Gioacchino Volpe
Con una formula sintetica si può attribuire a Gioacchino Volpe il titolo di ‘storico della nazione’. Occorre però aggiungere che per Volpe la nazione non si risolse mai nello Stato. La storiografia di Volpe è saldamente radicata, invece, sul primato della sfera sociale su quella politica. Dopo essere stata a lungo ritenuta, con Croce, una tipica espressione della ‘scuola economico-giuridica’, è stata poi considerata come «storia-battaglia», «storia-diplomazia», «storia-Stato», in cui era dominante, se non addirittura esclusivo, il ruolo dell’organizzazione politica e la sua aggressiva proiezione sul piano internazionale. Questa interpretazione non è certo infondata. Ma, isolata da un più ampio contesto, non esaurisce il senso più profondo del lavoro di Volpe, anzi lo depotenzia e lo limita profondamente. Per Volpe, infatti, la storia nazionale è in primo luogo «storia interna» di un popolo, che ha la sua genesi nella sua istintiva organizzazione sociale, poi economica, in seguito giuridica e infine politica. In questa tesi è certo presente la lezione di Otto von Gierke e di Pasquale Villari, secondo i quali la polarità tra Stato e società andava tutta risolta a favore della società, risiedendo la dimensione giuridica pubblica assai più nel corpo sociale che nell’architettura istituzionale ed essendo la costituzione politica, piuttosto, una semplice conseguenza della dinamica associativa dei gruppi privati.
Nato a Paganica (L’Aquila) il 16 febbraio 1876, da una famiglia di tradizioni risorgimentali, Gioacchino Volpe si trasferì con la famiglia a Santarcangelo di Romagna nel 1890 e frequentò il liceo Terenzio Mamiani di Pesaro.
Guadagnato, il 3 novembre 1895, l’ingresso alla Scuola Normale e contestualmente ottenuta l’iscrizione nella facoltà di Lettere di Pisa, Volpe trovava nella città toscana un ambiente intellettualmente vivace, alimentato dagli stessi compagni di studio (Giovanni Gentile, Fortunato Pintor, Giuseppe Lombardo Radice, Giuseppe Manacorda) e dalla lezione dei suoi primi maestri: Alessandro D’Ancona e Amedeo Crivellucci.
Nell’ottobre del 1899, otteneva un posto di perfezionamento dell’Istituto di studi superiori di Firenze riorganizzatosi e potenziatosi sotto il patronato di Villari. Nell’Istituto, che lo avrebbe ospitato fino al 1901, ebbe la possibilità di instaurare un rapporto privilegiato con la grande storiografia germanica di Gierke, Otto Hintze, Karl Lamprecth poi rinsaldatosi durante i due semestri di studio trascorsi a Berlino, dalla fine dell’ottobre 1902 all’agosto 1903. Fallito il tentativo di ottenere l’abilitazione universitaria, Volpe si dedicò all’insegnamento secondario tra il 1900 e il 1903. Ottenuta la libera docenza, tenne un corso universitario a Pisa, nel 1904, e poi presso l’Istituto di studi superiori, nell’anno accademico 1905-1906. In questo stesso periodo si consolidava il rapporto con Benedetto Croce (conosciuto nel 1900 grazie a Giustino Fortunato), che si sarebbe incrinato nel 1924, in coincidenza della crisi politica determinata dal delitto Matteotti, per poi interrompersi definitivamente tra il 1927 e il 1928.
Nominato nel 1906 professore di storia moderna presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove intrattenne una proficua frequentazione con il circolo modernista che faceva capo ad Alessandro Casati e a Giovanni Boine, ottenne l’ordinariato nel 1913. Nazionalista dissidente, rispetto all’ortodossia di Enrico Corradini, aderì ai Gruppi nazionali liberali nell’ottobre 1914, schierandosi a favore dell’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo. Richiamato alle armi nel maggio 1917, venne assegnato all’Ufficio storiografico della mobilitazione che si proponeva di redigere la «storia documentaria dell’Italia in guerra». All’indomani di Caporetto fu aggregato al Servizio propaganda organizzato da Lombardo Radice. Deluso, come molti altri intellettuali, dall’esito diplomatico della guerra, vinta sui campi di battaglia e ‘tradita’ al tavolo delle trattative di Versailles, si avvicinò al movimento fascista con la lettera aperta inviata al direttore del «Popolo d’Italia» nel novembre del 1920, ratificando la sua adesione al PNF (Partito Nazionale Fascista), sia pure nelle vesti di semplice fiancheggiatore, nel giugno 1921. Chiamato all’insegnamento presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma nel 1924, fu deputato al Parlamento per la XXVII legislatura e membro della Commissione dei Quindici e poi dei Diciotto per lo studio delle riforme costituzionali. Nel marzo 1929 entrò a far parte dell’Accademia d’Italia, della quale fu segretario generale fino al 1934. Negli stessi anni assunse la direzione della «Rivista storica italiana», dell’«Archivio storico di Corsica», della Scuola di Storia moderna e contemporanea, della sezione di Storia medievale e moderna dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti.
