FIAMMERI (Fiamiero, Flamerius), Giovan Battista (Battista di Benedetto, Battista di Benedetto dell'Ammannato)
Nacque a Firenze all'inizio del quinto decennio del sec. XVI, data che si evince dai documenti - in verità non del tutto univoci - rintracciati dal Pirri (1943; 1970) nell'archivio dei gesuiti e che sembra confermata dalle prime notizie documentarie: a partire dal 26 giugno 1557 il suo nome compare infatti tra gli aiuti di Bartolomeo Ammannati nei lavori per la fontana di Giunone, in origine destinata al salone del Cinquecento di palazzo Vecchio; poi, nel 1559, fu tra gli artefici che realizzarono gli apparati effimeri per l'ingresso di Cosimo I a Siena.
Alla morte di Giulio III (1555), su consiglio, del Vasari l'Ammannati era rientrato a Firenze e al servizio, del duca Cosimo I si apprestava ad affrontare una stagione di intensa attività, contrassegnata, tra l'altro, da opere di particolare impegno quali la ricostruzione del ponte di S. Trinita e l'ampliamento di palazzo Pitti. In questo periodo il F. iniziò l'apprendistato che si trasformò poi in rapporto di collaborazione tra maestro e discepolo, legame più che ventennale che sembra aver interessato anche le scelte religiose dei due artisti.
Al febbraio, 1561 risalgono i pagamenti per scolpire - insieme con i due carraresi Andrea Calamech e Cesare di Nicodemo - la statua colossale del Nettuno per l'omonima fontana in piazza della Signoria; testimonianza del ruolo non secondario che ormai gli spettava nella bottega dell'Ammannati. Nelle quietanze relative ai lavori per la fontana del Nettuno il F. è ricordato sia come Battista di Benedetto da Firenze, sia come Battista di Benedetto Fiammeri (Utz, 1971), rendendo così inconfutabile l'identificazione tra il Battista di Benedetto allievo dell'Ammannati e il gesuita G. B. F., sovente ricordato come pittore nei documenti romani.
L'identità tra i due personaggi - riconosciuta a suo tempo da G. Milanesi nella sua edizione delle Vite - è sfuggita agli studiosi d'inizio secolo, nonostante le indicazioni del Baglione (1642) che ne ricorda l'origine fiorentina. Così nel Thieme-Becker esiste una voce dedicata a Battista di Benedetto (III, p. 45), dove si accenna esclusivamente all'attività fiorentina, e una seconda nella quale il F. è confuso con il pittore e architetto gesuita Giuseppe Valeriano (XI, pp. 526 s.). Confusione, quella tra il F. e Valeriano, forse involontariamente generata prima dal Baglione, che in modo improprio gli conferisce il titolo di padre - considerandolo quindi un sacerdote, quale fu solo il Valeriano -, e poi dal Titi (1674), che iniziò a sovrapporne il catalogo; confusione dovuta anche al ruolo di artista-coordinatore che la Compagnia di Gesù attribuì ad entrambi gli artefici. Anche in tempi più recenti, dopo le messe a punto del Frey (1930), del Pirri (1943) e della Barocchi (1962), gli studi che hanno riguardato l'artista lo hanno considerato separatamente o come epigono della scultura tardo-manierista fiorentina o come pittore della Controriforma romana.
Il prestigio assunto all'interno della bottega dell'Ammannati dove era secondo solo al più anziano Andrea Calamech, nonché l'attiva partecipazione alla vita della neonata Accademia del Disegno fecero sì che il F. fosse uno del ventinove giovani artefici che parteciparono alle esequie di Michelangelo promosse dall'Accademia in S. Lorenzo il 14 luglio 1564. In quella occasione l'allievo dell'Ammannati - in questi termini lo ricorda il Vasari - realizzò l'Allegoria dell'Arno sulla fronte principale del catafalco, statua in finto marmo pendant della figura del Tevere opera di Giovanni Bandini, allievo di Baccio Bandinelli. Come ricompensa per l'opera prestata gratuitamente il F., assieme ad altri quindici artisti, il 16 luglio fu nominato accademico del disegno (Cavallucci, 1873) e a tale titolo l'artista è enumerato dal Vasari tra "i creati accademici" di Bartolomeo Ammannati in termini davvero lusinghieri: "Batista di Benedetto, giovane che ha dato saggio di dovere, come farà, riuscire eccellente, avendo già mostro in molte opere che non è meno del detto Andrea [Calamech], né di qualsivoglia altro de' giovani scultori accademici..." (1568, p. 626).
