meglio dal nuovo sovrano Filippo IV e dal suo onnipotente ministro il conte-duca d'Olivares. Nel 1626 il C., che all'inizio di tale anno era stato insignito dal re del titolo di marchese de la Torre, sollecitò, tramite il cardinal Barberini, in visita in Spagna, il permesso di rientrare in Italia, ma come risposta ottenne per un verso la promessa che tale permesso gli sarebbe stato concesso alla fine dei lavori e, per un altro verso, la concessione del cavalierato di Santiago e l'aumento a 140 ducati mensili del suo salario (ottobre 1626). Inoltre, malgrado il protrarsi dei lavori nel Pantheon dell'Escorial, il 14 ott. 1630 il C. fu nominato sovrintendente delle Opere Reali: incarico che, come è specificato nell'atto di investitura, comportava sia la supervisione sia l'approvazione vincolante da parte del C. dei progetti e delle loro realizzazioni relativi a tutte le fabbriche reali.
Ma già prima di tale carica fu spesso chiamato a dare pareri tecnici anche su opere alle quali non era direttamente interessato: nel 1623 fu consultato sulla continuazione della costruzione del cosiddetto palazzo di Carlo V a Granada, mentre nel 1626 si chiese il suo parere sulla stabilità della cupola della cappella Mazarabe nella cattedrale di Toledo e quindi nel 1628 sui progetti per quella della cappella dell'Ochavo nella stessa cattedrale; nel 1629 fu suggerito di interpellare il C., come una delle quattro persone più pratiche del regno, per dirimere le polemiche sulla costruzione del nuovo palazzo municipale di Madrid. Ancora nel 1632 egli venne consultato dai gesuiti di Siviglia sull'opportunità di modificare le dimensioni del refettorio del Collegio di S. Ermenegildo che era stato progettato alla fine del '500 dal Villalpando.
Comunque, dopo il 1630, il C. tralasciò la costruzione del Pantheon dell'Escorial (terminato in una nuova campagna di lavori condotta tra il 1645 e il 1654, che modificò solo parzialmente l'originario progetto decorativo) per impegnarsi soprattutto nella realizzazione del Buen Retiro, la nuova grandiosa residenza che l'Olivares volle a Madrid per i sovrani di Spagna e che fu in gran parte progettata dal Carbonel. Il Taylor (1979) ha cercato di dimostrare l'intensa attività di architetto, esercitata dal C. in Spagna (si rimanda a questo articolo per le varie attribuzioni), ma al di là di quanto fu da lui realmente progettato e costruito, il ruolo svolto dal C. in Spagna si configura soprattutto come quello dell'esperto che, dirigendo e coordinando le diverse attività necessarie alla realizzazione delle opere affidategli, diffuse per questa via i modi e il linguaggio della cultura italiana tardo-manierista, dando così un contributo sia al rinnovamento della pratica professionale colà corrente sia, più in generale, alla costituzione di quel gusto decorativo eclettico ed esuberante caratteristico di gran parte della cultura barocca iberica.
È accertato che il C., mentre nel 1631 dalla Spagna procurava opere d'arte per la corte inglese (Trapp, 1979), nell'anno 1634 veniva pagato da quella spagnola per aver fatto venire dall'Italia tre dipinti da utilizzarsi nel Buen Retiro (Harris, 1980). Il che rende del tutto verosimile l'ipotesi che fosse stata orientata dal C. "la più importante commissione straniera in Italia durante la prima metà del secolo" (Haskell, 1966), i dodici Paesaggi con anacoreti (dipinti fra gli altri dal Poussin e da Claude) ordinati a Roma per il Buen Retiro. D'altronde, mentre Palomino (1715) ci informa che il C. avrebbe inviato in Italia un quadro di Antonio Pereda, il Pacheco (1649) afferma che il C., insieme con J. B. Maine "ambos de gran conoscimiento en la pintura", decretò nel 1626 la vittoria del Velázquez nella gara per la raffigurazione di Filippo III che caccia i moriscos dalla Spagna (quadro oggi perduto) aprendo così la strada all'affermazione del grande pittore spagnolo.
Volendo dare un giudizio complessivo sul C., al di là di ciò che poté essere la sua vicenda di pittore dilettante - per la quale in attesa di un'opera documentabile con certezza è bene sospendere ogni tentativo di ipotetica ricostruzione -, storicamente rilevante appare essere l'attività - che nuove ricerche potranno meglio delineare - da lui svolta come consigliere artistico e imprenditore nella Roma di papa Paolo V: attività che dovette portarlo ad organizzare la sua accademia come una sorta di studio-azienda in grado di soddisfare i diversi tipi di richiesta provenienti dal mercato. Inoltre, se anche in Spagna è certamente tramite il C. che fu conosciuta l'opera di alcuni pittori come Cavarozzi (cfr. Mancini, 1617-21) e Bonzi, il ruolo da lui complessivamente svolto nell'interscambio artistico tra l'Italia e la Spagna dovette probabilmente essere assai più articolato - e meritevole di ulteriori indagini - di quello, sottolineato in particolare dal Pérez-Sánchez, relativo all'affermazione della corrente caravaggesca.
Il C. morì a Madrid il 17 marzo 1635.
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