FREGOSO, Giano (Giovanni)
Nacque attorno al 1455, probabilmente a Genova, primogenito di Tommasino di Giano, signore di Sarzana, e di Caterina di Antonio Malaspina di Mulazzo.
Tra i molti fratelli del F. (Giannantonio conestabile dei Veneziani nel 1519; Guido capitano della Lega lombarda; Giangiacomo, laureato in legge e trasferito in Francia), tre gli resteranno sempre accanto nella sua movimentata carriera militare e politica, come pretoriani fedeli, anche se non sempre opportuni: Zaccaria, Ludovico, Fregosino.
Tutti i fratelli Fregoso ricevettero un'ottima educazione culturale (disponevano di pedagoghi umanisti e di biblioteche fornite di testi latini e greci) e una eccellente formazione militare, al seguito del padre e dei suoi celebri maestri d'arme: sopra tutti il corso Carlo Della Rocca.
In Corsica il F. andò una prima volta, ancora bambino, nel 1460-64, mentre il padre, cercando di sfruttare le rivalità tra i "caporali", i signori feudali corsi, e la loro comune ostilità al Banco di S. Giorgio, rivendicava dal Banco stesso diritti sull'isola, concessi alla famiglia da papa Niccolò V. Cacciato dagli Sforza, Tommasino tornò nell'isola nel luglio 1477, con tutta la famiglia e un forte esercito personale, nel quale militava ormai anche il F., trovando ampio consenso locale, ma più vigorosa opposizione da parte delle truppe sforzesche del capitano Ambrogio da Lunghignano.
Il F. fu catturato col padre e portato prigioniero a Milano ma, grazie a nuovi accordi intercorsi tra il doge di Genova, il cugino Battista Fregoso, e la duchessa di Milano, Bona di Savoia, essi furono restituiti con tutta la famiglia alla Corsica, dove Tommasino fu nominato governatore sforzesco (1478). Qui, nel 1482, il F. sposò Ardabella, figlia del nobile corso Giampaolo da Leca. Nello stesso anno il padre lo nominava conte di Corsica e, rientrando a Genova, lo lasciava al governo dell'isola.
Dopo qualche mese di "buon governo", guidato dall'illuminato consigliere A. Montaldo, il F. dovette affrontare però l'ostilità dei caporali per l'intransigenza con cui aveva soffocato alcuni episodi di insubordinazione: probabilmente informato dalla moglie dei preparativi di rivolta, alla fine dell'anno abbandonò definitivamente l'isola, che i caporali si affrettarono a offrire al signore di Piombino, Jacopo Appiani (ma che i Fregoso, anche grazie all'appoggio dell'allora doge Paolo, riuscirono nel 1483 a cedere al Banco di S. Giorgio per 2.000 ducati d'oro).
Rientrato a Genova, il F. vi restò ininterrottamente fino alla caduta di Paolo Fregoso, nell'agosto 1488, per opera degli Sforza e degli Adorno. Costretti a lasciare Genova, i Fregoso trovarono dorato esilio a Roma, dove attorno al ligure cardinal Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio II, gravitava la "corte dei Genovesi" guidata da Ottaviano Fregoso, mediatore cosmopolita di cultura e relazioni politiche. Benché al servizio del papa il F. detenesse il comando di alcune compagnie di cavalleggeri, condivideva con Ottaviano ben altre ambizioni: e Roma offriva l'opportunità di stringere le giuste alleanze per riprendere il potere a Genova.
L'occasione sembrò offrirsi alla notizia della protesta popolare dell'estate del 1506. Il papa non era favorevole a un intervento dei fuorusciti: ciononostante il F., con Ottaviano e Alessandro Fregoso, ai primi di settembre salpò dal Tevere su un brigantino: ma le triremi pontificie li raggiunsero e li costrinsero ad abbandonare l'impresa, già concertata con il suocero del F., Giampaolo da Leca, che li attendeva al largo della Corsica.
L'aggravarsi della situazione genovese, con l'attacco a Monaco da parte del governo popolare e l'intervento di Luigi XII invocato dalle famiglie nobili, nonché l'ambiguo consiglio di Andrea Doria, a sua volta pronto a giovarsi della conflittualità che il ritorno dei Fregoso avrebbe comunque accentuato in Genova, spinsero il F. e Ottaviano Fregoso a un nuovo tentativo.
