PORRO, Giovanangelo
PORRO, Giovanangelo. – Nacque forse a Barlassina, nei dintorni di Seveso (Milano), dal magister Protasio di ‘Fazino’ (di professione non definita) e da Franceschina da Guenzate. La data può presumibilmente essere fatta risalire al 1451, come si deduce dagli anni di età (54) che gli assegna la registrazione archivistica relativa alle circostanze della morte, nel 1505.
Nella località rurale d’origine, la famiglia (non sembra avere fondamento la patina nobiliare attribuitale dalla postuma fama agiografica) appare in ogni caso insediata in anni successivi. E qui il padre morì nel 1468, lasciando la moglie e tre figli.
Ormai quasi ventenne, Porro si orientò verso la scelta della vita religiosa. È probabile che sin dall’inizio la casa che lo accolse fosse il convento di S. Maria dei Servi a Milano, dove risulta certamente presente alla fine del 1470. Nel convento milanese, che era il centro della provincia lombarda dell’Ordine, Porro trascorse il periodo di noviziato ed emise la professione dei voti. Già dall’estate del 1474 le fonti lo attestano però trasferito a Firenze, nel convento dell’Annunziata, dove dovette soggiornare per un triennio, perfezionandosi – si può ipotizzare – negli studi e venendo infine ordinato sacerdote.
L’avvio della militanza nel clero regolare gli trasmise subito uno dei caratteri che rimasero costanti in tutta l’esperienza successivamente dispiegata: l’oscillazione continua tra l’apertura alla dimensione apostolica e missionaria nel contesto urbano, verso cui spingeva il modello diventato dominante negli Ordini mendicanti tardomedievali, e l’inclinazione ascetica di una spiritualità contemplativa, che inseguiva l’isolamento del ‘romitorio’, ancorandosi alla vita solitaria, alle asprezze della penitenza e delle mortificazioni, alla povertà vissuta come rinuncia e autolimitazione all’essenziale.
Nel clima dell’epoca, il ripiegamento nel deserto dell’eremo poteva del resto essere visto come un’esperienza di purificazione che, in se stessa, aveva il compito di immettere chi vi si dedicava in un servizio più autentico e generoso, come vero discepolo di Cristo, in risposta ai doveri dettati dal proprio stato di vita.
La sintesi tra impegno operoso nella cornice della società cittadina di età rinascimentale e austerità eremitica alla ricerca della perfezione individuale si riflette nelle opzioni assecondate da Porro per dare una forma alla sua identità di fervente servita.
Nell’estate del 1477 si trasferì nell’eremo di Monte Senario, sulle colline a Nord di Firenze, e ci restò per circa un ventennio pressoché ininterrottamente.
Luogo appartato di preghiera e di meditazione, aperto dai sette santi padri fondatori dell’Ordine dei servi di Maria intorno al 1240, il piccolo cenobio era stato restaurato e rimesso in buone condizioni da un gruppo di devoti religiosi agli inizi del Quattrocento, e si prestava egregiamente ad attrarre quanti desideravano perseguire, all’interno della famiglia conventuale, una radicalità più esigente nell’osservanza della regola.
Nel 1487-88 a Monte Senario Porro ricoprì l’incarico di priore. Alternando il soggiorno nel romitorio con brevi periodi di ritorno all’Annunziata, accettò anche di trascorrere alcuni mesi, dopo il 1488, sempre come priore, in un altro eremo alle dipendenze del convento fiorentino: S. Maria delle Grazie, nel Chianti.
Nessun dato puntuale consente di circoscrivere con precisione la fine dell’esperienza condotta in terra toscana. Quel che è certo è che nel corso dell’ultimo decennio del Quattrocento Porro rientrò nella provincia di Lombardia. Non è escluso che abbia temporaneamente soggiornato, in continuità con le consuetudini del periodo precedente, in qualche piccolo convento extraurbano, come quello di Cavacurta, nel Lodigiano, cui lo ricollega un’antica tradizione di memorie legate al possesso di preziose reliquie. Ma alla fine fu Milano a imporsi come approdo ineludibile.
La nuova fase inaugurata con il ritorno al luogo da cui l’esperienza religiosa del frate servita aveva tratto l’impulso iniziale creò anche le condizioni perché la serietà del lungo itinerario di formazione, nutrito dalla scuola di spiritualità della congregazione di appartenenza, producesse i suoi frutti più tangibili sul piano della pubblica riconoscibilità. Dall’eremo, l’accento si spostò decisamente sull’immersione nel cantiere di un grande universo urbano. Negli anni estremi del Ducato sforzesco, all’immediata vigilia della conquista francese, la comunità dei serviti milanesi si trovava investita da esigenze di riforma religiosa e di pieno restauro della disciplina conventuale, che chiamavano in causa il patrocinio della più alta autorità politica del territorio allo scopo di vincere le resistenze interne che ne frenavano l’avanzata.
Anche Porro dovette darvi il suo apporto convinto, attraverso l’esemplarità della condotta personale, con il servizio efficace svolto in qualità di maestro dei novizi, mansione in cui si era cimentato già durante il periodo toscano (probabilmente per loro compose dei Salutaria monita che si conservavano sotto il suo nome ancora alla metà del Cinquecento, ma in seguito sono andati perduti), senza tralasciare il bisogno impellente di estendere al di fuori delle mura conventuali la proposta di una fede che si voleva rendere più viva, rinnovata nei costumi e più consapevole.