L'inclusione nelle celebrazioni michelangiolesche non è generata solo da una politica di "equilibrio" tra gli allievi del Bandinelli e quelli dell'Animannatil ma anche dalla precedente partecipazione alla vita accademica: l'11 ott. 1563 fu estratto console, una settimana dopo lo troviamo tra i "festaioli" in occasione delle celebrazioni di s. Luca tenute nella michelangiolesca sagrestia nuova di S. Lorenzo. Proprio per avere rimosso anzitempo una sua scultura (in cartapesta o in altro materiale deperibile), sistemata su una porta della sagrestia, il successivo 4 dicembre fu rimosso dalla carica. In seguito, il 18 ott. 1567, diventò consigliere dell'Accademia.
Fu ancora il successo ottenuto durante le esequie michelangiolesche a fare sì che pochi mesi dopo, nel novembre 1564, Vincenzo Borghini facesse il suo nome e quello di altri due giovani scultori - Battista di Lorenzo e Giovanni Bandini - per realizzare le tre figure del monumento funebre al Buonarroti in S. Croce. Tuttavia, l'opposizione dell'Ammanati, che - scrive V. Borghini - "malvolontieri può impiegare il detto giovane in altri lavori, che quelli ha fra mano che son pure assai et dimportanza" (Der literarische Nachlass ..., 1930, p. 119), vanificò il progetto: la scultura destinata al F. fu poi realizzata da Valerio Cioli. In effetti fino al 1566 il nome del F. compare in pagamenti per lavori destinati alla corte ducale, giustificando il mancato assenso del maestro. All'inizio degli anni '70, quando ormai Andrea Calamech si era da tempo trasferito a Messina, il F. sembrò assumere un ruolo di maggiore rilievo nella bottega dell'Ammannati, tanto che Davis (1976) gli ha attribuito il monumento a Bindino Altoviti (Firenze, Ss. Apostoli), commissionato dall'arcivescovo Antonio Altoviti al suo rientro a Firenze (1570). L'identità artistica del F. - al di là degli stretti rapporti con l'Ammannati - non è facilmente decifrabile, ancorata come è ad opere effimere, o nelle quali - il Nettuno ad esempio - domina la personalità del capobottega. Tuttavia qualche indicazione è fornita dai disegni degli Uffizi attribuiti dal Baldinucci (1681-1721) e riproposti come opera del F. da L. Collobi Ragghianti (1974).
Una sanguigna ispirata all'Assunta affrescata dal Rosso alla Ss. Annunziata sottolinea la radice manierista - comune a quella generazione - prova quasi scolastica, forse da annoverarsi tra le primissime opere dell'artista, accompagnata da una premonitrice iscrizione devota. Di livello più alto un disegno ornamentale che ben si inserisce in quel repertorio decorativo di sofisticato manierismo che caratterizza gli opifici granducali, foglio che meglio di ogni altro può restituirci un'idea di quanto realizzato dal F. durante le celebrazioni michelangiolesche. Lo studio per una testa, una sanguigna con lumeggiature a biacca, evidenzia marcati accenti naturalistici che si inquadrano nel "nuovo" corso della pittura fiorentina della fine del Cinquecento; del resto le intonazioni devote sono sottolineate dalla Collobi Ragghianti (1974) in un foglio del Louvre, una Pietà sicuramente databile prima del 1574: proviene infatti dal Libro dei Disegni di Giorgio Vasari.
La cooperazione con l'Ammannati e le commissioni medicee sono di nuovo all'origine dei primi viaggi a Roma e poi del definitivo trasferimento in quella città.