Partiti da Bologna, dove si erano trasferiti per sottrarsi al diretto controllo del papa, giunsero l'8 genn. 1507 a Borghetto Vara, dove si unirono a Giovanni di Biassa, marchese di Goano e ottimo condottiero, alla testa di 400 uomini; salpati tutti da Sestri Levante, il 10 il solo Ottaviano sbarcò a Sampierdarena per concertare l'operazione con i suoi partigiani genovesi. Ma le contromisure che il governo popolare, prevenuto dagli informatori pontifici, seppe mettere in atto (taglie di 500 ducati sul F. e su Ottaviano e di 200 sul Biassa; controlli severi sui loro simpatizzanti in città e nelle Riviere) costrinsero una seconda volta il F. e Ottaviano all'abbandono del progetto e a una precipitosa ritirata. Essi tornarono a Bologna, e di lì a Roma nel maggio 1507, dopo cioè che il fallimento del dogato popolare di Paolo da Novi e l'ingresso di Luigi XII a Genova li assolveva agli occhi di Giulio II dal loro arbitrario tentativo.
Le notizie sul F. per gli anni immediatamente successivi sono divergenti: secondo il Litta sarebbe subito passato al soldo della Repubblica di Venezia, per la quale avrebbe militato infaustamente contro la Lega di Cambrai; per il Levati, che sembra meglio documentato, egli rimase a Roma, alle dipendenze pontificie, almeno fino al 1509 e passò col consenso di Giulio II al soldo di Venezia dopo la riconciliazione tra il papa e la Repubblica. Di certo, nominato nel 1510 governatore generale dell'esercito veneziano, sotto il comando supremo di Scipione Malvezzi, il F. dimostrò sul campo grandi capacità strategiche. Così, quando qualche mese dopo Giulio II decise a sua volta di togliere Genova alla Francia, il F. su richiesta del papa partecipò tra il luglio e l'ottobre ai reiterati, vani tentativi dei veneto-pontifici di Marcantonio Colonna e Girolamo Contarini di conquistare la città, attaccandola per mare e per terra. In particolare, la notte del 24 ottobre il F. si rese protagonista di un memorabile atto di audacia, riuscendo a penetrare con un brigantino fino al molo, tentativo peraltro non adeguatamente sostenuto dal resto della flotta. Tornato a Venezia dopo il fallimento dell'impresa, un anno dopo, con la sottoscrizione della Lega santa, il F. fu richiesto ancora dal papa per un nuovo tentativo contro Genova e ai primi di novembre del 1511 era a Roma. Tuttavia le difficoltà della Lega convinsero Giulio II a rimandare il progetto e il F., il 13 febbr. 1512, ebbe licenza di tornare al campo di Brescia per riprendere il comando della sua compagnia, che era stata nel frattempo decimata da Gaston de Foix. Nel quadro della riscossa della Lega dopo la morte del Foix alla battaglia di Ravenna, il F. insieme con Lorenzo de' Medici all'inizio di giugno riconquistò Bologna; poi, ritenendo opportuno il momento di fronte alle difficoltà francesi, si diresse verso Genova con i fratelli e una compagnia di 450 fanti e 50 cavalieri. Arrivato a Chiavari il 17 giugno dalla valle dell'Aveto e avuta qui notizia che i Francesi avevano evacuato anche Pavia, inviò a Genova un messaggero recante lettere patenti del legato pontificio cardinale M. Schinner con l'ordine della consegna della città allo stesso F., in qualità di capitano della Lega.
Mentre la guarnigione francese si chiudeva nella fortezza della Lanterna, il Senato genovese elesse prontamente una commissione di otto pacificatori per trattare la resa e i suoi aspetti economico-finanziari. L'accordo fu rapidamente raggiunto: la città ottenne dal F. la conferma dei privilegi già concessi a suo tempo da Ludovico il Moro e il F. poté entrare in Genova senza colpo ferire. Le favorevoli clausole economiche facevano rientrare il dissenso del partito filofrancese, rimanendo contrario il solo Girolamo Fieschi, che così apriva col F. quelle ostilità personali e politiche che avrebbero causato poi la sua morte per mano dei fratelli del Fregoso.