La strada che Porro sembra aver privilegiato, su tale versante, fu quella dell’istruzione religiosa dei ragazzi, destinata a massicci sviluppi nella prassi pastorale di area cattolica dell’età moderna. Un tenace topos agiografico, sancito in termini ormai perentori nello scritto sull’Origine e successi della dottrina christiana in Milano, dell’omonimo sacerdote milanese Ippolito Porro (Milano 1640), autore anche di una fortunata Breve narratione della vita del gran servo di Dio beato padre Giovann’Angelo Porro di Milano (Pavia 1623), fissò sulla carta una convinzione parallelamente tramandata dagli schemi dell’iconografia che si costruì intorno alla memoria del religioso morto in odore di santità, riprodotti senza smentite fino all’ultima contemporaneità. Ne scaturì la forte sottolineatura dell’interesse da lui dimostrato per l’educazione dei giovani. Il futuro beato assunse le vesti di una sorta di pioniere della catechesi sistematica dell’infanzia, affermatasi però solo nella successiva età tridentina con adeguato supporto di strumenti didattici e ampio sostegno di persone organizzate in una fitta rete di strutture specializzate: «Il beato Giovanni Angelo Porro […] tutti i giorni della festa, benché fosse priore, stava sopra la porta della sua chiesa e per le strade, cercando i figliuoli; et conducendoli in scuola, insegnava loro la dottrina christiana» (I. Porro, Origine e successi, cit., p. 104, citato sulla scorta di Montagna, 1996, p. 58).
L’enfasi data a questo ruolo di sperimentatore di una nuova modalità di rapporto tra la Chiesa e la società dei laici è rilevabile ancora nel cuore del Novecento. In effetti l’esiguità delle fonti primarie non consente di gettare piena luce sui tratti specifici dell’itinerario biografico percorso da Porro, né sui quadri culturali in cui esso si inscriveva, neppure per la fase cronologicamente più avanzata della sua esistenza. La parte preponderante della documentazione superstite risulta frutto di una rilettura retrospettiva in chiave encomiastica, tesa a nobilitare una fama di santità presto destatasi con vivace forza di suggestione.
La morte arrivò certamente entro la fine del 1505: il Liber defunctorum della città di Milano lo dichiara deceduto sotto la data del 23 ottobre, «ex febre cum dolore iuncturarum» (Archivio di Stato di Milano, Popolazione, parte antica, 80).
I segni di straordinarietà cominciarono a manifestarsi immediatamente dopo la morte. La salma non poté essere deposta nella sepoltura dei frati del convento e si finì con il collocarla sopra l’altare di una cappella laterale della chiesa di S. Maria dei Servi, inserendola in un’urna, più volte rinnovata nel corso del tempo, dove il corpo si conservò in larga parte incorrotto. La tomba divenne il centro di un culto cordialmente sostenuto dall’intera cittadinanza milanese, con la moltiplicazione di guarigioni ed eventi miracolosi, afflusso di doni votivi, nascita di una ‘scuola’ di devoti e solenne festa annuale. Nella stima collettiva si radicò, in particolare, l’immagine di taumaturgo visto, di nuovo, in connessione con il mondo dell’infanzia: soprattutto per i bambini malati e le donne alle prese con i rischi del parto si ricorreva alle virtù protettive del venerato defunto, esaltando il valore di una sua reliquia, una tunica con la quale venivano benedetti i soggetti in stato di pericolo per cui si chiedevano grazie.
Un primo tentativo di avvio delle procedure canoniche per l’accertamento della santità fu messo in atto a Milano nel 1625, ma si arenò anche per effetto della crisi legata alla peste degli anni successivi. Si riprese in mano il progetto nel 1728-30, riuscendo questa volta a ottenere il pronunciamento degli organi del governo centrale della Curia romana. Le autorità competenti provvidero agli ulteriori accertamenti e nel 1737 fu riconosciuta la legittimità del culto tributato ab immemorabili a Giovanangelo Porro, elevandolo al rango di beato. Negli anni Quaranta-Cinquanta del Settecento si abbordarono i passi successivi dell’iter procedurale in vista della definitiva canonizzazione papale, che non approdarono però, né allora né in seguito, al loro esito ultimo.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Popolazione, parte antica, 80: Liber defunctorum civitatis et corporum sanctorum Mediolani, 1505; Archivio storico diocesano, Sacri riti. Canonizzazioni, 31-36, 43; Roma, Archivio generale dell’ordine dei Servi di Maria, Postulatio causarum beatorum et sanctorum, ad nomen; Città del Vaticano, Archivio segreto Vaticano, Congregazione dei riti, 1689-1690; Paris, Bibliothèque nationale de France, Mss., H.1018-1019 (3755-3772).
D.M. Montagna, P., G., beato, in Bibliotheca sanctorum, X, Roma 1968, coll. 1046-1051; Id., Il beato G. P. da Milano (1451-1505). Testimonianze di culto dalla morte ad oggi, Milano 1996.