MARI, Giovanni Antonio
– Nacque a Roma, all’incirca nel 1630-31, da Baldassarre e Caterina Masetti, in una famiglia di scultori e restauratori di statue antiche operanti tra il 1628 e il 1676. La sua formazione avvenne all’interno della bottega paterna; la sua attività, concentrata negli anni tra il 1650 e il 1660, si svolse tutta nell’orbita di G.L. Bernini. Il 25 apr. 1656 ricevette la nomina ad accademico di S. Luca; fu anche socio dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon.
La famiglia è stata erroneamente ritenuta di origine francese: Baldassarre (citato come Marcj in documenti del 1628-29) fu identificato da Bertolotti (1886) con Balthazard Marsy; in realtà la famiglia è italiana e precisamente originaria di Todi, come ricordato nell’atto di morte di Baldassarre (De Lotto). I Mari dovevano risiedere a Roma già da tempo perché nel testamento del 1673 Baldassarre si dice figlio di un Francesco Angelo «Romanus» (Sparti, p. 114); dal matrimonio con Caterina Masetti nacquero almeno cinque figli: due femmine fattesi monache (Candida Ermellina e Agnese Francesca) e tre maschi (il M., Francesco e Domenico), che seguirono la professione paterna, morendo tutti in età piuttosto giovane senza potersi affrancare dal ruolo di collaboratori nei cantieri berniniani. La famiglia, residente in via Paolina, era forse imparentata con lo scultore G.B. Naldini che sposò una Virginia Mari di Todi; successivamente si strinsero legami di parentela con lo scultore F.A. Fontana, la sorella del quale sposò Francesco.
La nascita di Baldassarre va fissata intorno al 1596. Nel 1625 fu nominato accademico di S. Luca e nel 1641 socio dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon. La sua fama è legata soprattutto alla lunga attività come restauratore. Le prime notizie risalgono agli incarichi da parte dei Borghese per la reintegrazione di marmi antichi (1628-32). A partire dal 1645 lavorò per i Pamphili, sotto la direzione di A. Algardi, restaurando le sculture destinate al casino del Bel Respiro nella villa Doria-Pamphili. Nel 1651-52 e nel 1657 ricevette pagamenti per restauri e reintegrazioni da parte della famiglia Colonna. Dal 1662 al 1672 svolse un’intensa attività per conto del cardinale Flavio Chigi: reintegrazioni e acquisti di sculture antiche sono documentati da numerosi pagamenti (Sparti). Tra le antichità individuate o note attraverso incisioni si possono citare una Venere con putto che sormonta un delfino, ora alla Skulpturensammlung di Dresda, un gruppo di Apollo e Marsia, una Talia, una Tuccia, un’Agrippina. Frutto di un vero e proprio pastiche è il Commodo-Amazzone nella sala degli Animali dei Musei Vaticani, già nella villa Mattei sul Celio, composto con diversi frammenti antichi tra il 1653 e il 1655 (Spinola). Parallelamente all’attività di restauratore Baldassarre ebbe incarichi come scultore, anche se sempre in opere collettive che non permettono di attribuirgli alcun lavoro indipendente. A partire dal 1645 prese parte, sotto la direzione di Bernini, alla decorazione plastica dei pilastri interni della basilica di S. Pietro; all’impresa, terminata nel 1649, collaborarono 41 scultori, che realizzarono 56 medaglioni con le effigi di papi santi e martiri, 192 angeli e putti, 104 colombe dello stemma Pamphili (il compenso per ogni pilastro fu fissato in 500 scudi); i rilievi seguono complessivamente il disegno berniniano e i modelli al vero predisposti da G.U. Abbatini; la realizzazione presenta evidenti difformità stilistiche, ma non è comunque possibile identificare i realizzatori (Tratz). Sempre Bernini lo coinvolse nei lavori nella cappella Cornaro (Corner) in S. Maria della Vittoria (1647-53), ordinata dal cardinale Federico; il ricco complesso decorativo berniniano fu realizzato con largo impiego di collaboratori: Baldassarre con il M., il marmoraro G. Renzi e gli scultori I.A. Fancelli, L. Morelli, A. Raggi. I documenti rinvenuti (Napoleone) attestano, per lavori non specificati, i seguenti pagamenti a Baldassarre: 20 scudi in giugno e 20 in settembre nel 1649; 25 scudi in marzo e 15 in giugno nel 1650; 35 scudi nel febbraio del 1651. Si tratta probabilmente di compensi legati alla sua collaborazione ai rilievi laterali con i membri della famiglia Cornaro, eseguiti insieme con Fancelli, Morelli e Raggi. Proprio con Raggi collaborò nello stesso periodo (1647-50) alla realizzazione dell’insegna del cardinale Giulio Mazzarino sulla facciata dei Ss. Vincenzo e Anastasio in Trevi: a Baldassarre spettano i due puttini nell’atto di sorreggere il cappello cardinalizio e suonare le trombe della Fama. Negli anni successivi si occupò esclusivamente del restauro e commercio di marmi antichi. Morì a Roma il 14 ott. 1673, lasciando erede universale il figlio Domenico; fu sepolto in S. Lorenzo in Lucina.