Mentre Giulio II, subito informato del successo dell'impresa, si dava a manifestazioni di giubilo pubbliche e private, il F. si impegnava a normalizzare il passaggio di potere: emanate nuove norme di polizia in città, nelle podesterie e nelle Riviere, il 27 convocò un gran Consiglio che, alla presenza sua e del Senato, elesse il nuovo ufficio di Balia e ratificò il passaggio dal dominio francese alla Lega. E la formula del F., benessere nella pace, dovette risultare davvero persuasiva, se Pietro di Battista Fregoso (che rivendicava a sua volta il diritto al governo della città sulla base di lettere credenziali identiche a quelle fornite al F. dall'avido e ambiguo Schinner) venne convinto a rinunciare da varie componenti cittadine, oltre che dalla mediazione familiare e da quella vaticana. La composizione della nuova Balia mostrava un equilibrato dosaggio, attento alla stratificazione sociopolitica della Repubblica e anche alle recenti rivendicazioni degli "artifices". Anche l'amnistia voluta dal F., subito dopo la sua elezione a doge il 30 giugno 1512, per i carcerati e i carcerandi della Malapaga, pur nell'evidente demagogia, costituì un segnale politico rivolto ai ceti più modesti, che più pesantemente avevano risentito della stretta antipopolare succeduta alla repressione dell'esperienza di Paolo da Novi. Tale segnale fu confermato dal piano di riarmo marittimo attuato dal F. nei mesi successivi, non solo imposto dalla critica situazione internazionale, ma anche ispirato dalla ricerca di stabilità e di consenso.
I primi mesi del dogato del F. furono difficili, condizionati dalla permanenza francese nelle due fortezze del Castelletto e della Lanterna, bombardanti sulla città e sul porto, e dal saldo dei debiti di guerra accumulati dai precedenti governi e dallo stesso Fregoso. Questi infatti non riuscì a ottenere dallo Schinner alcuna riduzione sulle 12.000 lire d'oro del contratto che prevedeva l'impiego, poi non avvenuto, di milizie svizzere per la conquista di Genova. Anzi l'esoso cardinale giunse a minacciare i due ambasciatori inviati il 5 luglio a Pavia dal F., Andrea Doria e Giovanni da Lerici, di consegnare Genova a uno dei tanti Adorno o Fregoso pronti a versargli la somma come tangente personale. Anche il comandante francese asserragliato nel Castelletto volle essere pagato (13.000 ducati) per consegnare il 9 agosto la fortezza, ormai quasi distrutta dai bombardamenti; né risultavano sufficienti a garantire il porto dal prevedibile contrattacco francese i rinforzi prontamente inviati da Giulio II (due galee e un galeone carico di artiglieria) e quelli da lui sollecitati ai tiepidi alleati. Le navi venete e spagnole (rispettivamente tre e sette) arrivarono solo a metà agosto, dopo lo smacco del rifornimento della fortezza della Lanterna da parte della squadra francese dell'audace Bernardin de Baux, ben noto alla gente di mare genovese per la velocità delle sue galee. La flotta veneto-pontificia (i cui comandanti il F. ricevette solennemente, con accorta regia, in palazzo ducale), dopo essersi congiunta a Noli con quella genovese, poté solo procedere verso Ventimiglia, ancora in mano francese; ma la resa spontanea della città fece sì che la spedizione divenisse superflua. In montagna tuttavia la resistenza proseguì, alimentata dal signore della zona, Luca Spinola, e sarebbe stata definitivamente domata solo l'anno successivo dal nuovo doge, Ottaviano Fregoso.
Fu indubbio merito del F. e del suo governo aver impegnato i cantieri genovesi nella fornitura di sei galeoni, due navi e due barche in pochi mesi, con importanti effetti positivi su tutti i settori del lavoro portuale. I cronisti e gli storici genovesi, dal Senarega al Pandiani, ripetono volentieri contro il F. il sospetto di doppio gioco che accompagnò il suo dogato fin dai primi mesi e che si ha ragione di credere insinuato dai suoi rivali. Ma gli episodi addotti contro il F. - un secondo audace rifornimento alla fortezza della Lanterna a opera della nave ausiliaria francese di Janot il Marsigliese, in assenza della flotta alleata; le voci di generose promesse di Luigi XII al F., riportate dal Sanuto; lo stesso collassante interdetto francese alle sole merci genovesi, emanato da Luigi XII alle fine del 1512 - possono offrire tutti una seconda lettura, non necessariamente sfavorevole al Fregoso. Questi in effetti doveva comunque attenuare la tensione con Luigi XII, considerati gli enormi interessi commerciali e finanziari di Genova sui mercati di Francia. E l'interdetto del 1512, che l'interpretazione tradizionale vuole concertato col F. per rendere plausibile una sua proposta di ritorno sotto il dominio francese, sembra piuttosto il tentativo di Luigi XII e dei suoi simpatizzanti per isolare il doge dal ceto imprenditoriale.