Il suo consenso al fascismo, pur contraddistinto da acuti momenti di tensione e di scontento per la politica culturale, religiosa e razziale del regime, si mantenne inalterato fino all’entrata in guerra dell’Italia del giugno 1940. Dopo la disastrosa campagna di Grecia, si allontanò progressivamente dalla dittatura e il 25 luglio salutò con sollievo la caduta di Benito Mussolini rifiutandosi, poi, di aderire alla Repubblica sociale italiana. Epurato dall’insegnamento universitario, il 31 luglio 1944, e accantonato dalla vita culturale del Paese, grazie a una ben orchestrata campagna di persecuzione, lo storico, pur non rinunciando al suo lealismo monarchico, si accostò al Movimento sociale italiano auspicandone un’evoluzione moderata in grado di evitare ogni deriva nostalgica e revanscista e di congiungerlo alla vasta area di opinione, nazional-liberale, conservatrice, laica, liberista e antimarxista. Trascorsi gli ultimi decenni della sua vita in un’operosa vecchiaia di studio, si spense a Santarcangelo di Romagna, il 1° ottobre 1971.
Possiamo far risalire il primo apprendistato storiografico di Volpe agli anni trascorsi nel liceo Mamiani di Pesaro e all’incontro con l’insegnante d’italiano Giuseppe Picciòla, legato da una lunga e mai interrotta frequentazione con Giosue Carducci. Dall’eredità carducciana, mutuata da Picciòla, Volpe traeva un diretto stimolo all’analisi del passato. Nelle «ricostruzioni storiche» di Carducci si trovavano contenuti in nuce alcuni temi fondamentali del Volpe storico dell’età comunale e già precocemente storico della nazione italiana. Così nel poema Sui campi di Marengo, dove l’alleanza delle città lombarde avverse alla calata del Barbarossa è avvertita come prima manifestazione della reazione italiana contro il «dominio di estranee genti». Così nel Comune rustico, celebrazione dello spontaneo formarsi, in area rurale, dei nuclei civili di libertà, d’indipendenza e di resistenza alla barbarie, tanto più intensi spiritualmente quanto più piccolo materialmente è il campo in cui essi sorgono e si affermano. Così, ancora, nella Faida di Comune, dove persino l’esuberanza incomposta delle forze che si urtano tra loro nella perenne guerra intestina dell’età di mezzo, è vista come testimonianza ideale di un governo libero, ma al tempo stesso forte sul piano esterno, che si sviluppa nella comunità, di tipo paleocomunale e contadino, all’interno della quale il rapporto fra l’autorità e i cittadini è diretto, perché tra lo Stato, ridotto alle sue strutture elementari, e il popolo esiste un rapporto di naturale intesa più che d’interazione istituzionale.
Più ancora che per questi temi particolari, che troveremo tutti puntualmente sviluppati nel lavoro Studi sulle istituzioni comunali a Pisa del 1902, il legato del Carducci storico si trasmetteva a Volpe con la proposta del mito fondatore dell’età comunale nella quale aveva avuto luogo la formazione del «moderno popolo italiano». Per Volpe l’espansione italiana, sviluppatasi tra 11° e 13° sec., era dovuta alla presenza di un «principio popolare nazionale», che si presentava come un’energia generatrice di carattere materiale e naturale, costituendo proprio per questo, un fattore remoto, sotterraneo, ma sempre operante in tutta la sua potenza, nella dinamica storica. Il «popolo» dunque si acquartierava sovrano, unico e indiscusso, nella ricostruzione storica di Volpe.