La prima segnalazione dell’attività del M. riguarda il lavoro compiuto accanto al padre nell’arma cardinalizia dei Ss. Vincenzo e Anastasia nel cantiere berniniano della cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria: a suo favore si registra un solo pagamento, di entità modesta (12 scudi), versato nel luglio 1651 per lavori imprecisati. Nello stesso anno si avviava la travagliata vicenda del completamento della fontana, oggi detta del Moro, di fronte a palazzo Pamphili in piazza Navona.
Terminato il cantiere della Fontana dei Fiumi, Bernini fu incaricato da Innocenzo X di arricchire la fontana cinquecentesca di G. Della Porta con una scultura da porre al centro della vasca: nei due anni successivi furono prospettate diverse soluzioni (disegni, bozzetti, una prima scultura in marmo, detta la Lumaca, poi rimossa) che però non soddisfecero il papa e la cognata Olimpia Maidalchini. Alla fine Bernini giunse alla soluzione di una figura virile nuda posta sopra una grossa conchiglia; il gigante, detto nei documenti Tritone e solo successivamente – per i tratti negroidi del volto – ribattezzato il Moro, è ispirato alla vicina statua di Pasquino ed è intento a tenere per la coda un delfino che, con il capo stretto tra le gambe dell’uomo, riversa acqua nella fontana.
La realizzazione del gruppo marmoreo fu affidata al M.: il Moro è certamente la sua opera più celebre, anche se il suo apporto fu piuttosto limitato.
Per scolpire la statua, infatti, si attenne fedelmente alle indicazioni di Bernini, che si conoscono attraverso disegni, bozzetti e modelli preparatori tra cui la testa del Moro, in terracotta, conservata nel Museo del Palazzo di Venezia a Roma, e il grande modello a figura intera, sempre in terracotta, apparso sul mercato antiquario (Sotheby’s, Londra, 9 luglio 2002) e acquistato nel 2004 dal Kimbell Museum di Forth Worth in Texas. Per scolpire il «tritone, pescie e lumacone» (come li definisce Bernini nella richiesta di pagamento, riportata in D’Onofrio, p. 445) il M. ricevette, in rate tra l’8 ag. 1653 e il 19 luglio 1655, 300 scudi; altri 10 scudi furono aggiunti per un festone di marmo, inizialmente non previsto, che doveva coprire il condotto di piombo che porta l’acqua a fuoriuscire dalla bocca del pesce.
Subito dopo Bernini affidò al M. la realizzazione della statua di S. Barbara per il duomo di Rieti. La cappella di S. Barbara (la quarta della navata sinistra) fu decorata per lascito testamentario di don Antonio Petrollini, scrittore apostolico, morto a Roma il 10 marzo 1650; per adempiere al lascito fu nominata una congregazione di dodici cittadini. Il progetto della cappella fu disegnato da Bernini e i lavori iniziarono nell’agosto 1653; due anni dopo, il 13 apr. 1655, la congregazione deliberò di spendere 150 scudi per la statua della santa.
L’8 maggio 1655 lo stesso Bernini chiese a fra F. Vecchiarelli di «far pagare a Gio. Antonio Mari scultore scudi cinquanta moneta a buon conto di scudi 150 quali sono per prezzo d’una statua di marmo […], la quale rappresenta S. Barbara […] conforme il disegno […] fatto da me» (Sacchetti Sassetti, pp. 220 s.); il 10 maggio la congregazione approvò la spesa di 15 scudi per l’allisciatura della statua. I lavori rimasero sospesi a causa della peste che colpì Rieti fino alla primavera del 1657 e la statua giunse a destinazione solo nel settembre dello stesso anno. Gli accordi per il completamento della cappella secondo i progetti berniniani non ebbero seguito e la S. Barbara rimase in una sistemazione spoglia fino alla prima metà del Settecento, quando ricevette una nuova decorazione plastica realizzata da L. Ottoni.
