GIALLO, Iacopo del, detto Giallo fiorentino
Poche sono le notizie documentarie su questo pittore, nato probabilmente a Firenze intorno al 1500 da Antonio, pittore locale. Il suo profilo biografico e artistico si è cominciato a definire solo in tempi relativamente recenti. Prima degli studi di Lionello Puppi nei primi anni Settanta del XX secolo, a partire da Gaetano Milanesi la storiografia aveva sovrapposto due figure di artisti indicate nelle fonti con lo stesso nome di "Giallo", con il risultato di creare un personaggio celebrato dai suoi contemporanei, al tempo stesso pittore e miniatore, fiorentino di nascita, attivo tra Roma e il Veneto e in continuo spostamento tra queste due aree geografiche. Non si erano tenute però in debito conto alcune incongruenze che, al contrario, tendono a restituire con forza due personalità distinte: il Giallo pittore e il Giallo miniatore. Non si tratta, di fatto, dello stesso artista, come provano alcuni dati. Dalle parole di Pietro Aretino nel Dialogo nel quale si parla del giuoco con moralità piacevole, pubblicato a Venezia nel 1543, si deduce che il miniatore "buona memoria" a quella data è già morto (Le carte parlanti, p. 373). A questo si deve aggiungere che in sede documentaria il nome è sempre accompagnato dalla qualifica di miniatore o di pittore, ciò che fa pensare a una designazione non casuale e, al contrario, decisamente identificativa. Non si è comunque lasciata cadere la possibilità che i due Giallo fossero in qualche modo imparentati: dal rapporto di fratellanza (Crosato, p. 51) si è arrivati a sostenere che il pittore fosse il figlio del miniatore, giunto nel Veneto con il padre, responsabile primo della sua formazione (Tiozzo, p. 41). Di certo, rimane la coincidenza del cognome e la comune origine, Firenze. Si può dunque ragionevolmente supporre la presenza nei territori della Serenissima di una famiglia di artisti, di origine fiorentina e di cultura tosco-romana, che seguirono gli stessi passi di altri artisti provenienti dall'Italia centrale, che, già dopo il sacco di Roma e per tutti gli anni Trenta e Quaranta, manifestarono in Veneto e in varie occasioni i nuovi linguaggi messi a punto a Roma. Della famiglia dei Giallo probabilmente fece anche parte il "dominus Petrus Franciscus Giallo Florentinus pictor", documentato a Venezia il 27 giugno 1552 in qualità di testimone in un'istruttoria (Fontana, p. 47). Ciò ha spinto ad accostare questa figura a quella del G., attivo a Venezia e a Fratta Polesine, benché i documenti veneziani tacciano sistematicamente sul nome dell'artista. L'ipotesi potrebbe dunque essere praticabile, ma ragioni relative alla biografia che del G. si può ricostruire, grazie alla riconsiderazione dei dati esistenti, vanno contro questa tesi.
Nell'autobiografia di Raffaello da Montelupo, pubblicata da Milanesi a corredo della relativa "vita" vasariana, si narra come nell'anno dell'elezione di Clemente VII (1523) lo scultore si recasse a Roma insieme con "Jacopo di Antonio Giallo pittore". Le ricerche di Milanesi avevano portato a individuare (p. 557) un Antonio Giallo registrato a Firenze nel "Libro Rosso de' Debitori e Creditori coll'anno 1520" nonché "scritto nel Vecchio Libro dell'Arte coll'anno 1525". Ciò ha permesso di concludere che il G., formatosi a Firenze assai plausibilmente presso la bottega del padre, alla data del 1523 era già in grado di portare avanti il mestiere in proprio, e lontano dall'ambiente paterno. A prendere la strada di Roma lo aveva indubbiamente spinto la certezza condivisa da molti altri fiorentini - letterati, pittori, scultori, miniatori - che nella città pontificia si sarebbe trovato favore e lavoro per artisti giunti dalla patria del cardinale Giulio de' Medici, eletto quell'anno papa con il nome di Clemente VII. Così fu, almeno per il G., che operò nell'ambito delle