Egli avrebbe esplicitamente ricordato, infatti, come l’analisi del passato avrebbe sempre dovuto concentrarsi sull’elemento collettivo. Era, infatti, necessario cogliere in profondità
i prodotti inconsapevoli della storia, in cui più che l’impronta netta dell’uomo di genio si ritrova il lavorio lento, secolare, incerto della turba anonima e incolore, la goccia che scava il macigno; le istituzioni economiche e giuridiche tutte, in cui si fissano e si tramandano i bisogni e le consuetudini della gran massa degli uomini (Rassegna di studi storici, «Rivista d’Italia», aprile 1907, p. 678).
Né si trattava però di una nozione di «popolo» interpretato alla luce del principio democratico, come in Jules Michelet, ma di «una vita anonima da osservare non per individui o per fatti ben chiari e fermi e circoscritti nel tempo e nello spazio, ma per masse» (Medio Evo italiano, 1923, p. VIII), tanto più apparentemente indecifrabile tanto più vitale, mai esattamente definibile sulla base di categorie di classe o di stirpe, e bisognosa, per potere mettere in azione tutte le potenzialità in esso riposte, di essere fecondata dall’azione dei «migliori», nei quali soltanto risiedeva l’effettiva «cittadinanza».
Questo principio popolare e nazionale avrebbe finito per sottrarsi a una determinazione rigidamente etnica. L’energia vitale del Comune fu tale, infatti, e tanto potente perché «cresciuta dal consorzio del popolo romano con i conquistatori germanici». Indicazione generale, questa, che Volpe avrebbe ripreso e articolato nei saggi pubblicati tra il 1901 e il 1904 (Pisa e i Longobardi, «Studi storici», X, 1901; Lombardi e Romani nelle campagne e nelle città. Per la storia delle classi sociali, della nazione e del Rinascimento italiano, XI-XV, «Studi storici», XIII, 1904). In quei lavori egli interpretava le élites toscane dei secc. 11°-13°, al di là di ogni connotazione etnica, unicamente come una classe sociale, inserita nel contesto completamente nuovo di una nazione nascente, né latina ormai né germanica ma semplicemente «italiana», che si manifestava come tale, tagliando il cordone ombelicale che, troppo strettamente annodandola al ricordo della civiltà romana e a quello più recente della conquista straniera, rischiava di soffocarne lo slancio. In questo modo, la storia dell’età medioevale appariva non solo preludio, ma già parte integrante di una «storia italiana» come dimostrava plasticamente la chiusa del volume del 1902, dove persino il tema del conflitto civile, rinnovatosi e ampliatosi nel confronto tra guelfi e ghibellini, era visto come elemento di un faticoso processo verso una maggiore e più estesa unità politica, capace di oltrepassare i ristretti confini di città e regioni, per interessare l’intera penisola.
Al peso robusto, ma non ingombrante, di questa Bildung carducciana si sarebbe aggiunto l’insegnamento di D’Ancona e di Crivellucci. Dal primo Volpe avrebbe mutuato la tematica degli «Italiani fuori d’Italia» (dal viaggio di apprendimento all’emigrazione intellettuale) come testimonianza dell’egemonia europea della cultura italiana, ma anche come occasione di svecchiamento e progresso del nostro Paese. Da Crivellucci, invece, Volpe riceveva un’introduzione compiuta al lavoro storiografico, per quanto riguardava acribia e scrupolo filologico, capacità di analisi archivistica, che però non corrispondeva alla pienezza di una lezione magistrale. Spiaceva a Volpe di Crivellucci certo scolasticismo filologico-erudito che gli impediva di cogliere l’effetto dirompente della storia politica di Alfredo Oriani, ma soprattutto la sua pregiudiziale «illuministica», laicista, anticlericale che contrastava con il progetto di una storia autenticamente nazionale.
Più incisivo fu l’influsso di Villari che permise a Volpe di porre in stretto contatto la ricostruzione del passato con l’analisi, la denuncia, il tentativo di soluzione delle grandi questioni irrisolte che agitavano l’Italia contemporanea: il riscatto del Mezzogiorno, la necessità di riforme sociali, la critica dell’idea liberale, che troppo spesso rischiava di snaturarsi e di confondersi con quella democratica, la serrata denuncia dei mali del parlamentarismo, l’antigiolittismo militante, il rafforzamento di un orgoglioso patriottismo, da tenere vivo anche oltre il momento eroico del Risorgimento.
