MOROSINI, Giovan Francesco
– Nacque a Venezia il 25 agosto 1658, figlio di Domenico Morosini (1634-1660) di Alvise e di Elena di Federico Corner.
Apparteneva al ramo dei Morosini detti ‘del giardino’ per via, appunto, del giardino che separava in due blocchi (uno prospiciente sul canale, l’altro affacciato sulla calle) il palazzo della famiglia a S. Canciano e che Morosini convertì in spazioso cortile con atrio sostenuto da colonne.
Orfano, appena infante, di padre, della sua educazione si preoccuparono il prozio paterno omonimo, patriarca di Venezia, e più da vicino lo zio paterno Giovanni per il quale – scapolo e senza discendenza diretta – Morosini era come un figlio. Accasatosi il 30 gennaio 1676 con Paolina Contarini di Marco Contarini – dalla quale ebbe Alvise (1677-1739, che sarebbe stato senatore), Domenico, Elisabetta ed Elena – dal marzo 1684 al luglio 1685 Morosini fu, come già il nonno e lo zio paterni, podestà di Chioggia.
Chioggia era animata da costantissima fedeltà a Venezia, e il 15 febbraio 1685, malgrado le angustie della povertà che l’affliggeva, offrì 2000 ducati alle urgenze della Serenissima che fronteggiava il Turco. A detta del canonicus concordiensis e dottore in teologia Giacomo Bonati (1733), al rettorato clodiense seguirono per Morosini grandiosa munera che lo videro oratore presso il re d’Inghilterra Guglielmo e l’imperatore Leopoldo I. Il che non risulta. D’altra parte è da escludere che il canonico panegirista d’un Morosini ancor in vita si sia del tutto inventata la notizia della sua permanenza a Londra e a Vienna. Con tutta probabilità ci andò veramente, non nella veste di diplomatico ma facendo parte del seguito.
Certamente, invece, tra il giugno 1689 e il dicembre 1697, Morosini fu per otto volte savio di Terraferma; fu eletto il 29 settembre 1690 cassiere del collegio, nonché il 3 luglio 1692 e il 30 giugno 1694 savio alla Scrittura. Sua la proposta in quest’ultima veste, del 1695, di formare compagnie di 50, e non più 100, soldati così raddoppiando di proposito il numero degli ufficiali. E, intanto, ospitava nel suo palazzo a S. Canciano le riunioni dell’accademia, da lui promossa, degli Industriosi. Forse allusiva alla sua predilezione per la botanica era l’impresa – un innesto illustrato dal motto «fructifer ex sterili» – del sodalizio, attestato dalla miscellanea stampa dei Funerali accademici in morte dell’ill. … Lazaro Ferro (Venezia 1693) curata dal segretario Costantino Borghesaleo. E le due lettere indirizzate a Magliabechi da Morosini, l’11 e il 22 giugno 1698, lo confermano interessato a rapporti coi dotti, pur salda rimanendo la priorità dell’impegno pubblico.
Nominato, il 31 dicembre 1699, savio Grande o savio del Consiglio – sarà rieletto tale oltre una trentina di volte sino al 31 dicembre 1738 – iniziò la sua presenza costante nel ristretto spazio centrale nel funzionamento effettivo dello Stato marciano, di fatto occupato dal settore più abbiente e influente del patriziato. Donde la sua assidua frequentazione di palazzo ducale dal quale ovviamente si assentava quando era in missione diplomatica. Garantito finanziariamente dalla delibera senatoria del 3 marzo 1701, che assegnava al rappresentante veneto presso la Sede apostolica un fisso di 900 ducati al mese con quattro mensilità anticipate, 7.598 ducati da utilizzare per i donativi e 300 ducati per cavalcare, coperte e forzieri, Morosini accettò di buon grado l’elezione del 5 marzo ad ambasciatore a Roma, con la raccomandazione, precisata nella commissione del 12 novembre, d’usarvi «ogni diligenza per intendere con fondamento le cose che capiteranno».
