GIAMBERTI, Giuliano, detto Giuliano da Sangallo
Figlio di Francesco di Bartolo di Stefano di Giamberto, nacque a Firenze nel 1445 oppure nel 1452.
Per la data di nascita le indicazioni fornite dalle portate al Catasto sono contrastanti. Nel 1487 il G. dichiarò di avere 42 anni; la nascita al 1445 può essere inoltre confermata da un pagamento fatto al padre dai frati dell'Annunziata il 2 sett. 1454 (Fabriczy), in cui si specifica che egli "portò Giuliano suo figliolo", evidentemente in età da lavoro. Il padre Francesco, invece, nel 1451 non dichiarò alcun figlio maschio, mentre nel 1460 attribuì al G. l'età di 8 anni. Infine, Vasari afferma che il G. aveva 74 anni quando morì nel 1517 (in realtà nel 1516).
Il G., come il fratello minore Antonio, è tradizionalmente indicato con il nome "da Sangallo", per la località di provenienza; i due fratelli abitarono infatti per molti anni fuori porta S. Gallo a Firenze.
Secondo Vasari (p. 268), il padre Francesco avviò il G. e suo fratello Antonio "all'arte dell'intagliare di legno", facendoli lavorare nella bottega di Francesco di Giovanni, detto il Francione, con il quale collaborarono i maggiori architetti di quella generazione. Il carattere artigianale della formazione del G. e del fratello si mantenne nel corso della carriera di entrambi e si tramandò anche a figli e nipoti, facendo ipotizzare la presenza di una bottega che, sebbene non ancora indagata, dovette fare riferimento inizialmente al G. e proseguire, con alcuni cambiamenti, dopo la morte di lui (per un elenco completo delle opere del G. si fa riferimento alla monografia di Marchini).
Sempre secondo Vasari, intorno al 1465 il G. collaborò con il Francione agli stalli del coro del duomo di Pisa, mentre Milanesi ritiene l'opera totalmente di mano del maestro.
La sua prima opera potrebbe essere uno stallo per il coro della cappella di palazzo Medici a Firenze, databile non oltre il 1460 (Hülsen, II, p. 3; Tönnesmann, p. 90), documentato da un disegno abraso nel Codice Barberiniano del G. (Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat. 4424, c. 1), in cui sono raccolti numerosi studi.
A partire dal 1465, secondo la data riportata nel frontespizio del Barberiniano, il G. dovette essere a Roma dove cominciò a studiare l'architettura antica che riportò poi nel codice. Nulla traspare invece dai documenti romani: si è cercato inutilmente di identificarlo con un maestro Giuliano di Francesco da Firenze attivo a Roma in quegli anni; tuttavia, l'attività di capomastro muratore non sembra compatibile con l'età che il G. aveva negli anni in cui questi è documentato. A Roma il G., oltre a studiare i monumenti antichi, ebbe modo di vedere in costruzione le principali opere realizzate sotto Paolo II, alcune delle quali, come il vestibolo di palazzo Venezia, furono determinanti per le soluzioni che adottò nelle sue architetture. Non si conoscono architetture realizzate dal G. durante il soggiorno romano.
La prima opera di architettura che gli è stata attribuita con certezza è il palazzo suburbano di Bartolomeo Scala a Firenze, che già al tempo della costruzione, iniziata nel 1473, veniva chiamato "villa urbana" (Tönnesmann, p. 94).
