GIACOMELLI, Giacomo
Nato intorno al 1498 da una famiglia romana di accademici, si laureò in medicina alla Sapienza di Roma, dove insegnò filosofia, sicuramente dal 1539 al 1542, ma probabilmente già dal 1535. La professione e gli appoggi della famiglia gli consentirono saldi rapporti con la Curia sin dagli anni Venti, essendo stato medico del conclave seguito alla morte di Adriano VI (1523). Dalle sue relazioni personali e familiari ricavò una posizione sociale ragguardevole, che gli consentì di possedere "casa presso S. Macuto ornata di statue e busti antichi" (Moroni, p. 130). Lo stretto legame maturato negli anni Trenta con il cardinale Alessandro Farnese e la presenza stabile del fratello Cosimo, archiatra pontificio, accanto a Paolo III, fecero del G. un curiale sempre molto informato sugli sviluppi della politica papale, nonché sostenuto da privilegi e concessioni. Fu canonico di S. Apollinare in Urbe e nel Ruolo dello Studium Urbis del 1542 risulta il più pagato "col grandioso stipendio di 850 fiorini" (Renazzi, p. 103). Il 5 maggio dello stesso anno, probabilmente grazie al fratello, il G. fu nominato vescovo di Belcastro, sede nella quale "non mise praticamente mai piede" (Alberigo, p. 234). L'episcopato calabrese del G. non fu solo fonte di rendite, ma anche il titolo con cui egli partecipò sin dal 1543 ai dibattiti preparatori per il concilio di Trento, da dove mandava informative precise al cardinale A. Farnese e a Paolo III e dove si scontrò con Giovanni Morone, di cui fu nemico giurato per tutta la vita.
Il primo dissidio con il Morone era avvenuto nel marzo 1543, tanto sulla questione della sede dell'assemblea conciliare quanto sui temi teologici. Nella riunione del Sacro Collegio a Busseto era stata proposta la sospensione del concilio e il suo trasferimento in altra città; il conflitto con i Turchi e il pericolo dell'egemonia imperiale sull'assemblea ne furono le giustificazioni. Il G. - insieme con l'arcivescovo di Corfù Giacomo Cauco e i vescovi di Feltre Tommaso Campeggi e di Bertinoro Cristoforo Mussi -, si schierò contro la permanenza a Trento, che a suo avviso avrebbe potuto trasformare il concilio in un sinodo nazionale legittimato dal papa e si oppose alle proposte di mediazione del Morone, dell'arcivescovo di Otranto Pietro Antonio Di Capua e del vescovo di Hildesheim Valentin von Teutleben, secondo i quali proprio il rifiuto di Trento avrebbe invece potuto provocare un sinodo nazionale. Per il Morone il mutamento della sede doveva essere il risultato di una trattativa con i principi tedeschi per ottenerne il consenso.
Nella lettera del 13 ag. 1545 al fratello, che gli faceva da tramite con il pontefice, il G. scriveva invece che con l'apertura del concilio "incurreremo in grandissimi periculi et ruine perché vorrando si parli qui de moribus et […] io son chiaro che serremo spacciati. Io so quel che dico" (Concilium Tridentinum, X, 1916, p. 173). Di fronte a tale rischio il G. si offriva come agente per ottenere la traslazione anche attraverso pressioni e forzature sui legati "de quali molti ne ho fatta la anatomia et cognosco […] supplicaremo la traslazione, et Sua Santità, ad instanzia della magiur parte del Concilio, potrà transferre" (ibid.). L'altra ipotesi prevista dal G. era un sinodo, avente per oggetto la riforma dei costumi, parallelo al concilio di Trento, al quale sarebbero state lasciate le questioni teologiche. Quando, il 28 apr. 1545, A. Farnese comunicava ai legati che il concilio non si sarebbe ancora tenuto, il G. concordò completamente con il cardinale. Sempre in stretto accordo con il Farnese, che con grande frequenza gli inviava denaro, e coadiuvato dai vescovi di Astorga Diego de Alaba e di Milopotamos Dionigi Zannettini, detto il Grechetto, il G. aveva sostenuto le prime polemiche sui temi della Riforma, cercando di capire le intenzioni del Morone e di Reginald Pole e interrogando i convenuti sulla riforma della Curia.