Dopo l’elezione di Fabio Chigi, pontefice Alessandro VII, nell’aprile 1655, Bernini fu incaricato di dirigere il cantiere di abbellimento della chiesa di S. Maria del Popolo. Nella navata centrale, sugli arconi che fanno da collegamento con le navate laterali, furono disposte otto coppie di sante vergini e martiri in stucco; all’impresa collaborarono, oltre al M., G.F. De Rossi, P. Naldini, Morelli, Raggi e G. Peroni; il M. è autore della coppia sulla terza campata a destra, con S. Cecilia e S. Orsola, per le quali ricevette un acconto il 24 ag. 1655 e fu pagato a saldo il 5 ottobre successivo (Cugnoni).
Della S. Orsola si conserva anche uno schizzo autografo di Bernini (Lipsia, Museum der bildenden Künste), l’unico sopravvissuto tra quelli preparati dal maestro per l’esecuzione delle statue; il disegno permette di verificare quanto il M. fosse preciso e diligente esecutore dei modelli berniniani, non sempre seguiti dai numerosi e stilisticamente difformi scultori coinvolti nell’impresa (Montagu, 1991).
I lavori in S. Maria del Popolo proseguirono con gli interventi nel transetto.
Alle estremità furono posti altari con pale racchiuse in cornici marmoree sorrette da coppie di angeli in marmo; le pose degli angeli, ideate da Bernini, furono definite attraverso disegni di suoi collaboratori; la realizzazione fu divisa tra quattro scultori: gli angeli del braccio sinistro, ai lati della pala di B. Mei, sono del M. (a sinistra) e di Raggi (a destra); gli angeli del braccio destro, ai lati della pala di G.M. Morandi, sono di E. Ferrata (a sinistra) e di A. Giardè (a destra). Quest’ultimo è, però, assegnato anch’esso al M. da Titi. Per il lavoro il M. fu pagato in sei rate tra il 28 maggio 1657 e il 17 luglio 1658.
Nello stesso periodo vanno collocati i lavori per il Monumento sepolcrale del cardinale spagnolo Domenico Pimentel in S. Maria sopra Minerva, realizzato su progetto di Bernini nella cappella a sinistra dell’abside adibita a passaggio verso l’esterno.
Pimentel era stato nominato cardinale nel 1652 ed era morto nel 1653; gli esecutori testamentari ottennero lo spazio per la tomba, sulla parete destra, solo nel marzo 1655 (Bernstock); l’opera fu probabilmente compiuta entro un paio d’anni. Bernini studiò l’architettura del monumento e le pose delle cinque figure (il defunto e le virtù) – già definite in un disegno della Pierpont Morgan Library di New York – ma ne affidò l’esecuzione ai suoi collaboratori, ricordati da Titi nel 1674: Ferrata eseguì il ritratto del cardinale inginocchiato e le due virtù in secondo piano (la Sapienza e la Fede); mentre le Virtù a tutto tondo in primo piano furono scolpite da Raggi (la Carità con due putti) e dal M. (la Giustizia, piangente e con le mani sul viso, accompagnata da un putto). L’opera segna, col suo intenso pathos, un ulteriore passo verso la completa affermazione del M., abilissimo interprete dell’enfasi retorica berniniana.
Il M. è presente un’ultima volta nel 1660 in un lavoro di restauro: in luglio ricevette 69,50 scudi per «accomodare, e resarcire l’Angelo di marmo, che stà posto sul maschio di Castel S. Angelo» (Sparti, p. 114); quello stesso anno la statua di Raffaello da Montelupo (ora nel cortile d’onore) era stata gravemente danneggiata durante i lavori per disfare il pennone dello stendardo: al M. fu dato il compito di ricomporre i pezzi staccati e rifare il braccio destro, parte dell’elmo e del panneggio.
Tra le opere che gli sono state attribuite va ricordata una terracotta, preparatoria per il S. Giusto del colonnato di S. Pietro, conservata a Berlino, Staatliche Museen (Schlegel, pp. 34 s.); l’attribuzione non è però condivisa da Montagu (1991), che propende per l’assegnazione a P. Naldini. L’attribuzione al M. e a Raggi dei due tondi sul portale del palazzo di Montecitorio va respinta per ragioni cronologiche; i rilievi furono infatti inseriti nel 1694 durante gli interventi diretti da C. Fontana (Ferrari-Papaldo).