In realtà il F. rispose con più incalzanti richieste d'aiuto al papa e con l'accelerazione del programma di riarmamento navale: promulgata il 22 genn. 1513 la tassa per il finanziamento, il 9 febbraio Nicolò Doria fu eletto capitano dell'armata di otto navi e ne assunse il comando in una splendida cerimonia pubblica il 12 marzo; negli stessi giorni Andrea Doria firmava il contratto con cui metteva al servizio della Repubblica le sue due nuove galee, anche queste costruite a tempo di record dai cantieri navali genovesi. Il 17 marzo il terzo tentativo francese di forzare il blocco per rifornire la fortezza della Lanterna non riuscì: e se è vero che il merito fu di un semplice nocchiero, E. Cavallo, che seppe contrastare con straordinaria abilità l'astuta manovra del comandante francese C. Esclavon e catturarlo con nave ed equipaggio, a sua volta il F. celebrò con enfasi politica (e concretezza: 200 scudi d'oro ed esenzione fiscale per Cavallo e discendenti) quell'esempio di coraggio e perizia nautica. Ma la congiuntura internazionale - prima la morte in febbraio di Giulio II; poi la tregua, nel marzo, tra Spagna e Francia - era sfavorevole al F.: egli tuttavia il 20 aprile ottenne dall'ufficio del Mare il bando di arruolamento immediato per ben 45 navi che, agli ordini di Nicolò Doria, si era riusciti a radunare davanti al porto.
Le voci di accordi segreti del F. con i comandanti veneto e francese, B. d'Alviano e G.G. Trivulzio, per garantirsi di restare al potere come governatore di Luigi XII, voci riferite dal Sanuto ma non dal Senarega, pur poco solidale con il F., appaiono di assai dubbia interpretazione. È possibile che, indotti da antichi legami di collaborazione e stima, l'Alviano e il Trivulzio segnalassero al F. l'aggravarsi per lui della situazione esterna e interna, perché provvedesse tempestivamente alla sua salvezza personale.
Dopo l'occupazione di Alessandria da parte del Trivulzio, con i Francesi alle porte, la tensione salita in città e negli ambienti di governo esplose il 23 maggio, dopo un alterco in palazzo ducale, con l'uccisione di Girolamo Fieschi, all'uscita dal palazzo, a opera di Fregosino, Ludovico e Zaccaria, fratelli del doge: assassinio clamoroso e quanto mai inopportuno, specie se davvero il F. fosse stato in procinto di aprire le porte di Genova alla Francia, poiché con la morte di Girolamo non si indeboliva certo il partito dei Fieschi, cui si offriva anzi motivo alla rivolta. Infatti il giorno dopo gli Adorno e i Fieschi entravano in Genova alla testa di 3.000 uomini e, per prima cosa, liberarono il presidio francese della Lanterna; il 26 Adorno presentava le credenziali regie e assumeva il titolo di governatore per Luigi XII. Mentre il fratello Zaccaria veniva catturato e giustiziato, il F. riuscì a mettersi in salvo con Fregosino e altri partigiani, salpando per Spezia sul lembo (piccola nave veloce) che teneva attraccato a ponte Calvi per questa eventualità; il fratello Ludovico si chiudeva e resisteva nella fortezza del Castelletto.
Del resto tutta la Genova marittima e militare restava con i Fregoso. L'Adorno era costretto a emanare editti sempre più minacciosi contro le milizie messe a stipendio dal F. che non consegnavano le armi e contro le ciurme che si rifiutavano di sbarcare. L'armata genovese, attraccata a Spezia, sulla quale il F. era stato calorosamente accolto, umiliava gli ambasciatori dell'Adorno, ne sdegnava le promesse di impunità e, il 3 giugno, respingeva vittoriosamente il successivo attacco della flotta francese, affondandone due navi.