La posizione suburbana lo discosta dai palazzi fiorentini che si sviluppano verticalmente. Nel cortile quadrato con tre arcate per ogni lato compare la soluzione, innovativa per Firenze, di paraste addossate a pilastri che sostengono arcate. Si tratta di un motivo all'antica ispirato dal Colosseo, motivo reimpiegato in forme più plastiche nella loggia delle benedizioni di S. Marco e nel cortile di palazzo Venezia. Egli l'adattò alla maniera fiorentina di usare rilievi più contenuti, come quelli del palazzo Rucellai. L'uso di un ordine toscano o dorico semplificato è altrettanto innovativo e ritorna poi nel basamento della villa di Poggio a Caiano; il G. ricavò il dettaglio della base con un doppio toro dal mausoleo di Adriano, che egli aveva disegnato nel CodiceBarberiniano (c. 37v; Hülsen, II, p. 54). Si mostra, così, attento a definire i particolari dell'ordine in modo tale che abbiano un carattere omogeneo. Nella zona dei piedistalli dell'ordine superiore il G. diede grande spazio ai rilievi figurati, che furono realizzati in una fase successiva, durante gli ultimi anni di Lorenzo il Magnifico, anticipando anche in questo un carattere che fu ricorrente nelle sue architetture e che ritornò nei progetti tardi per la facciata di S. Lorenzo. Si tratta di un motivo desunto dall'antico e in particolare dagli archi trionfali studiati durante il soggiorno romano, in linea anche con le direttive culturali e di gusto di Lorenzo il Magnifico. Secondo Vasari, il G. avrebbe esportato a Firenze il sistema di costruzione delle volte di conglomerato all'antica che aveva potuto vedere nelle rovine, ancora in uso nella Roma del XV secolo, per esempio nel vestibolo di palazzo Venezia, dove ne era stata realizzata una versione volutamente anticheggiante, sempre durante gli anni del suo primo soggiorno. In realtà, si tratta di una ripresa soltanto parziale perché - sia nella descrizione vasariana, sia per il poco che si conosce nella costruzione del palazzo Scala (Sanpaolesi) -, l'opera di getto serve solo per modellare l'intradosso, mentre la struttura portante della volta continua a essere costruita con mattoni.
A questi stessi anni risale la costruzione, a Firenze, di palazzo Cocchi, che gli è ragionevolmente attribuito, in cui il G. ripropone l'uso dell'ordine dorico e delle paraste addossate alle pareti.
Nel 1479 lavorò ancora con il Francione e con Francesco d'Angelo della Cecca, questa volta a un'opera di architettura militare, le fortificazioni di Colle Val d'Elsa.
Anche la prima opera documentata del G., il progetto (1480-83) per la giunzione tra la rotonda e la navata della chiesa dell'Annunziata a Firenze, si deve alla sua collaborazione con il Francione. Per la stessa chiesa nel 1481 il G. realizzò con il fratello Antonio un crocifisso ligneo.
È ascrivibile alla metà del nono decennio un gruppo di opere realizzate dal G. su commissione diretta o su indicazione di Lorenzo il Magnifico che, appassionato intendente di architettura, fu abile nell'influire sull'aspetto complessivo della città, orientando anche le scelte relative ad architetture di cui non era committente diretto, come la chiesa di S. Maria delle Carceri a Prato, in cui i lavori, iniziati nel 1485, furono interrotti nel 1506.
Qui la pianta a croce greca, che presenta un rapporto di uno a due tra la profondità dei bracci e il lato del quadrato centrale, richiama le composizioni di F. Brunelleschi al pari delle paraste che segnano tutti gli spigoli del volume e formano un'intelaiatura che incornicia le pareti. Un altro elemento di derivazione brunelleschiana è la copertura a ombrello su un basso tamburo. I capitelli dell'interno sono ripresi da un preciso modello antico, quelli con cavalli alati del tempio romano di Marte Ultore. Ritorna anche l'uso dell'ordine toscano o dorico semplificato nell'esterno, al quale si sovrappone, in una sequenza canonica, quello ionico.
Tra le principali opere commissionate direttamente da Lorenzo il Magnifico è la villa di Poggio a Caiano, che, iniziata nel 1486, era incompiuta al momento della cacciata dei Medici da Firenze e venne terminata durante il papato di Leone X.