Così recita un pagamento rinvenuto dal Biagi (1923) e purtroppo non datato: "... da mesere Bartolomeo Amanati ischudi sei ... per dare a Batista Fiamerj iscultore perche egli aiutò in Roma a ridisegnare certi disegni per il palazo dello illustrissimo reverendissimo cardinale de Medici in Roma". Si parla di palazzo Firenze a Roma, dove l'Ammannati aveva già lavorato al tempo di Giulio III. Dopo un complicato iter giudiziario, nel 1561 l'edificio diventò di proprietà medicea e a partire dal 1572 fu Utilizzato come residenza dal card. Ferdinando. La prima metà degli anni '70, quando il fiorentino Iacopo Zucchi vi decorava la sala delle Stagioni e quella degli Elementi, sembra la data più probabile per il pagamento. Per motivi anagrafici è infatti da escludere la presenza di F. nel cantiere di palazzo Firenze nella prima metà degli anni '50, né l'edificio citato nel mandato può essere confuso con la villa sul Pincio.
Il 3 marzo 1576 fu ammesso al noviziato gesuita di S. Andrea al Quirinale a Roma come coadiutore temporale (cfr. Pirri, 1943, p. 25 n. 60), fratello laico di norma destinato agli uffici domestici, all'assistenza dei professi o, ed è il caso del F., ad attività artistiche; né in seguito diventerà sacerdote, rimanendo sempre nello stato laicale.
La modesta estrazione sociale del F. emerge dallo stesso verbale d'ingresso nella Compagnia: i suoi beni consistono in pochi capi di abbigliamento. Non è ricordato né un libro né uno strumento di lavoro. A partire da questa data i registri gesuitici consentono di seguirne le vicende biografiche in modo piuttosto dettagliato: ci informano che l'artista non aveva ricevuto neppure una elementare educazione letteraria e che un fratello più giovane di nome Lorenzo ne seguì la vocazione religiosa e, nel 1577, entrò nella Compagnia.
Sembra probabile che nel prescritto biennio di noviziato il F. si sia dovuto dedicare in modo esclusivo alla formazione religiosa. Scrive il Baglione (1642): "da poi che entrò nella Compagnia di Gesù, diedesi a dipingere". Affermazione non del tutto esatta visto che i cataloghi gesuitici lo ricordano come "pictor, statuarius, incisor". Nel settembre del 1579 è ricordato tra i residenti del Collegio Romano come "coadiutor formatus temporalis" (Roma, Arch. Rom. Soc. Iesu, Rom. 531, f. 380) - aveva quindi completato il tirocinio del noviziato - e come "pictor". Nel 1584 risiedette al Collegio Romano, dove, stando al Baglione (1642), avrebbe dipinto dei chiaroscuri e, in effetti, pagamenti per i colori sono registrati a suo nome nell'agosto di quell'anno. Tra il 1586 e il 1590 fu impegnato nella decorazione della chiesa dei gesuiti di S. Giovannino a Firenze, la cui struttura era stata portata a compimento nel 1584. L'impresa lo riportò nella città natale e, di nuovo, a stretto contatto con l'Ammannati, che di quell'opera fu progettista e finanziatore.
Il carteggio pubblicato dal Pirri (1943) sottolinea l'importanza del F. in quel cantiere: le insistenti richieste dell'Ammannati e, al tempo stesso, la riluttanza con la quale i padri del Collegio Romano acconsentivano al suo allontanamento testimoniano il momento di intensa attività dell'artista che si divideva tra Roma e Firenze. Le successive trasformazioni operate nella chiesa fiorentina rendono difficile identificarne gli interventi. Il Pirri (1943) sarebbe propenso ad attribuirgli le statue in stucco degli Apostoli, nonostante la diversa e autorevole opinione del Richa (1757), che le ricorda come opere di B. Carducci, altro allievo dell'Ammannati.
Tra l'estate del 1587 e il gennaio 1589 il suo nome compare ripetutamente nei pagamenti per la cappella della Trinità al Gesù di Roma.
Si tratta sempre di importi piuttosto modesti per i colori o per altri materiali. È evidente che il F. in quanto gesuita non ricevesse compensi per l'opera prestata, ma solo un rimborso per ciò che acquistava; da questo punto di vista la documentazione d'archivio non consente di circostanziare eventuali attribuzioni, ma ne evidenzia piuttosto il ruolo di coordinatore. Se appare accettabile l'attribuzione dell'ovato nella volta, dove Il Creatore mostra affinità con la maniera di J. Zucchi, la possibilità che il resto della decorazione sia basata su veri e propri cartoni forniti dal F. sembra essere più labile sia dal punto di vista documentario che stilistico.