La complessa organizzazione del concilio e l'attenta precostruzione di equilibri che poteva in ogni momento essere destabilizzata dal conflitto politico-religioso in Europa, comportarono, tra le molteplici trattative, anche quella con il viceré di Napoli Pedro de Toledo. Sulla base della Monarchia Sicula del 1098 questi aveva deciso di inviare al concilio solo quattro prelati filoimperiali in rappresentanza di tutti gli altri; la lettera del viceré del 27 marzo 1545 con la quale si dava comunicazione di tale decisione, provocò reazioni vivaci tra i legati e in Curia e fu delegittimata dalla bolla Decet nos del 17 aprile, che consentì la partecipazione al concilio di nove vescovi napoletani di "collazione papale" - tra cui il G. - da aggiungersi ai quattro di "presentazione regia". Molti prelati, combattuti tra la fedeltà alla Decet nos e il rispetto delle disposizioni del viceré, rinunciarono ad andare a Trento, e una parte di loro rilasciò procura.
Il G. arrivò a Trento il 21 nov. 1545, unico romano tra i vescovi del Napoletano, con la procura di Bernardino Silveri Piccolomini, e fu tra i quattro meridionali che ottennero contributi finanziari dai legati. Ben presto il G. riuscì a risolvere anche il problema del suo mantenimento in una città così lontana, questione che costituiva il motivo di frequenti lamentazioni da parte dei prelati più poveri: nel luglio 1546 approfittò infatti dell'incidente avvenuto tra Tommaso Sanfelice, commissario del concilio, e il Grechetto, personaggio assai poco limpido e dal carattere impetuoso e sanguigno. In seguito allo scontro fisico avvenuto tra i due dopo una violenta discussione e alla sospensione di Sanfelice dall'incarico, il G. riuscirà a sostituirlo ottenendone la carica e il tanto anelato stipendio, nonché ad allontanare un esponente ritenuto troppo aperto alle tesi luterane sulla questione della giustificazione per fede.
Sin dalla prima congregazione generale a Trento (18 dic. 1545) il G. si pronunciò per un orientamento del dibattito che prediligesse l'esame delle questioni dottrinarie, proponendo la partecipazione di dotti teologi e opponendosi a chi, come R. Pole, esprimeva posizioni aperte al riconoscimento di errori in seno ai cattolici. Fautore di un concilio che si autodefinisse rappresentante di tutta la Chiesa, partecipò alle discussioni della classe diretta da Marcello Cervini, dedicata alle questioni teologiche, che affrontò dal 18 febbr. 1546 il problema della tradizione della Scrittura. In netto contrasto con la tesi luterana della Bibbia come unica norma di fede e morale, il G. sosteneva la legittimità delle traditiones. Iniziata il 20 febbraio, la congregazione particolare continuò per un mese, articolandosi tra le posizioni del gesuita Claude Le Jay, di T. Campeggi e di M. Cervini e spostandosi sulla questione della traduzione della Bibbia in volgare. Su questo tema il G. si ritrovò, con Coriolano Martirano, vicino alle posizioni antierasmiane di Pedro Pacheco, che aveva chiesto la proibizione della traduzione in volgare e un esame della letteratura esegetica per la condanna dell'errore, e contro la linea del vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo. Deputati per l'elaborazione del relativo decreto furono il G. e T. Campeggi; la loro differente impostazione fece sì che si giungesse a una soluzione di mediazione sulla questione della traditio con il decreto del 22 marzo, che accoglieva tanto la verità della Sacra Scrittura quanto quella delle tradizioni non scritte e tramandate.