La villa costituisce un'innovazione radicale rispetto al tipo di villa fiorentino ed è il frutto della collaborazione tra un committente appassionato dilettante di architettura che conosceva bene le fonti antiche (da Vitruvio a Plinio il Giovane) e un architetto che possedeva una ricca conoscenza diretta di ville e di architetture antiche in genere. Il basamento di impianto quadrato è ispirato al modello antico della basis villae, di cui il G. poteva aver visto esempi nei dintorni di Roma, per esempio nella presunta villa di Cicerone a Grottaferrata. L'articolazione con arcate su pilastri a cui si addossano paraste toscane conferma la predilezione del G. per l'uso di quest'ordine nei piani basamentali. La posizione artificialmente sopraelevata del piano destinato all'abitazione consente di avere una veduta ampia nonostante l'andamento quasi pianeggiante del terreno. L'impianto ad H permette di dare luce sufficiente al salone centrale. Il timpano, che, sorretto da colonne ioniche, forma con queste una sorta di fronte di tempio (adottato qui per la prima volta in un'architettura civile), sottolinea l'ingresso e anticipa una soluzione che divenne comune nelle ville palladiane. Si tratta probabilmente di un tentativo di interpretare i passi vitruviani relativi ad atri e vestiboli e può derivare anche dalla conoscenza di immagini antiche, come per esempio la miniatura che raffigura Gli ambasciatori troiani davanti alla reggia di Latino del Vergilius Vaticanus (Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 3225, c. 60v). L'ordine ionico del vestibolo si imposta nella sequenza canonica al di sopra di un basamento toscano e i suoi capitelli presentano una forma differenziata, con un collarino sia a bulbo, sia cilindrico, seguendo il criterio albertiano della varietas. La volta a botte del vestibolo e quella del salone, realizzata al tempo di Leone X, riprendono apparentemente l'ammirata tecnica dell'opus caementicium, ma il G., a cui Vasari dà il merito di aver esportato da Roma questo modo di fare le volte, resuscita il modo di costruire all'antica solo nell'intradosso.
A questi stessi anni risale l'incarico di realizzare la cornice per la pala dell'altare maggiore di S. Maria del Fiore. Tra il 1487 e il 1488 il G. terminò con il fratello Antonio i sedili per il refettorio di S. Pietro dei Cassinesi a Perugia. Agli stessi anni risale l'inizio della costruzione delle fortificazioni di Poggio Imperiale (Marchini, 1942, p. 89). È significativo che anche in anni in cui già lavorava da tempo come architetto il G. continuasse ad accettare incarichi di legnaiuolo, perfino relativamente secondari, a dimostrazione del fatto che doveva esistere una bottega attiva a tutti i livelli.
Nel 1488 il G. disegnò un grandioso progetto per il palazzo reale di Napoli, inviato in dono da Lorenzo il Magnifico a Ferdinando d'Aragona. La pianta è ispirata, per la prima volta in maniera consistente, alla descrizione vitruviana della domus. Durante il viaggio per la consegna del progetto il G. conobbe Giuliano Gondi, il quale al ritorno a Firenze gli commissionò il progetto per un palazzo che venne iniziato l'anno successivo.
Nel disegno della facciata di palazzo Gondi il G. reinterpretò il bugnato rustico utilizzato da Michelozzo in palazzo Medici, accentuandone con il disegno il carattere all'antica. Raccordò, infatti, i conci radiali delle finestre arcuate del piano nobile con i corsi orizzontali del bugnato stesso, rielaborando la soluzione che aveva visto a Roma nell'arco dei Pantani, riprodotto nel CodiceBarberiniano. Nel cortile adottò la soluzione, per lui insolita, ma comune a Firenze, delle arcate sostenute da colonne; il rapporto di 3 a 2 tra il numero delle arcate sui lati lunghi e i lati corti sembra ispirato da una delle proporzioni indicate da Vitruvio per l'atrio.
Sempre nel 1489 il G. realizzò per Filippo Strozzi un modello relativo al suo futuro palazzo, forse quello che tuttora si conserva nell'edificio stesso (Marchini, 1942). Coordinatore del cantiere al momento della costruzione fu Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, mentre rimane oscuro il nome dell'ideatore delle scelte fondamentali del progetto, forse identificabile con il G., date alcune analogie con il contemporaneo palazzo Gondi (negate da Tönnesmann).
Nel 1489, infine, fu commissionata al G. la sacrestia di S. Spirito grazie all'intervento in suo favore di Lorenzo il Magnifico.
La sacrestia richiama il battistero di S. Giovanni non solo nell'impianto ottagonale ma anche nell'articolazione delle soluzioni angolari, con le paraste scostate dallo spigolo che delimitano e concludono le singole facce del vano ottagonale, attestando quanto fosse forte a Firenze la predilezione per l'antico, o presunto antico locale. Mentre nel rapporto tra l'intelaiatura dell'ordine in pietra serena e la parete intonacata e imbiancata il G. riprende il sistema brunelleschiano, il disegno dei capitelli figurati, riccamente modellati, diversificati a gruppi di due, è guidato dall'albertiana ricerca della varietas. Nel vestibolo (il pagamento del modello risale al 1493) il G. impostò una volta a botte cassettonata, del tipo di quella di Poggio a Caiano, questa volta di pietra, su due file di colonne a tutto tondo, ma ravvicinate ai muri perimetrali, ricordando il modo in cui colonne e trabeazione sono utilizzate all'interno del battistero di S. Giovanni.
