GARZONI, Giovanna
, Nacque, quasi certamente, ad Ascoli Piceno nel 1600 da Giacomo e da Isabetta Gaia.
La data di nascita si ricava esclusivamente dalla Sacra Famiglia (collezione privata), firmata e datata 1616 e realizzata, secondo l'iscrizione autografa, quando l'artista aveva sedici anni (Casale, 1996, p. 32). Un documento del 1603, conservato presso l'Archivio di Stato di Ascoli Piceno, dimostra che in quegli anni i genitori risiedevano nella città marchigiana (Fabiani, 1959) e fornisce indicazioni sulle origini della G.: il padre era veneziano e la madre, nata probabilmente ad Ascoli, aveva genitori anch'essi veneziani. Il nonno materno, Nicola Gaia, e il fratello Vincenzo, entrambi orafi, erano giunti ad Ascoli provenienti da Ferrara, intorno agli anni Settanta del XVI secolo. Lo zio, Pietro Gaia, nacque ad Ascoli e fu attivo come pittore almeno per tutto il primo ventennio del Seicento.
Molto probabilmente furono i parenti della madre a impartire i primi insegnamenti alla giovane G. che ben presto, però, ebbe diretti contatti con Venezia. Il ritrovamento delle sue prime prove, la già citata Sacra Famiglia e una tela di grandi dimensioni raffigurante S. Andrea (Venezia, Gallerie dell'Accademia, depositi), consente di trarre utili considerazioni riguardo la sua formazione e gli anni giovanili trascorsi nella città lagunare. Entrambe le tele mostrano un'artista formatasi sugli esempi di Palma il Giovane (Iacopo Negretti); e le affinità stilistiche sono così evidenti da fare ipotizzare un alunnato presso il maestro veneziano.
Se per la Sacra Famiglia è possibile pensare a generiche influenze della pittura veneziana seicentesca, mediate da Pietro Gaia, il S. Andrea rivela invece una conoscenza di prima mano dell'arte di Palma il Giovane: in particolare, di un'opera di analogo soggetto eseguita da quest'ultimo a Venezia nel 1617 e in seguito inviata a Storo, in Trentino, nella chiesa di S. Floriano.
A Venezia, dove visse con il fratello Mattio, la G. eseguì su pergamena un piccolo Ritratto di gentiluomo, ora all'Aia, datato 1625 (Holck Colding); andò anche a scuola di calligrafia da Giacomo Rogni, come si apprende dal Libro de' caratteri cancellereschi corsivi realizzato in quegli anni: il Libro, conservato manoscritto a Roma, presso l'Accademia di S. Luca, contiene lettere e brevi apologhi eseguiti dall'artista con grafia corretta e variata (Cipriani) oltre al capolettera della prima pagina (una "G" decorata con motivi vegetali e animali) che rappresenta una delle sue prime prove di miniatura oggi note.
Nel 1630, accompagnata dal fratello, si trasferì a Napoli al servizio del viceré F. Alfán de Ribera duca di Alcalà. Durante il viaggio sostò per un certo tempo a Roma, dove stabilì rapporti con Cassiano Dal Pozzo iunior e con Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini, nipote di papa Urbano VIII. Non si conoscono opere riferibili al soggiorno napoletano né altre eseguite per committenti romani; le uniche notizie documentarie, riportate da Bottari, la ricordano prevalentemente come ritrattista.
Il soggiorno napoletano si concluse ben presto; dopo circa un anno dal suo arrivo, il duca di Alcalà venne richiamato in patria e la G. si ritrovò senza uno stipendio fisso. Si rivolse a Dal Pozzo pregandolo di trovarle una sistemazione a Roma, dove si trasferì nuovamente verso la fine del 1631.
Conosciuta la sua fama di ritrattista, Cristina di Francia, duchessa di Savoia, richiese i suoi servizi a Torino. Nel novembre 1632 la G. giunse nella città piemontese, dove svolse un'intensa attività per la corte sabauda. Gli inventari di casa Savoia citano varie sue miniature, di carattere sacro e mitologico, e anche ritratti (Vesme, 1897). Agli inizi degli anni Trenta risalgono quelli dei duchi Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I (Torino, Palazzo Reale), che la G. derivò da dipinti preesistenti.