A Roma dal 10 gennaio 1702 al 22 novembre 1706 fu compito di Morosini – una volta constatato e riconstatato che, nelle «universali combustioni d’Europa», Clemente XI era «tutto applicato alla quiete d’Italia» – assicurare alla «mediatione» papale la «sincera dispositione» della Repubblica ad assecondare ogni iniziativa mirata al conseguimento della pace. Motivo conduttore la speranza che la buona volontà di Clemente XI sommata al supporto consenziente della Serenissima valesse a smorzare le «dissentioni» tra i maggiori principi della cristianità, a far rientrare le gelosie fra le due corone, a schivare i frangenti, ad appianare le emergenze. Di fatto la mente del pontefice seguiva preoccupata l’incalzare incontrollato degli eventi, quali l’arrivo, ai primi d’ottobre 1703, d’una flotta anglo-olandese a Livorno, il passaggio, a inizio 1704, del Secchia da parte di truppe tedesche, l’entrata, nel giugno 1705, dell’occupante francese alla Mesola, dalla quale il presidio pontificio se ne andò spontaneamente.
Comunque – al contrario della situazione internazionale che era fuori del controllo di Roma e di Venezia – a offrire terreno di effettiva discussione era il contenzioso veneto-pontificio: la concessione del possesso temporale dell’abbazia di Gavello; il tentativo dell’inquisitore di Zara di designare propri vicari in ogni centro dalmata; il giuspatronato marciano in tutte le chiese nel regno di Morea; l’affare dell’arcivescovato di Corinto; le acque del basso Po; il rilascio d’imbarcazioni di sudditi pontifici arrestate dalle pubbliche galere veneziane nel Golfo; l’elezione dell’arciprete di Asola; la dispensa o meno dell’esame a Roma di nuovi vescovi in area veneta; il ricovero, con conseguenti vendite delle prede colà condotte, in porti pontifici, specie Ancona, a imbarcazioni corsare; le pretese ragioni del supposto iuspatronato cesareo sull’abbazia di Rosazzo; il ventilato invio – per Venezia superfluo – d’un visitatore apostolico; incidenti provocati dal personale dell’ambasciata di Venezia a Roma, di cui le autorità pontificie lamentavano la prepotenza.
Di nuovo a Venezia all’inizio del dicembre 1706, già il giorno 10 Morosini aveva ultimato la relazione sui 60 mesi di legazione, presentata il 17, nella quale fissava la ‘persona del papa regnante’ nella contraddizione d’impersonare un’autorevolezza prescrittiva di fatto ridimensionata e ripiegata nel ruolo di ‘severissimo custode’ dell’immunità ecclesiastica più autoreferenziale che latore d’un qualche messaggio condiviso.
Dei quattro senatori, tutti col titolo di cavalieri, incaricati d’assistere, tra il 20 dicembre 1708 e l’8 marzo 1709, il re di Danimarca Federico IV giunto in veste privata, Morosini ebbe modo di brillare con le feste in casa sua in onore del sovrano, il 31 gennaio e il 19 febbraio; fu quindi ambasciatore straordinario all’imperatore Giuseppe I nel luglio-settembre 1709; il 27 febbraio 1711 fu eletto riformatore allo Studio di Padova. Nel dicembre 1715-giugno 1716, a Roma, nella ‘figura privata’ di ‘esistente’, fu Morosini a far presente, in aggiunta al perorare la necessità del soccorso dell’ambasciatore Nicolò Duodo, gli estremi pericoli corsi dalla Repubblica in guerra col Turco.
Rientrato, fu investito di una fitta sequenza di cariche che non lo allontanò più da Venezia. Eletto ripetutamente riformatore allo Studio di Padova – il 7 dicembre 1719, il 27 gennaio 1723, il 14 febbraio 1727, il 15 marzo 1732, il 28 marzo 1737 – designato il 14 aprile 1724 a membro del Collegio delle acque come aggiunto sopra i fiumi, fu da lui mandato l’architetto romano Michele Magni che, con altri periti architetti, sottoscrisse, il 29 marzo 1718, la scrittura della ‘peritia’ eseguita per ‘riparare il male della cupola grande’ della chiesa di S. Giorgio maggiore.