Al 1491 risale il pagamento da parte del convento di Cestello per un modello in legno. Per il medesimo monastero il G. realizzò, a partire dallo stesso anno, il chiostro, in cui adottò una soluzione all'antica con colonne che sostengono un architrave e pilastri agli angoli e nella campata centrale a sostegno di un arco, seguendo così la teoria albertiana che considerava incompatibili le arcate con le colonne. Il G. distinse i capitelli dei pilastri doricizzanti da quelli ionici delle colonne, per questi ultimi seguì un tipo antico del tutto insolito, sul quale si ferma a lungo Vasari (IV, p. 270): "… con la voluta che girando cascava fino al collarino…". Nel chiostro di Cestello, come già nel vestibolo di Poggio a Caiano, il G. dimostrò di considerare lo ionico un ordine della stessa dignità del corinzio, diversamente dai suoi predecessori fiorentini, i quali verosimilmente, seguendo l'esempio del battistero di S. Giovanni, tendevano a usarlo solo per funzioni secondarie.
Nell'ambito della politica di alleanze di Lorenzo il Magnifico, nel 1492 il G. venne inviato a Milano per consegnare un modello di palazzo a Ludovico il Moro, che aveva richiesto un disegno della villa di Poggio a Caiano.
Nello stesso anno fu chiamato a Pistoia a elaborare un progetto per la chiesa di S. Maria dell'Umiltà, per la quale il G. propose un impianto ottagonale con pareti articolate da ordini sovrapposti di paraste e con una soluzione d'angolo, analoga, al pari della pianta, a quanto realizzato a Firenze nella sacrestia di S. Spirito. L'ideazione di quest'architettura negli anni 1492-94 è sicuramente del G., il quale però non ne seguì l'esecuzione, iniziata soltanto nel 1495.
Nel 1494 nacque il figlio Francesco avuto dalla moglie Bartolomea Picconi che aveva sposato il 7 agosto 1480.
In quel periodo il cardinale Giuliano Della Rovere, che era fuggito in Francia, dopo aver lasciato Roma per timore di Alessandro VI, commissionò al G. un progetto per il palazzo di famiglia da realizzare a Savona, sua città natale. Il G. si fermò a lungo in Francia, negli anni dell'esilio di Giuliano Della Rovere, ed ebbe la possibilità di studiare le antichità romane della Provenza, che disegnò nel Codice Barberiniano.
La prima data documentata relativa al palazzo di Savona risale al 1496 e riguarda il pagamento di pietre per la facciata. Per questa il G. scelse una soluzione albertiana con ordini di paraste sovrapposte alla maniera di palazzo Rucellai. Solo l'ordine inferiore fu eseguito sotto il controllo del G., la parte superiore della costruzione è probabilmente del XVI secolo. Diversamente dal palazzo Rucellai, tuttavia, le paraste non si stagliano su una parete di bugnato piatto: il G. preferì infatti accostare le paraste di marmo bianco a un fondo di pietra scura, ricercando una bicromia che aveva utilizzato anche nella facciata di S. Maria delle Carceri. Il motivo dei rivestimenti marmorei policromi, tradizionale a Firenze nell'architettura protorinascimentale e quindi a lui familiare, l'aveva indotto a cercarne una giustificazione nell'antico, per cui aveva disegnato parecchi esempi romani antichi e tardoantichi, come l'oratorio della S. Croce (Codice Barberiniano, cc. 30v-31r; Hülsen, II, p. 46) e la basilica di Giunio Basso (Codice Barberiniano, c. 31v.; Hülsen, II, p. 47). Giuliano Della Rovere una volta eletto papa (1503) perse tuttavia ogni interesse per la costruzione che rimase incompiuta.