L’originalità della storiografia di Volpe si manifestava compiutamente nel volume sul Comune pisano del 1902. Grande libro di storia medioevale, ma in realtà grande libro di «storia generale», dove l’analisi del microcosmo toscano offriva la possibilità di isolare non leggi generali ma processi esemplari, il cui carattere analogico permetteva di comprendere anche le fasi di sviluppo e di regresso di differenti comunità politiche e sociali collocate in tempi diversi. Opera, soprattutto, nella quale ogni interpretazione o meglio ogni semplificazione di carattere giuridico, economico, sociale si elideva reciprocamente e si risolveva in narrazione, non esistendo per Volpe fattori di sviluppo, sovraordinati o subordinati, secondo una precisa gerarchia di cause, ma soltanto un fluire di eventi che testimoniavano l’impossibilità di una riduzione concettuale del corso della storia. Boine, allievo di Volpe negli anni milanesi, avrebbe colto, per primo, l’essenza di questo «metodo» d’indagine, parlando di
storia complessa di molti fattori e di molte correnti intrecciate, in cui il fatto (gli uomini, l’avvenimento) scompare in una marea piena di vita (economica, religiosa, civile), che sale, converge, cresce in un pullulare vasto di cose dove niente soverchia e niente è soverchiato (Di Rienzo 2008, p. 60).
Volpe non concepì mai il lavoro dello storico come un’attività solitaria ma sempre, invece, come uno sforzo collettivo. Questo orientamento si riscontrava nel progetto della collana, Nozioni di storia, di chiaro intento divulgativo, ma di impianto innovativo, per tematiche e scelta degli autori, nel cui catalogo redatto da Volpe insieme a Ugo Guido Mondolfo nel 1913, compariva anche il titolo di Gaetano Salvemini, La questione del Mezzogiorno. A questa iniziativa avrebbe fatto seguito quella della Storia d’Italia in collaborazione, da pubblicare presso Zanichelli, che Volpe, nel corso del 1921, annunciava in un fitto carteggio, del quale uno dei primi destinatari era Guido De Ruggiero a cui veniva commissionato il volume: Il movimento liberale in Europa nel secolo XIX.
Il disegno della collana si sarebbe precisato con la stesura dell’opuscolo, pubblicato nel marzo del 1922, che avrebbe dovuto servire come base di discussione tra i partecipanti al piano editoriale. Nel Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione si manifestava un disegno di storia nazionale che doveva dare il senso del nuovo clima politico, che si era affermato al termine della guerra, «pur senza supervalutazione, cioè deformazione del nostro passato, a scopo di effimera propaganda». Di qui la struttura a piramide rovesciata dell’opera, che tendeva ad allargarsi con lo scorrere dei secoli, quando la storia della nazione italiana aveva dovuto confrontarsi, tra luci e più spesso tra ombre, ma sempre con formidabili ricadute sullo scenario interno, con quelle delle altre formazioni politiche mediterranee e continentali.
Questa internazionalizzazione della storia patria era soprattutto evidente nel progetto di affiancare, ai volumi dedicati alla storia d’Italia, propriamente detta, altri contributi che, dal Medio Evo in poi, investigassero le «vicende dell’Italia fuori d’Italia», i «problemi di rapporti fra noi e gli altri, problemi di interesse vivo ancor oggi e che stanno fra la politica e la storia, con visibili riferimenti pratici». Rapporti di cultura e di religione. L’influsso dell’islam attraverso la Spagna e la Sicilia. L’irradiazione sovranazionale del Rinascimento (Gentile). La Controriforma (Adolfo Omodeo) vista come fenomeno compiutamente europeo ma individuata anche «come movimento della cattolicità che nel XVI secolo ha così visibili segni, direi, nazionali, che pur mentre opera nel mondo, si nutre di succhi italiani». E ancora, la matrice europea del «Settecento riformatore» italiano, le relazioni di reciproco scambio ma anche di lotta e di contrasto per l’egemonia intellettuale con Spagna, Francia, Inghilterra, Germania (Anzilotti, Nino Cortese, Roberto Cantalupo, Leonardo Vitetti), di cui un capitolo fondamentale doveva essere costituito dalla storia del fuoriuscitismo politico italiano dopo il 1815. Infine «i rapporti di economia non disgiunti dalla politica di potenza», la cui trattazione era affidata a Monneret de Villard, Gino Luzzatto, Giuseppe Prato. Dall’espansione commerciale italiana verso il Levante nell’11° sec., al predominio del «commercio e banca italiana nell’Europa centrale e occidentale», alla «trasformazione e crisi dell’economia italiana nel ’400 e ’500, per circostanze interne ed esterne», fino al vasto moto dell’emigrazione prima artistica e intellettuale poi, a partire dal 19° sec., prevalentemente di risorse imprenditoriali, artigianali, di mano d’opera verso l’Africa e le Americhe.