committenze legate alla Curia anche al di là del pontificato di Clemente. I documenti vaticani registrano tra il 1534 e il 1535 pagamenti per insegne, pennoni e bandiere eseguiti dal G. per i funerali del papa. Ancora nel 1535 e nel 1539 si annotava il suo nome per l'esecuzione di bandiere destinate a Castel Sant'Angelo (Rossi, pp. 282 s.). In assenza di ulteriori elementi, si potrebbe pensare a un'attività romana del G. limitata al campo degli apparati effimeri. Non si può però del tutto escludere, anche sulla base di quanto il G. avrebbe realizzato successivamente, che, proprio in virtù di tale specializzazione, egli possa essere stato coinvolto in qualcuna delle contemporanee grandi imprese decorative promosse dalla Curia pontificia. Proprio negli anni di permanenza romana del G. il cantiere di Castel Sant'Angelo era in grande fermento. Entro la metà del secolo diverse maestranze si erano succedute per portare a termine la decorazione negli ambienti degli appartamenti pontifici. Le botteghe di Luzio Romano e di Perin del Vaga avevano fornito idee e manodopera per la messa a punto di un programma che celebrasse la grandezza del presente attraverso l'antico, le sue storie e le sue tipologie. La grottesca fu ampiamente utilizzata per fare da cornice ai riquadri di episodi mitologici, storici e leggendari; ma anche come momento decorativo a sé stante. È quanto accade nel cosiddetto "corridoio pompeiano", dove è stato ipotizzato fosse attivo il G.: queste pitture romane sono state accostate a quelle da lui eseguite nelle sale della villa palladiana di Fratta Polesine (Nave, p. 162). Il corridoio pompeiano venne realizzato dalla bottega di Perino nel dicembre del 1546. Ma alla decorazione degli ambienti di Castello il G. potrebbe esserci arrivato qualche anno prima. Dal 1542, infatti, architetto responsabile della costruzione della loggia di Paolo III era Raffaello da Montelupo, che poté aver favorito la presenza del G. a Castello forse già a questa data. Se l'attività del G. in questo cantiere è solo ipotizzabile, la cultura denunciata dalle sue opere successive lo riconduce all'ambiente perinesco.
Scrivendo di Giuseppe Porta, detto il Salviati, Carlo Ridolfi (p. 241) accenna all'importante impegno del pittore nella decorazione della facciata di Ca' Loredan a S. Stefano, impresa nella quale fu aiutato da "un dipintore cognominato dal Zallo". Realizzati nel 1553, quando il Salviati era a Venezia già da più di un decennio (Fontana, p. 40), gli affreschi nel corso del tempo andarono completamente perduti, come d'altronde quelli di molti edifici veneziani. Nonostante tutto, Ridolfi ne diede una sommaria descrizione: riquadri raffiguranti episodi eroici della storia romana (Lucrezia, Clelia, Muzio Scevola) erano incorniciati da "ornamenti" di "cartelle, grottesche e festoni". In questa parte, si parla esplicitamente dell'intervento del G., considerato a tutta evidenza specialista del genere, giunto da Roma forse già da qualche tempo con un bagaglio di esperienze che ne facevano la persona adatta alla quale Salviati poté rivolgersi per mettere in atto la propria invenzione secondo gli schemi manieristi, e romani, propri della sua cultura. L'opera, come si sa dallo stesso Ridolfi, riscosse un grande successo. E il G. rimase a Venezia. Dall'estimo catastale di Leonardo Bollani, cittadino veneziano, risulta come alla data del 31 genn. 1555 nella sua casa in contrada S. Maurizio abitasse "Zallo depentor fiorentino" (Hadeln, p. 167). Poco dopo, lavorò per committenti strettamente legati per ragioni di parentela alla famiglia Loredan che lo aveva apprezzato nei suoi lavori a S. Stefano. Illustrando la villa costruita a Fratta Polesine per Francesco Badoer, Andrea Palladio scrisse brevemente delle sale, "ornate di grottesche di bellissima invenzione" eseguite dal "Giallo Fiorentino" (p. 148).