La classe di M. Cervini fu impegnata in quei mesi in due altre discussioni di rilievo, sui poteri dei regolari e sulla giustificazione. La prima questione implicava uno dei problemi capitali del concilio e della riforma cattolica: la permanenza dei vescovi nelle loro sedi, che richiedeva un più chiaro rapporto giurisdizionale tra l'episcopato, il clero secolare e i regolari. La posizione del G., decisamente favorevole a conferire ai regolari una maggiore capacità di prendere decisioni sulle predicazioni e ostile a un impegno diretto del vescovo, non poteva che essere interpretata come una ferma ostilità al principio della residenza episcopale, con l'aperta "intenzione di impedire qualsiasi attenuazione dei privilegi degli alfieri del potere papale" (Alberigo, p. 326). Il decreto del 17 giugno, che si limitava a chiedere ai regolari la benedizione del vescovo e, per le chiese a lui soggette, a prevederne la licenza, trovò l'approvazione del G., che nella congregazione generale si era espresso a favore della sola applicazione delle norme esistenti sulla residenza con controllo diretto del pontefice. Con il decreto del 3 marzo 1547 lo scontro tra curialisti e imperiali sull'accumulo dei benefici, provocati dall'uso secolare delle dispense, si concludeva con l'affermazione del principio della cura d'anime, ma su questo punto il G. restò fuori dal dibattito, limitandosi a qualche intervento generalmente favorevole alle posizioni dei legati.
Contemporaneamente proseguiva la discussione sulla giustificazione, per la quale il G. fu chiamato nella deputazione per il decreto, che condannò il principio della sola fide e individuava gli errori della dottrina della giustificazione. In una lettera al fratello Cosimo il G. si attribuì la paternità del testo del 23-24 luglio - considerato invece di Andrés Vega - "quale io ho fatto in materia iustificationis come deputato etc. et io ho facto a cuncurrentia di quello ha facto Mons. Cornelio, quale da tutti i prelati è biasimato" (Concilium Tridentinum, X, 1916, p. 596).
H. Jedin considera possibile l'attribuzione al G. e non ad A. Vega, il cui scritto sulla giustificazione è successivo al decreto. Il testo fu ritenuto "completamente inaccettabile" (Jedin, II, p. 225) dal generale dei serviti Agostino Bonucci e dal generale degli agostiniani Girolamo Seripando; il 24 luglio l'elaborazione del decreto fu affidata a quest'ultimo, che lo scrisse modificandone la sostanza e prescindendo dalla collaborazione dei deputati. L'importanza della fede nel rapporto con le opere e della grazia sulla volontà, così come l'estinzione della grazia in presenza di miscredenza o di peccato mortale, entrarono nelle sue conclusioni, insieme al principio della vita eterna come promessa e non merito. Nonostante il rifiuto dei deputati di sottoscrivere un testo alla cui elaborazione non avevano partecipato, il "docile Giacomelli" (ibid., p. 279) lo firmò, ma le modifiche apportate da Giovan Maria Del Monte e da C. Musso eliminarono dalle conclusioni di G. Seripando le punte più radicali, aprendo la discussione cui l'agostiniano rispose con la sua dottrina della doppia giustizia: alla giustizia delle opere si affianca quella di Cristo, la "giustizia imputata", congiunte come causa ed effetto. Due punti di vista, quello tomista e quello scotista, si confrontarono in una lunga e ardua discussione che vide protagonisti M. Cervini, G.M. Del Monte, G. Seripando, A. Bonucci, C. Musso, alla fine della quale si giunse, con il decreto del 13 genn. 1547, a una soluzione dottrinaria equidistante dalla visione pelagiana della grazia e dalla opposta concezione luterana. Il capitolo della giustificazione si era chiuso nella fase finale della guerra smalcaldica, quindi con il rafforzamento dell'imperatore e nel pieno delle polemiche sulla traslazione del concilio. Il dibattito era stato contrassegnato da aspre dispute, con la formazione di fazioni in lotta soprattutto all'interno dell'ala cattolica, che presagivano la durezza delle inquisizioni condotte poi con il pontificato di Paolo IV contro personaggi come Morone e Sanfelice.