Questa materia era abbozzata nella lettera del 24 maggio 1921, indirizzata a Pintor. Nella corrispondenza emergeva con energia la necessità di distaccarsi dalla tradizionale trattazione sull’argomento. L’emigrazione italiana non doveva essere studiata dal «punto di partenza, cioè delle condizioni italiane che han provocato l’esodo», e di conseguenza esclusivamente come depotenziamento demografico e culturale della comunità nazionale ma «nel suo punto d’arrivo» come analisi «della formazione, dello sviluppo, della vita e stato presente delle colonie italiane in America dalla metà del XIX secolo in poi». Il flusso migratorio andava considerato, dunque, non soltanto come penosa «diaspora» e cartina di tornasole del sottosviluppo delle zone più arretrate della penisola, ma come fenomeno di espansione dell’Italia nel mondo, in qualche misura paragonabile alla dinamica dell’incremento nazionale assicurato dalla conquista coloniale. E non casualmente al volume sull’emigrazione doveva affiancarsene un altro, sulla «recente politica africana del nostro paese». Uno studio, che doveva incentrarsi sulle «vicende dell’azione e politica italiana in Africa dai viaggiatori del secolo scorso in poi», e soprattutto «sull’azione nostra allo studio del continente, su gruppi di immigrazione (in Egitto, a Tunisi ecc.), politica coloniale, problemi relativi, rapporti con Inghilterra, Francia, Turchia, mondo arabo».
La storia del nostro Paese doveva essere, quindi, anche la storia della sua spinta propulsiva nello scenario internazionale: antica e nuova. Anzi quella storia doveva rafforzare l’impeto di quell’impulso, come Volpe, a più riprese, negli anni a venire, avrebbe sostenuto con insistenza. Ma già con i due saggi progettati nel 1921 – poi precisati nel titolo come Gli Italiani d’America e L’Italia nel continente africano – il disegno della «Storia d’Italia», conosceva una sua decisa flessione in senso nazionalista. Nel rispondere alla più che scontata domanda su quando si dovesse datare il momento storico costitutivo dell’unità italiana, il primo impiantarsi del nostro Paese come «nazione», Volpe rispondeva, senza esitazioni, indicando quell’epoca nel Medioevo. Così si sosteneva nel Programma e così si ribadiva nel saggio del gennaio 1922, apparso su «Politica», con il titolo emblematico di Albori della Nazione italiana, dove Volpe operava la scelta dei secc. 11° e 13° come culla della storia italiana in quanto processo di de-bizantinizzazione e de-arabizzazione della penisola, di contenimento della pressione slava sul confine orientale, di opposizione alla struttura sovrastatale dell’Impero, di affacciarsi di alcune dinastie provviste di un pur del tutto embrionale progetto di dominio nazionale, di diffuso senso dell’unità di uno «spazio politico», se non altro, come «avversione al dominio di genti estranee».
Ma non era tutto. In questo contributo, Volpe vedeva l’Italia farsi nazione soprattutto nella sua dinamica verso l’esterno, già nell’età medievale. Non solo grazie all’attività degli «Italiani fuori di Italia» e come semplice egemonia commerciale sul Mediterraneo, ma anche come vera e propria conquista territoriale volta verso l’Istria, la Dalmazia, la Tripolitania, la Corsica, il Levante, le Baleari, che suggellava quella che sarà poi definita l’«età dell’espansione» dell’economia italiana tra 12° e 13° secolo. Un’espansione tanto impetuosa da ribaltare completamente il tradizionale equilibrio di potere tra mondo cattolico-latino e mondo greco-mussulmano e da assicurare al contempo una vasta e profonda penetrazione nei mercati dell’Europa centrale e settentrionale.