Il M. morì a Roma nel 1661 (De Lotto).
I due fratelli, Francesco e Domenico, morirono pure abbastanza giovani; e le opere che finora sono state ricondotte al loro catalogo sono piuttosto esigue. Francesco nacque a Roma il 6 ott. 1641 nella parrocchia di S. Nicola in Arcione (ibid.). Dall’agosto 1666 al febbraio 1668 scolpì tre statue per il colonnato di S. Pietro, ricevendo complessivamente 270 scudi; in base a raffronti stilistici gli sono state attribuite le figure di S. Apollonio e di S. Benigno (Le statue berniniane…, pp. 91, 95). Per altre due opere che gli vengono assegnate (in S. Pudenziana e in S. Maria sopra Minerva) non sono mancate interpretazioni contrastanti. Titi (1674) gli attribuisce una delle quattro Virtù poste nelle nicchie della cappella Caetani in S. Pudenziana. Secondo De Lotto la commissione sarebbe da anticipare agli anni 1650-60 e la statua (identificata con la Fortezza) non sarebbe da attribuire a Francesco ma a Giovanni Antonio Mari. Ferrari (1996) ha respinto tale ipotesi e, tenendo conto di una più probabile datazione al 1668, ha ribadito la seguente associazione: Francesco, la Fortezza; C. Malavista, la Temperanza; C.-A. Bréfort, la Prudenza; un artista non identificato, la Giustizia. Secondo Zanuso-Bacchi, il passo Titi, interpretato diversamente, fa assegnare a Francesco la Prudenza, a C. Malavista la Giustizia, a C.-A. Bréfort la Temperanza: l’autore della Fortezza, che Titi dice essere di «un allievo del Guidi», viene identificato con A. Parisi. In Ferrari-Papaldo, per un probabile refuso, la Fortezza è assegnata a un inesistente Vincenzo Mari. Sempre Titi (1674) parlando del Monumento del cardinale Carlo Bonelli in S. Maria sopra Minerva, iniziato «ultimamente» da C. Rainaldi, afferma che la Fama con il ritratto del defunto è opera di Ferrata, la Carità di F. Carcani e le «altre di Michele, e Francesco allievi del Ferrata» (p. 90); mentre le due virtù sedute sono dette ancora in lavorazione per opera di C. Fancelli e De Rossi; nell’edizione del 1686 si specifica che a Monsù Michele (cioè M. Maille) spetterebbe la Religione, rimanendo così oscuro quale sarebbe il lavoro svolto dal citato Francesco (che solo nell’edizione del 1763 viene espressamente indicato come «Mari» forse per semplice associazione con il «fratello di Francesco Mari» ricordato nel contiguo Monumento Pimentel). Pertanto in Zanuso-Bacchi è stata avanzata l’ipotesi che l’allievo di Ferrata debba essere identificato con Francesco Aprile e che l’intervento di Francesco vada circoscritto ai due putti sul timpano. Non potendogli attribuire con certezza nessuna opera, risulta piuttosto difficile sciogliere il nodo dei caratteri stilistici del suo lavoro, a seconda infatti che nella cappella Caetani gli si attribuisca la Fortezza – di un movimentato gusto berniniano – oppure la Prudenza – di classica ascendenza algardiana – cambia nettamente la fisionomia dell’artista e la possibilità di confermare le attribuzioni delle statue del colonnato e del Monumento Bonelli. Nel 1671 Francesco sposò Anna Angela Fontana e si trasferì dalla casa paterna di via Paolina alla parrocchia dei Ss. Quirico e Giulitta, dove risulta avere in affitto una casa nel dicembre 1673; la sua presenza in questa parrocchia è documentata fino al marzo 1676. Non si conosce la data esatta della morte.
Domenico nacque a Roma il 28 febbr. 1643 (De Lotto). Si formò nella bottega paterna e con lui collaborò al restauro di statue antiche; nel 1663 risulta infatti a Formello impiegato nel completamento di una statua di imperatore nella villa dei Chigi, dove lavorava anche il padre. A soli ventitré anni fu coinvolto, come il fratello, nella grande impresa berniniana del colonnato di S. Pietro: tra l’agosto e il dicembre 1666 eseguì una statua ricevendo un compenso di 100 scudi. Morì a Roma il 2 nov. 1674 e fu sepolto in S. Lorenzo in Lucina (ibid.).
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