È stato ormai accertato che la costruzione palladiana fu messa in opera tra il 1555 e il 1556, e che, di conseguenza, la decorazione venne eseguita nello stesso tempo (Fontana, p. 40). La presenza del G. in qualità di capocantiere in una villa edificata da Palladio - che lavorava con un'équipe più o meno stabile di decoratori tra i quali il G. non figurò mai se non in questo caso - e la decorazione a grottesche - è l'unico edificio palladiano interamente realizzato in questo modo - possono essere spiegate solo attraverso il volere della committenza. Francesco Badoer, proprietario della villa di Fratta, era infatti sposato con Lucietta Loredan; e alla celebrazione dell'alleanza tra le due famiglie è informato tutto il programma decorativo della villa. Gli stemmi intrecciati sull'ingresso, la scelta di collocare nel salone soggetti mitologici relativi a episodi di connubio ed elezione (Leda e il cigno, ratto di Ganimede), rivelano questa volontà di esaltare il mito familiare, accanto alla sofisticata ed estesa magnificazione del mito naturale. In tutti gli ambienti della villa, comprese le due sale maggiori, giardini e paesi si alternano a rovine, divinità fluviali, storie allusive alla natura selvaggia e civilizzata del sito, mettendo in scena con grande abilità i dettami vitruviani, anche alla luce di apporti nordici derivati al G. dalla conoscenza delle stampe di Augustin Hirschvogel. La serie incisa di sei paesaggi danubiani datati al 1546 sono infatti a tutta evidenza la fonte cui il G. si attenne, con pochissime varianti, per la realizzazione di alcune scene paesistiche nella sala grande laterale di sinistra (Jung).
La cultura denunciata nei dipinti murali di Fratta è comunque decisamente fiorentina e romana, perinesca in particolare. A cominciare dall'esasperato michelangiolismo delle figure e dall'uso esteso della grottesca, secondo schemi tipologici ed esecutivi non riscontrabili in Veneto e, al contrario, molto vicini per il richiamo "pompeiano" agli episodi già citati di Castel Sant'Angelo. Al di sopra di uno zoccolo in finto marmo, la decorazione delle pareti è suddivisa in fasce orizzontali e verticali che formano riquadri, differenziati dal diverso colore di fondo e individuati da una struttura architettonica, all'interno dei quali si collocano stemmi e figurine colte in vari atteggiamenti. Festoni, cesti di fiori e frutta, trofei d'armi, animali - cui va una particolare menzione di naturalismo - arricchiscono la decorazione che dimostra una perfetta padronanza da parte del pittore del repertorio figurativo proprio delle grottesche, protagoniste assolute degli ambienti, anche di quelli principali, grazie alla loro stupefacente vivacità coloristica.
Sulla base di questo lavoro a villa Badoer, sono stati attribuiti al G. anche gli affreschi della villa Grimani Molin, ora Avezzù, sempre a Fratta Polesine (Castegnaro Barbuiani). Proprietaria del terreno sul quale sorse l'edificio, di non comprovata autografia palladiana, era Lucrezia Loredan, moglie di Vincenzo Grimani e sorella di Lucietta, signora della villa di Fratta. L'avvenimento che decise la costruzione di una residenza che emulasse la Badoera fu con ogni probabilità il matrimonio della figlia Isabetta con Andrea Molin nel 1564. Era sicuramente terminata nel 1567, come si desume dal testamento del Grimani. È possibile che, visti gli stretti legami di parentela e il vicinato con i Badoer, si fosse pensato di impegnare gli stessi autori, e quindi di chiedere a Palladio la direzione dei lavori architettonici - che fu affidata a un suo collaboratore - e al G. di realizzare gli affreschi. La stretta contiguità formale e stilistica dei due complessi decorativi di Fratta sembrerebbe andare a sostegno di questa ipotesi (Tiozzo, p. 37).