Nel 1497, mentre tornava in patria, il G. fu catturato a Pisa, allora in guerra con Firenze; solo dopo qualche mese, fu rilasciato e poté tornare nella città natale (Gaye, I, p. 338). Partì nuovamente nel 1499, quando assunse l'incarico di progettare e costruire la cupola della basilica di Loreto, terminata nel 1500 (Marchini, 1942, p. 109). La nuova opera fu particolarmente importante per la carriera del G. perché gli permise di svolgere il doppio ruolo di progettista e costruttore. Tra il 1500 e il 1502 il G. fu impegnato in opere di fortificazione a Borgo San Sepolcro, a Cortona, a Colle Val d'Elsa e ad Arezzo con il fratello Antonio (Gaye, II, pp. 49 s.; Marchini, 1942, pp. 95 s., 109). Nel 1503 gli Operai del palazzo della Signoria lo assunsero come capomaestro al posto di Baccio d'Agnolo.
Nel 1504 ricevette un nuovo incarico dai Gondi, che gli commissionarono la costruzione della cappella di famiglia in S. Maria Novella; il G. articolò la parete di fondo con un motivo ispirato al tipo degli archi trionfali e utilizzò un rivestimento di marmi policromi lungo le pareti, rievocando decorazioni antiche che aveva disegnato in diverse pagine del Codice Barberiniano.
Giuliano Della Rovere, divenuto papa alla fine del 1503 con il nome di Giulio II, chiamò il G. che nel 1505 si trasferì a Roma confidando negli antichi rapporti e negli incarichi ricevuti in precedenza. Le sue speranze furono, tuttavia, in gran parte deluse, poiché gli venne preferito Donato Bramante. Furono, così, secondari gli incarichi papali che ricevette, tra questi il progetto di una loggia in Castel Sant'Angelo che risolse con uno dei suoi motivi preferiti, ovvero il sistema architravato su colonne.
Negli anni immediatamente successivi progettò l'ampliamento della villa papale alla Magliana e quello del palazzo dei Penitenzieri. Nel 1505 disegnò anche un progetto mai realizzato di loggia per i suonatori papali in forma di arco trionfale (Marchini, 1942, p. 97). Si manifesta qui il gusto del G. per un'architettura ricca di rilievi e di decorazioni che era apparsa fin dal cortile di palazzo Scala. Nello stesso anno favorì la chiamata a Roma di Michelangelo (Vasari), al quale Giulio II affiderà l'incarico di progettare la tomba del papa in S. Pietro. Il G. continuò, tuttavia, a essere un consigliere ascoltato da Giulio II, ma non fu mai suo architetto di fiducia, tanto che anche i suoi progetti per il nuovo S. Pietro non ebbero alcun seguito.
Entro i primi giorni del 1507 il G. tornò deluso a Firenze. Fece un breve viaggio a Roma l'anno successivo; fu probabilmente in questa occasione che progettò la piccola chiesa di S. Caterina alle cavallerotte, distrutta con l'ampliamento della piazza di S. Pietro (Frommel, 1962). Negli anni trascorsi a Firenze a partire dal 1509 il G. si occupò prevalentemente di architettura militare. Nel 1509 realizzò una fortezza per Pisa, poi distrutta, e nel 1510 progettò una nuova fortezza per Firenze. Nel 1512, tornati i Medici a Firenze, e soprattutto l'anno successivo con la salita al soglio pontificio di Giovanni de' Medici, Leone X, il G. riacquistò la speranza di ottenere incarichi importanti. Giunto a Roma, sottopose al papa un progetto di palazzo, grandioso quanto quelli elaborati in passato per diversi regnanti, da edificare nel sito dell'odierno palazzo Madama, dove Leone X aveva abitato da cardinale. La costruzione doveva estendersi fino a piazza Navona, che sarebbe divenuta una sorta di avancorte del palazzo. Anche questa volta, tuttavia, le speranze del G. rimasero frustrate; Leone X, infatti, lo nominò coadiutore nella fabbrica di S. Pietro, affiancandolo così a fra' Giocondo e a Raffaello (Marchini, 1942, p. 111; Frommel, 1994). L'intento del papa era quello di far collaborare i due anziani ed esperti architetti con il giovane urbinate, scelto su indicazione di Bramante, e sul quale si riponevano le maggiori speranze. Il Sanzio era quindi destinato ad acquistare di fatto una posizione preminente. In questo periodo il G. preparò alcuni progetti per S. Pietro, conservati presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, e contenuti nel Codice Barberiniano, in cui assecondava le richieste di Leone X per una chiesa più ampia di quella prevista da Bramante (Frommel, 1994, p. 605).