Le due miniature risentono ancora della cultura tardomanierista internazionale che aveva avuto a Torino i massimi rappresentanti in Giacomo Vighi, detto l'Argenta, e in G. Carrocha (Jan Kraeck). Ma nelle due piccole pergamene la G. già mostra quelle caratteristiche che faranno di lei un'artista ricercata e famosa: una grande abilità nel disegno, un colore morbido e seducente e, soprattutto, una raffinatissima abilità tecnica; l'uso del puntinato le permette di raggiungere effetti di estrema luminosità e di dare alle superfici una vibrazione che le rende quasi palpitanti.
A Torino dipinse anche un piccolo Ritratto di mulatto, datato 1635 (Casale, 1991, p. 55), e un Apollo, oggi conservato a Roma nel palazzo del Quirinale. Al periodo torinese appartiene anche la sua prima natura morta attualmente nota: un Piatto di ceramica con frutti, firmato sul tralcio di vite (Fumagalli, 1989, p. 568).
La miniatura ci consente di individuare le componenti artistiche e culturali con cui la G. era venuta in contatto presso i Savoia. Il dipinto nasce dall'incontro con l'arte dei pittori di natura morta d'Oltralpe e di quelli della vicina Lombardia. Se da una parte l'artista, alla maniera fiamminga, presenta una certa quantità di oggetti, diverse varietà di frutta e d'insetti, tutti descritti nei minimi particolari, contemporaneamente, però, rinuncia a disseminarli in modo casuale sul piano e li colloca entro un contenitore al centro della composizione; ed è proprio nella scelta dell'unitarietà generale dell'impianto che si fa sentire l'influsso della pittura lombarda e di Fede Galizia in particolare.
Nel 1637, alla morte di Vittorio Amedeo di Savoia, la G. lasciò Torino. Gli anni successivi, fino al 1641, non sono documentati; in base a diversi indizi (Casale, 1991, p. 9) si può pensare che la G. si sia recata al di là delle Alpi, quasi certamente in Francia e, probabilmente, anche in Inghilterra. È certo comunque il contatto con artisti d'Oltralpe che influirono in modo determinante sugli ulteriori sviluppi dell'arte garzoniana. Se è possibile individuare delle analogie con la ritrattistica inglese, in particolare con John Hoskins, per le nature morte i riferimenti ai pittori francesi e, soprattutto, olandesi sono in alcuni casi molto più evidenti.
Quando verso la metà degli anni Quaranta, dopo un altro soggiorno romano, durante il quale eseguì forse l'erbario oggi conservato a Dumbarton Oaks (Mongan, 1984), si trasferì a Firenze e iniziò la sua collaborazione con i Medici, la G. era ormai un'artista affermata, che dalle diverse esperienze vissute aveva maturato uno stile personale, unico nel panorama del Seicento europeo.
Furono committenti e ammiratori della G. dal suo arrivo a Firenze fino alla conclusione della sua attività artistica vari componenti della famiglia de' Medici: il granduca Ferdinando II, la moglie Vittoria Della Rovere, don Lorenzo, Leopoldo e Giovan Carlo. Furono i Medici ad acquistare o a fare eseguire alcune delle sue opere di maggior rilievo: gli splendidi ritratti di Vittorio Amedeo, duca di Savoia e della madre Caterina d'Austria, duchessa di Savoia, e i ritrattini di Leopoldo de' Medici e del Cardinal Richelieu (Firenze, Galleria degli Uffizi); il Vecchio di Artimino e la Canina (Ibid., Palazzo Pitti); un gran numero di vasi di fiori e di piatti di frutta (Casale, 1991). Databile al periodo fiorentino, sebbene non legato al rapporto della G. con i Medici, sembra essere anche il bel S. Giovanni Battista nel deserto, recentemente rintracciato (Id., 1996, pp. 64 s.).