Il G. si era inserito a suo modo nello scontro: sostituendosi a Sanfelice e scrivendo - contro la dottrina della doppia giustizia del Seripando - il trattatello De iustitia Christi diretto al Farnese, che arrivava a Trento, per pochi giorni, nel novembre 1546. Lo scritto era "peraltro un plagio del parere del Salmeron, astiosamente rivolto contro il Seripando" (Firpo - Marcatto, I, p. 268), al quale il G. aggiunse una premessa e sottrasse qualche brano.
Anche in questo caso, come in tutta la sua azione, l'intreccio tra le ambizioni personali, il mantenimento di appannaggi e titoli importanti per il proseguimento della carriera curiale e le grandi questioni della Riforma restano il centro della biografia del Giacomelli. La ragione dello scritto stava infatti soltanto nel tentativo di levigare le sia pur minime contrarietà con il Farnese, temute a causa delle voci di polemiche fatte da Antonio Bernardi della Mirandola - precettore e amico del Farnese - contro di lui; il G. stesso scriveva al cardinal nipote, da Bologna il 18 apr. 1547, del trattatello che "si potrà esser certa […] dalla banda mia esser levata via ogni occasione di non esser bono amico a Messer Antonio della Mirandola" (Concilium Tridentinum, XI, 1937, pp. 174 s.).
La facilità con cui il G. aveva ottenuto la fortemente voluta nomina a commissario del concilio, nonostante l'opposizione del camerlengo di Santafiora Guido Ascanio Sforza, che preferiva Giovanni Michele Saraceno o C. Mussi, depone a favore di una fiducia completa nei suoi confronti da parte del cardinal Farnese e del papa. Prima ancora che lo chiedesse espressamente il G. era infatti già stato indicato per quella carica.
L'intenso rapporto con il fratello Cosimo e con il Farnese consente di leggere nell'azione del G. il ruolo di portavoce delle istanze più profonde del conservatorismo curiale.
Se è vero che il G. e il Grechetto "assediavano il Papa coi loro resoconti e coi loro consigli per evidenti motivi interessati" (Jedin, II, p. 65), è altrettanto vero che tutta l'azione del G. a Trento fu volta a procrastinare la discussione sulla riforma della Curia e che nessun intervento del G. fu mai risolutivo ma fu sempre finalizzato al trasferimento del concilio, alla sospensione delle decisioni o a far prevalere quelle più ostili a ogni sia pur minimo cambiamento. Il G. fu a Trento un tenace rappresentante del partito della traslazione, e nel momento di massimo scontro tra il papa e Carlo V la possibilità si faceva concreta. Le pretese imperiali di finanziare la guerra contro gli smalcaldici con l'alienazione dei beni ecclesiastici e il rischio della supremazia di Carlo V nel concilio orientarono Paolo III verso le decisioni che in effetti il G. gli aveva sempre raccomandato e che ora, nel 1547, erano fatte proprie anche dal cardinale M. Cervini.
La paura del tifo petecchiale, che cominciò a mietere vittime tra i prelati nei primi mesi del 1547, fece il resto, cosicché l'obiettivo di riaprire il concilio in una città dello Stato pontificio fu al momento raggiunto; il G. se ne dichiarò soddisfatto sin da subito e si occupò della sua preparazione logistica. Già in aprile scriveva al Farnese della situazione dei prezzi a Bologna, "rincariti" proprio a causa del concilio, e gli presentava l'organizzazione che stava approntando per sistemare i prelati, per i quali "se usa gran rispecti in pigliar […] allogiamenti per causa di done vidue, povere e sensa homini in casa" (Concilium Tridentinum, XI, p. 175).