Le differenze riscontrabili derivano soltanto da ragioni legate alla diversità di ampiezza degli ambienti e da una maggiore tendenza nella villa dei Grimani ad ampliare illusionisticamente le superfici murarie, come accade nei due grandi riquadri del salone di mezzo. Pressoché sovrapponibili sono invece la tecnica esecutiva, la forte cadenza manieristica, le tipologie dei volti e finanche alcuni campi decorativi - le figure di Virtù a cavalcioni di animali del salone - riprodotti in entrambi i casi senza alcuna variazione: questo in particolare è possibile solo con l'utilizzazione dello stesso cartone da parte, evidentemente, della stessa bottega. Il ciclo di affreschi della villa Grimani è volto all'esaltazione della donna come sposa, amante e madre: le figure di Virtù e le scene allegoriche, scelte a corredo illustrativo delle pareti e dei soffitti dell'ambiente centrale e delle tre sale dell'ala destra, riflettono il programma della committenza. Se i grandi riquadri del salone alludono alla donna come frutto ambito e come tesoro prezioso, la decorazione dei tre ambienti laterali celebra il matrimonio nell'episodio dei due sposi che osservano candide colombe (sala di centro), l'amore sensuale che arriva fino al sacrificio con l'episodio di Cleopatra (sala di destra), il buon amore protetto dalla divinità, rappresentato dalla coppia di Giove e Giunone che si sporgono a guardare da una balaustra le vicende umane (sala di sinistra).
È stato ipotizzato che, una volta portato a termine l'impegno con i Grimani (ovvero dopo il 1564-65) il G. realizzasse anche la decorazione per la villa del conte di Vivaro di Dueville, in provincia di Vicenza (ibid., p. 41). Gli affreschi sono andati perduti; ed è difficile dunque confermare o meno questa ipotesi, fondata sulla notorietà che il G. aveva acquistato con l'attività nei due cantieri di Fratta.
I documenti tacciono sull'ultima fase della vita del G.: la critica concorda ormai nel non considerare autografe le pressoché illeggibili grottesche del portico sud della villa Malpigli a Loppeglia, nel Lucchese, databili alla metà degli anni Novanta (Belli Barsali, p. 94). Ciò solo per ragioni stilistiche: non si conosce infatti più nulla di certo riguardo a eventuali opere e viaggi del G., né si conoscono data e luogo di morte.
Fonti e Bibl.: P. Aretino, Le carte parlanti (1543), a cura di G. Casalegno - G. Giaccone, Palermo 1992, p. 373; G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, IV, Firenze 1879, pp. 557 s., n. 4; A. Palladio, I quattro libri dell'architettura (1570), a cura di L. Magagnato - P. Marini, Milano 1980, p. 148; C. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte (1648), a cura di D.F. von Hadeln, I, Berlin 1914, p. 241; A. Rossi, Spogli vaticani, in Giornale di erudizione artistica, VI (1877), pp. 282 s.; D.F. von Hadeln, Nachrichten über Miniaturmaler, in Archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Kunst, a cura di G. Ludwig, Berlin 1911, pp. 166 s.; L. Crosato, Gli affreschi nelle ville venete del Cinquecento, Treviso 1962, pp. 51, 119; M. Levi D'Ancona, J. del G. e alcune miniature del Correr, in Bollettino dei Musei civici veneziani, VII (1962), 2, pp. 1-23; I. Belli Barsali, La villa a Lucca dal XV al XIX secolo, Roma 1964, pp. 94, 122; E. Saccomani, Le "grottesche" venete del '500, in Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, CXXIX (1970-71), pp. 303-305, 321 s.; L. Puppi, La villa Badoer di Fratta Polesine, Vicenza 1972, ad indicem; G.B. Tiozzo, Il Palladio e le ville fluviali. Architettura e decorazione, Venezia 1981, pp. 37-46; R. Fontana, Considerazioni intorno alla villa Badoer di Fratta, con alcune notizie su G. Fiorentino suo decoratore, in Palladio e il palladianesimo in Polesine, a cura di L. Puppi, Rovigo 1984, pp. 39-51; L. Castegnaro Barbuiani, Villa Grimani-Molin ora Avezzù a Fratta, ibid., p. 76; F. Trinchieri Camiz, Significati iconografici degli affreschi delle ville Badoer e Molin-Avezzù a Fratta Polesine, in Eresia, magia, società nel Polesine tra '500 e '600, Rovigo 1989, pp. 117-144; A. Nave, Il G. Fiorentino, in Notizie da Palazzo Albani, XX (1991), pp. 157-164; C. Jung, I paesaggi nella villa Badoer: G. Fiorentino e Augustin Hirschvogel, in Arte veneta, LI (1997), pp. 41-49; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, p. 579.