Nello stesso periodo il G. fu incaricato di ultimare e di sistemare la via di Borgo Nuovo che, iniziata al tempo di Alessandro VI, collegava Castel Sant'Angelo alla piazza di S. Pietro. Il saldo del compenso per questo lavoro venne corrisposto agli eredi dopo la morte del G. (Marchini, 1942, p. 111).
Nel 1515 il G. tornò a Firenze dove lavorò al progetto per la facciata di S. Lorenzo. I sei disegni realizzati - alcuni nuovi e altri aggiornati da progetti precedentemente elaborati negli anni del pontificato di Giulio II (Uffizi A276-A281) - furono sottoposti a Leone X durante il suo soggiorno fiorentino nell'inverno 1515-16. Per l'occasione presentarono i loro progetti diversi architetti, tra cui Raffaello, Jacopo Sansovino e Baccio d'Agnolo.
In alcuni dei disegni il G. realizzò a pieno la sua tendenza a un'architettura trionfale, ispirata cioè fondamentalmente agli esempi antichi, in cui potessero trovare posto nicchie con statue e ornamenti scultorei in genere. È questa la manifestazione più matura di un gusto nato ai tempi di Lorenzo il Magnifico che, fino ad allora, si era espresso soprattutto in allestimenti di architetture effimere. L'occasione per allestire apparati di questo genere era stata offerta nell'autunno del 1513 dai festeggiamenti per il conferimento della cittadinanza romana ai nipoti del papa, Lorenzo e Giuliano de' Medici. Sul Campidoglio era stato allestito un teatro temporaneo di legno, ornato con finti rilievi. Non è documentato chi sia stato l'inventore del progetto per il quale è stato ragionevolmente proposto il nome del G. (Bruschi, 1974).
Nei progetti per S. Lorenzo il G. mise a frutto tutti i suoi studi sugli archi antichi ai quali aveva dedicato tante pagine dei suoi libri di disegni. In alcuni di questi progetti il G. elaborò un'architettura con membrature molto plastiche: qui utilizzò il fregio completo con metope e triglifi, dopo che per decenni aveva privilegiato un "ordine" toscano o dorico semplificato ed era stato preceduto da Bramante nell'adozione di un dorico "archeologico". Alle soluzioni proposte dal G. fu però preferito il progetto di Michelangelo. I suoi disegni, tuttavia, influirono fortemente sia su Michelangelo stesso sia su Jacopo Sansovino, nonché sulle architetture romane degli anni seguenti del Sanzio, per esempio palazzo Branconio.
Il 16 ott. 1516 il G. morì a Firenze e venne sepolto in S. Maria Novella. Una sua effigie dipinta da Piero di Cosimo si conserva presso il Rijksmuseum di Amsterdam.
Il lavoro del G. è testimoniato da una ricca produzione grafica: oltre a un gruppo di disegni nella raccolta degli Uffizi, si conservano il Taccuino senese (Pisa, Biblioteca comunale, cod. S. IV 8) e il CodiceBarberiniano (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 4424). Entrambi i taccuini sono di pergamena e contengono sia disegni di monumenti antichi sia architetture contemporanee e progetti del Giamberti.
Il Taccuino senese, edito da Falb, era chiamato il "libretto di Giuliano" dai membri della famiglia Sangallo, i quali potevano consultarlo più liberamente del Barberiniano, che invece sembra fosse custodito gelosamente. Di formato molto minore, era stato composto riunendo 5 diversi fascicoli, il primo dei quali è andato perduto. Il Taccuino comprende disegni databili tra la metà degli anni Ottanta e il 1513. Come nel Codice Barberiniano, vi sono disegnati piante, alzati e particolari di architetture antiche (tra cui molti archi trionfali), medievali (come il battistero di Pisa, c. 27r) e quattrocentesche (per esempio S. Lorenzo a Firenze: c. 21v), insieme con vari progetti del G., tra cui le piante del palazzo per il re di Napoli (c. 17v), di S. Maria delle Carceri (c. 19r) e di Poggio a Caiano (c. 19v). Vari disegni corrispondono a quelli del Codice Barberiniano e alcuni di quelli tratti dall'antico sono serviti come fonti per i progetti del G. (Hülsen, II, pp. XXXVI e LII-LIX).