Il programma editoriale di Zanichelli veniva meno per la defezione della maggioranza dei collaboratori (De Ruggiero, Omodeo, Ettore Rota, Raffaele Ciasca, Gino Luzzatto) motivata dagli aspri contrasti politici con il direttore della collana insorti dopo il delitto Matteotti. Nel 1927 Volpe pubblicava, però, una sintesi di quel progetto, significativamente intitolata L’Italia in cammino dedicata all’ultimo cinquantennio della nostra vicenda storica, con un largo excursus sul Risorgimento e un radicale taglio cronologico del piano di lavoro originale che avrebbe invece dovuto estendersi dal Medioevo alla Grande guerra. Quell’opera avrebbe ricevuto una freddissima accoglienza da parte di Mussolini, e suscitato, al contrario, l’entusiastico giudizio di Gentile, che si rallegrava del fatto
che la nostra letteratura possegga ora un volume come questo, di storia nazionale, viva, moderna, commossa, nuova, che si fa leggere come un romanzo pur essendo ricchissimo di conoscenze storiche solide e organiche (Di Rienzo 2008, p. 454).
Anche gli ambienti più attenti e meno infeudati della cultura fascista (i collaboratori della rivista «Vita nova» fondata dal ras del fascismo emiliano Leandro Arpinati e diretta dal filosofo attualista Giuseppe Saitta) lodavano quel lavoro ma preferivano leggerlo solo in termini di denuncia delle insufficienze della vecchia classe politica liberale, che aveva prodotto una nazione unicamente «fatta come edificio esteriore», nella quale rapidamente «era svanita quella saldezza di fede che nel Risorgimento aveva generato miracoli di realizzazioni politiche» (Di Rienzo 2008, p. 455).
Volpe, invece, presentava la sua opera, nella corrispondenza con Widar Cesarini Sforza, non come impietosa critica delle piaghe della «Seconda Roma», che soltanto il fascismo sarebbe riuscito a cauterizzare con i carboni ardenti della ‘rivoluzione’ del 1922. Nella lettera, si sosteneva, infatti, di aver soprattutto cercato di tracciare «qualche linea guida dell’Italia di anteguerra e di aver lumeggiato a sufficienza i movimenti ideali attraverso i quali si mostrò allora il volto di un’Italia in via di rinnovamento e del vario rimescolarsi dai quali è nato l’ordine presente», aggiungendo di aver mirato, sopra ogni cosa, a dimostrare la «continuità» tra l’Italia di oggi e quel «che si fece e si pensò nell’Italia prima del 1915». Nessuna, o forse soltanto qualche scarsissima concessione a una precisa tendenza politica era contenuta nel saggio di storia italiana dall’unificazione al 1914, che, in quello stesso carteggio, Volpe paragonava, senza esitazioni, a Il Medio Evo, comparso in quello stesso anno, sottolineando l’affinità tra le due opere e la presenza in esse di «una certa linea unitaria, un certo superamento dei quadri e ripartizioni tradizionali; una discreta elaborazione della materia storica (storia politica, nel senso integrale, pregnante della parola)» (Di Rienzo 2008, pp. 455-56).
In Italia in cammino, la grande attenzione ai problemi del mondo del lavoro e dell’emigrazione, alla nascita del movimento socialista e cattolico, alla questione meridionale, alla nazionalizzazione delle masse, ai processi di modernizzazione economica e culturale rappresentò, anche agli occhi di oppositori del fascismo, come Antonio Gramsci, Giorgio Amendola, Nello Rosselli, Luigi Salvatorelli, una possibile alternativa alle stanchezze della storiografia crociana. Un giudizio, questo, ripreso da Luigi Dal Pane, il quale ricordava:
quando uscì L’Italia in cammino che sembrava fortemente contrastare con la Storia d’Italia di Croce, la mia simpatia di antifascista fu tutta per Volpe, perché aveva fatto lo sforzo di interpretare la storia d’Italia, tenendo in considerazione non fumosi rapporti ideologici ma le forze storiche reali (Di Rienzo 2004b, p. 134).