La scelta della traslazione fu tenacemente difesa dal G. anche dopo l'arrivo a Bologna, quando nell'inverno 1547-48 maturò la frattura con gli imperiali, da lui affrontata con asprezza e contrastando i tentativi di diplomatica mediazione voluti da G.M. Del Monte. Il G. rasentò invece le conseguenze più radicali, minacciando di morte il procuratore fiscale imperiale Francisco Vargas. Sin dal 1545 Vargas e il G. si erano tenuti vicendevolmente sotto controllo, come si evince dalle lettere del procuratore a Carlo V e al cardinale Nicolas Granvelle; l'urto tra i due raggiunse il culmine all'inizio del 1548. La vicenda acuì l'avversione tra il G. e Del Monte, che dovette occuparsi del caso comunicando a Roma, il 12 gennaio, la denuncia di Federico Fantuzzi, invitato esplicitamente dal G. a fare in modo che il Vargas "fosse buttato in una notte in cesso" (ibid., I, p. 734). Ancora più diretta la versione offerta da Angelo Massarelli al Cervini nella sua lettera del 10 gennaio: "tutta la cosa si resolve in questi due ponti, che esso Mons.r Jacomello habbia detto al Fantuzi, che se volesse far servizio a Nostro Signore, facci ammazare o gittare in fiume esso fiscale Spagnolo" (ibid., XI, p. 347). Da Roma la questione fu risolta rapidamente, perché già il 23 gennaio il cardinal Farnese sosteneva che "in questa strettezza S. S.tà inclina più tosto che Mons.r Jacomello resti costì che altrimenti, quando con effetto si truovi che non habbia errato" (ibid., XI, p. 353), e il 9 marzo i legati confermavano questa posizione, difendendo il G. dalle accuse.
Il sostegno di cui il G. ancora godeva in Curia era dunque elevatissimo, come dimostra anche il fatto che in quegli anni egli risultava sempre molto ben pagato dallo Studium Urbis: nel 1548 riceveva 850 e 283 fiorini (nel 1549 diventati 383) rispettivamente per gli insegnamenti di filosofia ordinaria e teologia, che però non esercitava. La segnalazione in J. Carafa del nome del G. tra i professori dell'Università romana in anni in cui si trovava impegnato nel concilio ha indotto G. Alberigo a ritenere che nella confusione dei molti Giacomelli presenti nei Ruoli accademici ci fosse un errore. Tuttavia anche in seguito il G. dovette ricevere stipendi dall'Università senza esercitare l'insegnamento, se Morone, negli anni in cui fu protector della Sapienza, lo esonerò proprio per tale ragione.
A Bologna intanto il G. si trovava impegnato, dal giugno all'ottobre 1547, nelle congregazioni sulla penitenza e sui sacramenti, collocandosi genericamente tra i fautori del divieto totale delle oblazioni, tanto della richiesta quanto della loro accettazione. Più circostanziata la sua posizione sul matrimonio, distinto in cristiano e "comune" (ibid., VI, p. 427) e ritenuto legittimo e sacramentale solo se caratterizzato dalla fedeltà, dall'intervento della Chiesa e dall'approvazione dei genitori.
Nelle ultime congregazioni cui partecipò, una volta che il concilio era stato nuovamente riportato a Trento, si occupò ancora di penitenza e di confessione, condannando globalmente tutti gli articoli proposti il 15 ott. 1551, che aprivano alle concezioni teologiche protestanti, mutuando la negazione del principio della penitenza come mezzo di riconciliazione dalla Institutio di Calvino e dai testi di F. Melantone. Il voto del 10 novembre fu uno degli ultimi atti del G. nelle congregazioni conciliari.
Chiuso il secondo periodo trentino e lasciato con un pensionato di 200 scudi il vescovato di Belcastro al nipote Cesare il 23 genn. 1553, del G. non sembra esserci notizia fino al 1558; del resto per tutto il pontificato di Giulio III Del Monte è plausibile ipotizzare un suo allontanamento dagli ambienti curiali, spiegabile con l'ostilità e l'insofferenza personale che tra i due era sempre esistita.