Maggiore importanza riveste il CodiceBarberiniano, edito da Hülsen, che non ha precedenti per la ricchezza della documentazione raccolta, il grande formato e la grafica accurata. Non si tratta di un taccuino di disegni ripresi dal vero bensí di copie tratte da originali sia del G. sia di altri autori. Il G. riorganizzò questa sua raccolta negli anni Ottanta incollando ai fogli di un quaderno più vecchio strisce di pergamena, per ingrandire le pagine e renderne uniformi le dimensioni; nell'epigrafe sul frontespizio riportò solennemente il proprio nome e la data 1465 che segna l'inizio della raccolta. Nel libro il G. inserì propri progetti fino alla fine della sua attività, l'ultimo dei quali è una pianta per S. Pietro disegnata al tempo di Leone X. Il codice ha pertanto un valore e un intento consapevolmente autobiografici (Nesselrath, 1986, p. 128), l'equivalente di un libro "di ricordanze". Il G. vi registrò inoltre le più ammirate architetture che aveva visto per trasmettere questo patrimonio di conoscenze al figlio Francesco, che a sua volta contribuí ad arricchirlo.
Nel Codice Barberiniano risultano evidenti gli interessi, gli intenti e i metodi con cui il G. indagava sulle architetture antiche. Esso comprende sia particolari sia piante e alzati di interi edifici, raffigurati spesso a colori per distinguere i diversi materiali. Alcuni monumenti antichi sono raffigurati non nello stato di rovina in cui si trovavano ma reintegrati secondo le ipotesi dello stesso Giamberti. Una parte cospicua di pagine è dedicata agli archi di trionfo, in quanto lo studio e la riproduzione di questo tipo di architetture era fondamentale per progettare quell'"architettura trionfale" che era nei suoi intenti.
L'intenso studio dei modelli classici, testimoniato anche dalla produzione grafica, permise al G. di superare in diversi campi i suoi predecessori, nel tentativo di creare un'architettura ispirata all'antico. In tema di ordini, l'opera del G. ebbe un ruolo fondamentale nel favorire la ripresa e la diffusione dello ionico che, fino ad allora, era stato impiegato a Firenze solo per funzioni secondarie. In più, fin dal palazzo di Bartolomeo Scala egli adottò ripetutamente un tipo di dorico-toscano scegliendo un insieme di elementi di carattere omogeneo - basi, capitelli e trabeazioni semplificate - che distinguessero per forme e qualità, più che per proporzioni, questo ordine, facendo così un passo avanti nella distinzione dei diversi "generi" di colonne. In tutto ciò si orientò guardando precisi esempi antichi - in primo luogo l'ordine inferiore del Colosseo - più che tentando di seguire i dettati vitruviani. Sempre i monumenti classici, anche in questo caso soprattutto il Colosseo, suggerirono, a partire dalla villa di Poggio a Caiano, la scelta del dorico-toscano nel piano di base quando impiegò il sistema degli ordini sovrapposti. Il testo vitruviano, invece, gli ispirò, già nel cortile di palazzo Scala e poi ancor più nei progetti di grandi palazzi reali, il tentativo di ricreare un impianto di abitazione all'antica.
Nella conoscenza diretta dell'architettura antica il G. aveva raggiunto una posizione insuperata per la sua generazione e poteva procedere in piena autonomia. Per attingere informazioni e indicazioni dai trattati scritti in latino, antichi e moderni, ricevette invece un grande aiuto dal suo principale committente e protettore. Fu Lorenzo il Magnifico, infatti, a indirizzare nell'uso dei testi classici il G. che aveva avuto un'educazione da legnaiuolo e non era certo in grado di leggere autonomamente e speditamente un autore latino. Grazie ai suggerimenti e alla guida del Magnifico, il G. poté appropriarsi delle idee fondamentali del trattato scritto in latino da Leon Battista Alberti, tanto da divenire l'architetto più albertiano della sua generazione. Accanto alle indicazioni dell'Alberti, per il G. rimasero costantemente un punto di riferimento le soluzioni brunelleschiane: è sintomatico che egli difendesse il progetto di Brunelleschi per S. Spirito quando questo, verso la fine del Quattrocento, fu messo in discussione.
Con l'avvento al soglio pontificio di Giulio II prima e Leone X poi, con i quali il G. aveva da tempo ottimi rapporti, egli poteva ragionevolmente attendersi di ricevere i maggiori incarichi. Fu invece soppiantato da Bramante, che ricreò la monumentalità delle architetture antiche di età imperiale in modi a cui il G. non era mai arrivato.
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