Allo scorcio del secolo risale l'opera forse più impegnativa e meglio documentata, grazie, anche, alla descrizione del Richeôme (1611): si tratta di S. Vitale, la chiesa paleocristiana attigua al noviziato di S. Andrea, affidata nel 1598 da Clemente VIII alla Compagnia di Gesù. G. De Rosis sovraintese ai lavori architettonici, il F. alla decorazione. Gli appunti che il preposito generale dell'Ordine Claudio Acquaviva, gli invia da Frascati nell'agosto 1589 possono, forse, chiarire il suo ruolo: "... quanto prima mi mandi il fratello Gio. Battista Fiamieri per dirli a bocca qual'altro ch'io desideri da lui insieme alle pitt. di S. Vitale"; o, ancora: "In quanto al disegno Gio Battista carissimo vi dico che mi piace assai, solamente vi significherò un mio concetto" (Roma, Arch. Rom. Soc. Iesu, Rom. 14 II, ff. 474r, 478r; cfr. anche Pirri, 1952). Strettissimo quindi il controllo su immagini e decorazione per la quale il testo del Richeôme fornisce la fondamentale chiave di lettura.
L'artista fungeva da cerniera, sovraintendendo e coordinando la decorazione della chiesa eseguita da artefici anche affermati (A. Commodi, A. Ciampelli, T. Ligustri) che godevano di un diverso grado di autonornia nell'ambito di un programma iconografico unitario incentrato sul martirio e che aveva per destinatari i novizi della Compagnia. Parte della facciata di S. Vitale (che Baglione [1642] attribuisce al F.) fu dipinta dal perugino Rutilio Clementi, pittore e stuccatore gesuita che, più giovane del F., risulta più volte coinvolto nelle medesime imprese decorative. A S. Vitale si trova inoltre un gruppo di opere che costituisce il nucleo più consistente del catalogo romano del F.: le quattro sculture in stucco ai lati dell'altare maggiore (S. Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio Magno, S. Girolamo) - se l'attribuzione della Barroero (1984) potrà essere confermata - costituiscono un supporto importante per ricostruire l'attività del F. scultore a Roma. Per quanto riguarda le tre pale d'altare nella navata (la quarta è perduta) ritenute in passato opera del F., solo nelle Ss. Vergini - sostiene la Barroero (1984) - se ne può individuare la mano; nelle due rimanenti (Immacolata e Ss. Confessori) l'intonazione è simile ma risultano evidenti uno scarto qualitativo e una declinazione stilistica leggermente diversa, colorata da lievi accenti naturalistici; forse non è un azzardo riconoscere in una di queste tele la mano di R. Clementi, che a lungo collaborò con il Fiammeri.
L'intensa attività legata all'anno santo traspare anche da quanto registrato negli elenchi del Collegio Romano dell'anno 1600: "pictoris officio fungitur; praeterea nihil" (Roma, Arch. Rom. Soc. Iesu, Rom. 54, p. 129). Ma già nel 1603 al F. erano affidate mansioni diverse, tra cui l'assistenza al padre Villapando.
La notizia della morte all'inizio del pontificato di Paolo V - riportata dal Baglione (1642) - non è fondata. È certo che nella Roma d'inizio Seicento la stagione devota e controriformata volgeva ormai al termine, soprattutto per un personaggio che nel profondo rimane ancorato a una cultura manierista e solo in superficie appare coinvolto dalle esperienze "riformatrici" fiorentine e romane a cavallo tra Cinque e Seicento. La "pittura spirituale" del Richeôme (1611), con la sua ricerca di "senso" cui Deve essere sottoposto ogni particolare dell'opera, è la versione religiosa del concettismo manierista, un elemento di continuità tra l'artista-cortigiano di Firenze e l'artista-devoto di Roma e una possibile chiave di lettura per l'opera del Fiammeri.
Nel 1616, vecchio e inattivo, è enumerato tra i valetudinari e il giudizio riportato nei registri gesuitici ne è impietoso epitaffio: "Mediocris iudicii et prudentiae. Habet aliquam experientiam. Cholericae complexionis. Aptus ad pingendas et imprimendas imagines et sculpendas in aere" (Pirri, 1943).
Il F. morì a Roma, al Collegio Romano, il 23 ag. 1617 (Fejér, 1982).
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