Il ritorno alla luce del nome del G. è legato al processo del tribunale del S. Uffizio che Paolo IV volle infliggere al cardinal Morone; dopo la sua prima deposizione, a Roma era di dominio pubblico che il G. e il Grechetto fossero "li testimoni più contrarii al processo contra Morone" (Firpo - Marcatto, II, p. 172). Interrogato da Tommaso Scotti da Vigevano il 18 e il 29 sett. 1558 (risulta sessantenne nelle registrazioni di queste investigazioni), il G. parlò delle discussioni teologiche avute con il Morone a Trento, sin dal 1543, sulla grazia e il libero arbitrio, accusando esplicitamente di eresia e luteranesimo Morone, il vescovo di Chioggia Giacomo Nacchianti, C. Madruzzo e chiamando in causa il vescovo di Orte Scipione Bongalli come testimone. La mancata conferma, da parte di quest'ultimo, della versione del G. e l'astio personale contro il Morone, aggravato dalla sospensione dei 400 scudi di stipendio dell'Università, furono gli argomenti con cui gli avvocati della difesa ricusarono il G.; lo stesso fece il Morone nella sua Protestatio del 7 ott. 1557. Pochi mesi dopo, il 27 genn. 1559, il G. moderava la sua deposizione, aprendo alcuni margini di dubbio rispetto alle precedenti dichiarazioni: con il Morone aveva parlato solo prima del concilio e nulla di certo poteva dire sul dopo; la stessa versione fu offerta nell'ultima sua deposizione, il 20 marzo, quando fu lui stesso a voler essere nuovamente interrogato.
Si trattava di una parziale correzione del giudizio, probabilmente dovuta alla testimonianza di S. Bongalli o all'incertezza dello stato di salute di Paolo IV, malato di idropisia, la cui morte avrebbe potuto, come in effetti fu, permettere l'assoluzione del Morone.
Contro quest'ultimo il G., evidentemente tornato a Roma, ebbe ancora il tempo di presentare ricorso ai Conservatori il 10 ott. 1559 per riavere lo stipendio dello Studio; il 18 nov. 1559 poté sporgere querela contro una squadra di armati che era penetrata in una vigna di sua proprietà, sita nei pressi di porta Maggiore, per rubare legna e frutta. Dopo di ciò il suo nome sembra scomparire dalla documentazione, lasciando presumere che la morte sia avvenuta intorno al 1560.
Opere: Roma, Biblioteca nazionale, 68.13.D.68: In novam quandam Antonii Mirandulani de praedicamentis opinionem responsis, Romae, apud Antonium Bladum Asulanum, 1542; Bibl. apost. Vaticana, Cod. vat., 3667: De iustificatione. Questio episcopi Iacomelli Romani de iustitia Christi, quam appellant imputatam, ad Alexandrum Farnesium, cardinalem amplissimum; Milano, Biblioteca Ambrosiana, O.172, cc. 44r-65r, pubblicato in V. Schweitzer, Concilium Tridentinum, XII, Friburgi Brisgoviae 1930, pp. 703-714 n. 113, datato circa 16 nov. 1546.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Senatore, 1161/1, cc. 147 s.; Concilium Tridentinum, I-II, Diariorum, a cura di S. Merkle, Friburgi Brisgoviae 1901-11; IV-V, Actorum, a cura di S. Ehses, ibid. 1901-11; VI, Actorum, a cura di S. Merkle, ibid. 1950; VII, Actorum, a cura di A. Postina - S. Ehses, ibid. 1961; X-XI, Epistolarum, a cura di G. Buschbell, ibid. 1916-37; XII, Tractatuum, a cura di V. Schweitzer, ibid. 1930, ad indices; I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787: i Rotuli e altre fonti, a cura di E. Conte, I, Roma 1991, pp. 7, 10, 14, 17 s., 21, 23; J. Carafa, De professoribus Gymnasii Romani, Romae 1751, pp. 333, 454 s.; F.M. Renazzi, Storia dell'Università degli studj di Roma…, II, Roma 1804, pp. 100, 103, 246, 248; N. Spano, L'Università di Roma, Roma 1935, ad indicem; L. von Pastor, Storia dei papi, V-VI, Roma 1959-63, ad indices; G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento, Firenze 1959, ad indicem; H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, I-III, Brescia 1949-73, ad indices; M. Firpo - D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I-III, Roma 1981-85, ad indices; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma, Bologna 1992, pp. 142, 183 s.; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, XLIV, pp. 128, 130; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica…, III, Monasterii 1923, p. 130.