Il F. non partecipò a quest'ultimo episodio: era già partito con Fregosino per Bologna e Rovigo, dove arrivò l'8 giugno per mettersi al servizio delle forze collegate ispano-venete. Evidentemente il F. era allora già d'accordo con Ottaviano: tanto è vero che, quattro giorni dopo, riattraversata tutta la Valle padana, al campo della Trebbia sottoscriveva con lui e con il viceré di Napoli il patto per la riconquista di Genova: il F. e Ottaviano si impegnavano a versare alla Spagna 80.000 ducati (61.000 dei quali Ottaviano farà poi sborsare al governo genovese) in cambio di 3.000 fanti e 400 cavalieri.
È difficile dire che cosa in seguito abbia determinato la rottura dell'accordo tra i due. Il F. non partecipò il 17 giugno all'ingresso di Ottaviano in Genova (tra l'altro, facilitato dal fratello Ludovico, che deteneva ancora la fortezza del Castelletto) né alla sua proclamazione dogale. E considerando il patto della Trebbia, quelle che il Pandiani e altri cronisti definiscono pretese del F. (il governo di Savona e il compenso in denaro perché Ludovico consegnasse il Castelletto) saranno piuttosto da intendere come un dovuto risarcimento di quanto, anche in solido, anticipato dal F. per l'impresa sottoscritta in comune. Certo i consensi, esterni e interni, di cui Ottaviano disponeva dovevano essere ben noti al F. e forse persino condivisi; ma a Savona doveva sentirsi isolato e come messo in quarantena da Ottaviano. Tuttavia lo stesso Senarega dubita delle voci che accusano il F. di accordi segreti coi Fieschi per scalzare Ottaviano. L'improvvisa fuga del F. alla notizia dell'invio a Savona di 300 fanti da parte di Ottaviano - fuga avvenuta di notte, su un brigantino, col mare in tempesta; proseguita da Arenzano verso i monti, fuori dei confini - fu interpretata dai cronisti successivi come prova del tradimento del F., senza sospettare che potesse essere proprio il F. a sentirsi tradito.
Sta di fatto che da allora il F. tagliò definitivamente i legami con Genova, anche dopo la caduta di Ottaviano. Il 9 nov. 1513 la Serenissima riceveva sue lettere da Ravenna, con cui comunicava l'intenzione di stabilirsi a Garda nel Veronese (vi si era stabilito il padre alla fine del secolo) dove arrivò l'8 dicembre, e che lasciò all'inizio del 1514 per assumere l'incarico di generale delle milizie di S. Marco. Negli anni successivi il F. prese parte alle continue campagne militari veneziane: tra i suoi successi, la vittoria di Rocca d'Anfo, nel Bresciano, contro l'esercito imperiale di Massimiliano; la nomina a governatore dell'esercito veneto nel 1527 nella lega contro Carlo V (e, nonostante la sconfitta della lega, la vittoria da lui riportata sul conte Guido Rangoni, capitano imperiale) e infine, morto il duca d'Urbino Francesco Maria Della Rovere, l'elezione a generalissimo in sua vece. Della più alta carica godette però per breve tempo: colpito da malore nella cittadella di Brescia durante alcune operazioni militari, fece testamento il 10 ag. 1529 e subito dopo morì.
Venne sepolto a Verona nella chiesa di S. Anastasia, dove il figlio Ercole, canonico nella stessa, gli fece erigere nel 1565 un grandioso mausoleo dallo scultore D. Cattaneo. In Veneto si trapiantarono anche altri dei nove figli: il primogenito Cesare fu il capostipite del ramo di Padova, estinto nel 1664; Alessandro, col F. alla conquista di Genova nel 1512 e poi apprezzato condottiero della Repubblica di Venezia, ma destituito nel 1542 perché compromesso nelle trame filofrancesi del fratello Cesare e morto a Padova nel 1565, fu il capostipite del ramo di Verona. Anche Annibale, sposato come Alessandro a una Strozzi di Ferrara, militò nell'esercito veneto; morì appena trentenne a Padova nel 1532: dal figlio Galeazzo, attraverso il ramo di Verona, la discendenza giunge fino all'Ottocento. Anche le figlie, tranne Leonarda e Francesca, si trapiantarono in territorio veneto o lombardo: Fregosina e Caterina sposarono due nobili bresciani, rispettivamente Gerolamo Maggi e Antonio Avogadro, e Susanna il conte milanese Alberto Landriano.
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