Sulla scia del volume del 1927 si collocava anche la trilogia dedicata da Volpe al primo conflitto mondiale (Ottobre 1917, dall’Isonzo al Piave, 1930; Il popolo italiano tra la pace e la guerra, 1914-1915, 1940; Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1916, edito postumo nel 1998) e nel 1932 la voce Fascismo (Storia) dell’Enciclopedia Italiana delle scienze, lettere ed arti, poi rifusa e ampliata nel volume Storia del movimento fascista del 1939. Volume che costò all’autore, per i suoi contenuti eterodossi, una violenta polemica da parte della stampa di regime. Si trattava di lavori ‘preparatori’ del grande massiccio storiografico di Italia moderna, 1815-1914 (il cui primo volume apparve nel 1943 e che fu poi edito integralmente tra 1949 e 1952). Qui l’analisi non si concentrava soltanto sul tema della «lotta politica», derivato da Oriani, ma si estendeva ancora una volta e con maggior larghezza alla vita economica, al progresso sociale e a quello culturale per raffigurare un quadro complessivo della vita italiana dove erano evidenziati i nessi tra lo sviluppo della struttura economica, il formarsi delle ideologie novecentesche, la dinamica dei movimenti politici nella società civile, l’attività di governo dei ceti dirigenti. In quel lavoro Volpe non rinunciava alla difesa dell’«Italietta» postrisorgimentale così spesso satireggiata dalla propaganda fascista e metteva in risalto la continuità della storia nazionale affermando:
Sì, certo, quegli anni dal ’61 o dal ’70 in poi, sono, spesso, una malinconica storia. […] Eppure quell’Italia, l’Italia di quegli istituti, di quei partiti, di quegli uomini modesti e così spesso mediocri, di quel costume politico, vive, lavora, lotta, cammina, Italietta sì, ma non ignara, non inconsapevole di problemi, che poi si è messa con più alacre energia a risolvere, non tanto avvocatesca e parlamentare da non offrirci esempio di alti dibattiti e contrasti di idee. Essa creò, né solo al comodo riparo delle barriere doganali e dello Stato cliente, il suo apparecchio industriale. Essa ridiede moto alla sua stanca agricoltura. Essa avviò l’opera di elevazione del popolo, che era quasi plebe, alla nazione. Essa diede vita a nuovi movimenti ideali e partiti politici e rinvigorì, ammodernò la cultura. Fece una politica estera cauta, guardinga, ma non inerte (Italia moderna, 1815-1914, 1° vol., 1949, p. X).
Per Volpe, dunque, nello sviluppo storico operano forze apparentemente contrastanti, ma in realtà sempre complementari (le strutture istituzionali, l’attività delle classi dirigenti, le grandi visioni ideologiche, gli spiriti vitali spontanei e inconsapevoli delle moltitudini) che si articolano nel momento della divisione e in quello dell’unione in un’unica dinamica, da cui prende origine la nazione e nella quale s’iscrive la sua durata. Così accadeva per la presenza delle eresie dell’Età medievale (analizzate nel volume Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (secoli XI-XIV) del 1922) e per quelle dell’Italia contemporanea: il movimento modernista, quello socialista, che da un lato metteva in discussione gli istituti dello Stato liberale e dall’altro assicurava la partecipazione a essi delle masse, quello fascista, da Volpe definito come l’«eresia» del liberalismo, del nazionalismo e del socialismo, e che rifiutò sempre di considerare nella sua forma di partito gerarchizzato, ma che reputò piuttosto espressione di una volontà di «antipolitica» intesa come reazione alle pratiche più deteriori del giolittismo.