Le miniature della maturità - eseguite in parte a Firenze e in parte a Roma, dove si stabilì definitivamente nel 1651 continuando a lavorare, in particolare, per la committenza medicea - sono caratterizzate dalla commistione di elementi fiamminghi e lombardi e dall'attenta osservazione delle illustrazioni di Iacopo Ligozzi, conosciute e studiate a Firenze, oltre che delle opere naturalistiche viste prevalentemente a Roma nell'ambito dell'Accademia dei Lincei.
La G. dipinse un gran numero di vasi di fiori in cui dimostrò le sue grandi capacità sia dal punto di vista compositivo, nella disposizione dei fiori nel bouquet, sia tecnico. Le composizioni si diversificano per il numero dei fiori, tutti di una ricchezza straordinaria di colori, realizzati sempre con un fitto puntinato che sembra assorbire la luce per renderla poi all'esterno sotto forma di vibrazione luminosa, con effetti di raffinatissima sensibilità pittorica. La miniatrice seppe indagare la morfologia del fiore con attenzione quasi naturalistica, soffermandosi, come gli artisti fiamminghi, sui minimi particolari, sebbene la resa del fiore, così carnoso e plastico, risenta più di modelli olandesi.
Entro il 1662, su commissione di Ferdinando II de' Medici, la G. realizzò una serie di miniature comprendenti almeno venti piatti di frutta (Firenze, Palazzo Pitti) che vennero collocate nella villa di Poggio Imperiale dove li ricordano gli inventari medicei di fine Seicento. Sopra un terreno roccioso, entro piatti in ceramica decorata o porcellana, sono collocati frutti o ortaggi, comunque prodotti della terra. Il motivo è sempre lo stesso, giocato solo sulla variante della frutta o su inserimenti di fiori o altri frutti in primo piano: qualche volta compare un insetto, altre volte un uccello. Nonostante l'apparente ripetitività dei soggetti, in queste tempere la G. variò il timbro della luce o la levigatezza delle superfici, modificò la sensibilità della pellicola pittorica, creò effetti di grande virtuosismo.
A conferma del successo che ottennero tali composizioni, in tempi più o meno recenti è stato rintracciato in collezioni private o sul mercato un certo numero di pergamene che, per dimensioni e tematica, rimandano direttamente alla serie realizzata per Ferdinando II: per esempio, lo splendido Piatto con limoni in collezione privata (Casale, 1996). D'altro canto, era pratica abituale della G. copiare e replicare le sue pergamene, attività cui si dedicava quando non poteva ritrarre i fiori dal vero (Id., 1991, p. 207).
Vanno ancora ricordati alcuni studi di essenze vegetali, conservati nel Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, nei quali non si può fare a meno di notare la forte somiglianza con le illustrazioni del Ligozzi, anche dal punto di vista della tecnica pittorica. Nelle pergamene della G., però, alla precisa attenzione naturalistica sembra contrapporsi un'inarrestabile voglia di "fare pittura", che quasi costringe l'artista a intensificare i chiaroscuri o a disegnare le ombre degli oggetti.
A Roma, dal 1651, la G. strinse rapporti con l'Accademia di S. Luca: pur non essendo stati rintracciati documenti che confermino una sua elezione ad accademica, dal 1654 partecipò alle riunioni degli accademici e questi, quando la G. anni dopo si trovò a casa malata, l'andarono a trovare portandole "pane di zuccaro" e "altre confetture" (Cipriani, p. 244 n. 9).
La G. morì a Roma tra il 10 e il 15 febbr. 1670.
Fu sepolta nella chiesa dei Ss. Luca e Martina dove, rispettando la sua volontà, l'Accademia fece costruire una tomba che fu realizzata, però, solo nel 1698. Facendo testamento nel 1666 la G. aveva disposto che quasi tutti i suoi beni andassero all'Accademia di S. Luca, presso la quale si conservano importanti documenti riguardanti la sua vita e alcune sue miniature, successivamente rilegate in un Libro di miniature e disegni.
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