Ma, al di là delle cariche, è avvertibile una certa influenza di Morosini nella vita intellettuale, nel riordino della normativa sulla stampa, nelle chiamate e negli insegnamenti dello Studio di Padova. E in questa, nel palazzo ereditato dallo zio paterno Giovanni, uno spazio circondato da alte mura e da balaustre lungo il corso d’acqua suddiviso in riquadri, splendido – come testimonia una dettagliata veduta, incisa nel 1714, di Johann Christoph Volkamer – per la pergola, la fontana centrale, l’arancera, l’uccelliera, l’orto ma soprattutto famosissimo, rinomatissimo in tutt’Europa, per l’ostensione d’oltre 3000 semplici; né, pur da lungi, l’ignora Linneo che a Morosini intitola la specie arborea, appunto, Maurocena: è un «vero vegetabile… tesoro» sempre «in fior», s’entusiasmò nel 1697 il conservatore della biblioteca universitaria Girolamo Frigimelica Roberti. E se ne occupava a tempo pieno Giovanni Antonio Tita, giardiniere aggiunto nel 1683-94 dell’orto botanico, che di quello di Morosini redasse il Catalogus plantarum… (Padova 1713). Il suo orto privato è citato negli studi botanici, sicché, anche se non era studioso in proprio, Morosini era in fama d’intendente presso i cultori della materia quali Gian Jacopo Zanichelli, Giulio Pontedera e Antonio Vallisnieri junior. E se il secondo, nel 1739, diventò titolare, nello Studio, della lettura dei semplici vegetabili e se, nel 1734, fu istituita, sempre nello Studio, la lettura dei semplici non vegetabili, affidata al terzo, lo si dovette anche all’influenza di Morosini, la quale, forse, s’era manifestata anche, nel 1738, quando il governo dell’Università passò dagli studenti ai docenti. Non è un caso se proprio a lui – uomo dai vasti rapporti, da Ludovico Antonio Muratori a Giovanni Poleni – Apostolo Zeno scrisse da Vienna il 5 aprile 1721 dicendosi, a proposito d’un’«istoria» dell’ateneo padovano proseguente o, meglio ancora, riprendente ex novo le antecedenti di Antonio Riccoboni e Giacomo Filippo Tomasini, disponibile a «contribuire in qualche cosa» al «buono incamminamento» dell’impresa, non senza, implicitamente autocandidarsi a realizzarla. Fu con gratitudine e stima che Vallisnieri – a Morosini legato anche in qualità di medico di fiducia: la «curatio» di Paolina, la moglie di Morosini, «totum me occupat», scrisse Vallisnieri il 9 luglio 1710 – dedicò a Morosini le proprie Esperienze ed osservazioni intorno… vari insetti… (Padova 1713). Da Morosini autorizzato, inoltre, Vallisnieri ventilò ad Alessandro Marchetti la possibilità della lettura di matematica a Padova.
Proclamato, il 15 aprile 1730, protettore dei Ricovrati patavini, Morosini – sottoscrivente coi due colleghi riformatori dello Studio, in data 4 marzo 1739, la licenza di stampa delle Antiquitatum… enarrationes atque emendationes (Padova 1740) di Giulio Pontedera; e antecedentemente sottoscritti anche da lui gli Ordini et regole per le stampe, stampatori et librari di terraferma del 25 gennaio 1725 – morì il 16 maggio 1739 a Venezia nel suo palazzo a S. Canciano, preceduto dal figlio Alvise, deceduto il 30 marzo.
Ragguardevole doveva essere la biblioteca a S. Canciano, se non altro perché, come si premura, il 4 agosto 1725, di segnalare Zeno a Muratori, Morosini aveva acquistato, dopo la morte di Jacopo Grandi (8 marzo 1691), «gran parte… e la migliore» dei suoi libri subito svenduti «a prezzi vilissimi» dai nipoti. E tra questi ci sarebbe stato «il commento del Castelvetro sopra Dante». Certo che Morosini – pur nel dolore per la morte del figlio, pur prossimo alla fine – non cessò di pensare allo Studio e a i suoi insegnamenti. Tant’è che nell’aprile 1739 si consultò con Poleni in merito a persona idonea da collocare nella «nova cattedra di filosofia sperimentale».
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