Persino l’antifascismo svolse questo ruolo per Volpe: fascista-nazionale, monarchico, non dimentico, come altri intellettuali del Ventennio delle sue matrici liberali, ma sempre fedele al regime anche se mai perfettamente allineato con le direttive di Palazzo Venezia. E, a questo proposito, è molto indicativo rileggere il Programma per un volume di “Studi bibliografici” del 1932, concepito da Volpe, sotto gli auspici della Reale Accademia d’Italia e del PNF, per celebrare il decennale della marcia su Roma, che doveva «rendere conto del lavoro compiuto in Italia, nel campo delle discipline storiche, giuridiche, economiche, filosofiche, politiche negli ultimi 15-20 anni, dalla guerra in poi». In quel programma, Volpe raccomandava ai collaboratori dell’opera di tenere conto anche di quei prodotti intellettuali che
si siano risentiti negativamente oltre che positivamente del mutato clima politico e morale del nostro paese; che cioè abbiano, per opera dell’uno o dell’altro studioso, aderito con più intimo calore e pensieri e dottrine diversi e magari opposti a quelli del fascismo (Di Rienzo 2006, p. 226).
Anche in questo caso emergeva, per Volpe, la necessità di tenere nella giusta considerazione il «momento ereticale» e cioè:
questo fatto apparentemente negativo ma che rientra egualmente nel quadro della vita intellettuale italiana, che egualmente trova in quegli eventi qualche suo impulso, e qualche volta ha reagito da parte sua sopra i nuovi pensieri e dottrine costringendoli ad approfondirsi e affinarsi (p. 226).
L’eredità di Volpe si è disposta trasversalmente, nei più vari schieramenti storiografici del secondo dopoguerra, non escluso quello battezzato, con azzeccata definizione terminologica, come «sinistra storiografica». Un’eredità che non ha contribuito soltanto al mantenimento in vita e, come accadrà con Rosario Romeo, alla modernizzazione del modello di una «storia generale», sviluppatasi nell’intervallo tra le due guerre (fondamentalmente politica ma attenta alle vicende dell’economia e della società come a quelle della cultura, delle strutture istituzionali, delle relazioni internazionali), ma che ha interessato anche temi più particolari come la storia del movimento operaio e socialista dell’Italia contemporanea. Anche dopo il 1945, nonostante l’ostracismo decretato contro Volpe, un largo settore della ricerca storica restò sostanzialmente costituito dai suoi allievi. Questi studiosi si sarebbero disposti in una variegatissima galassia politica: da Federico Chabod a Walter Maturi, ed Ernesto Sestan, ovviamente, da Aldo Romano a Luigi Dal Pane, da Ruggero Moscati a Luigi Volpicelli, a Franco Valsecchi e, per l’area medievistica, sicuramente, da Cinzio Violante a Marco Tangheroni, senza escludere un indiretto ma non trascurabile influsso presso molti altri studiosi di questo settore. Riguardo al quale, Franco Cardini ha invitato recentemente a non dimenticare il suo stesso nome e quelli di Elio Conti, Giovanni Cherubini, Giuliano Pinto nei quali spesso la legacy di Volpe si apparenta virtuosamente e spesso sovrasta quella di Salvemini.
Questa continuità andava oltre i vincoli di una stretta discendenza accademica o di un’irresistibile affinità culturale e travalicava ampiamente le barriere degli schieramenti ideologici. Pensiamo al caso di Giorgio Candeloro, autore di una Storia dell’Italia moderna d’impianto dichiaratamente gramsciano, nel quale tuttavia l’autore pagava generosamente il suo debito nei confronti di Volpe, ancorandosi a un approdo che consentiva di non smarrire una rappresentazione unitaria della storia della penisola, concepita in una chiave di lettura «nazional-popolare», se più non davvero esclusivamente «nazionale». Di un’occulta setta di seguaci di Volpe, che avrebbe fatto sentire il suo influsso nella redazione di «Studi storici» (la rivista dell’Istituto Gramsci), ha infine parlato Rosario Villari. Con buona ragione, direi, se pensiamo agli apporti, ben testimoniati, che studiosi organici alla politica culturale del PCI (Partito Comunista Italiano), come Gastone Manacorda e Renato Zangheri, ricavarono dalle pagine di Italia Moderna (cfr. Di Rienzo 2008, pp. 725-33).
Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, Consoli e Podestà nei secoli XII-XIII, Pisa 1902, Firenze 1970.
Il Medio Evo nel primo millennio d.C., Milano 1918.
Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (secoli XI-XIV), Firenze 1922, 1961, 1977, Roma 1997.
Lunigiana medievale: storia di Vescovi signori, di Istituti comunali, di rapporti tra Stato e Chiesa nelle città italiane nei secoli XI-XV, Firenze 1923.
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