DIEDO, Giacomo
Nato a Venezia l'11 sett. 1684 da Marcantonio ed Elisabetta Battaglia, studiò umane lettere ed eloquenza con il canonico Felice Dalla Costa, scienze e filosofia col somasco Francesco Caro, geometria, matematica, nautica, architettura con Andrea Musolo. Per tutta la vita alternò l'amore per la poesia, gli studi classici e le scienze all'impegno politico-amministrativo consueto di un patrizio veneziano: una regolare carriera lo vide senatore, savio di Consiglio, inquisitore di Terraferma sopra li pubblici debitori, savio alla Mercanzia, membro del Consiglio dei dieci. Delle sue propensioni umanistico-letterarie e dei paralleli interessi scientifici sono testimonianza un inedito volume di poesie, di prevalente argomento filosofico-morale, e una raccolta, pure inedita, di ragionamenti filosofici sulle proprietà dei corpi animati ed inanimati. Lunghe fatiche dedicò negli ultimi anni della vita alla Storia della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino l'anno MDCCXLVII (I-II, Venezia 1751), pubblicata senza l'ultima rifinitura (una ristampa veneziana in sette tomi del 1792-93 reca il sottotitolo Proseguita da dotta penna fino all'anno 1792, ma in realtà si ferma al 1750).
È una tradizionale storia politico-diplomatica, fortemente ancorata ai "miti" e valori del patriziato e attenta ai problemi più vicini all'esperienza politica del D. e alla realtà di Venezia nella prima metà del '700. In un rigido ordine annalistico, il D. alterna la descrizione degli eventi più importanti della politica estera con notizie sull'evoluzione costituzionale: largo spazio hanno le guerre con Genova e per l'egemonia italica, le conquiste orientali, i conflitti coi Turchi, con una crescente dilatazione di particolari a mano a mano che ci si avvicina all'epoca contemporanea; così molto dettagliata è l'esposizione delle ultime guerre con l'Impero ottomano, 1684-1699 e 1713-1719, e di tutte le vicende politiche europee del primo '700, segnate dalla rigorosa neutralità veneziana. La Storia si apre con una tradizionale descrizione delle origini di Venezia, idealizzata come un primigenio governo fondato sulla "giustizia", la "moderazione", l'ambizione ad un "proporzionato Dominio o di popoli venuti volontariamente alla sua obbedienza, o di Stati aggiunti al suo imperio con giusta ragione di guerra contro chi tentava di usurparle i propri" (I, pp. 2 s.). Il D. non sorvola sugli episodi tristi o cruenti del Medioevo veneziano: ricorda la morte violenta di Pietro Candiano, reo di aver "con suo tirannico imperio tentato di togliere la libertà a' cittadini" e che "ha dovuto servir d'esempio colla sua morte a coloro, che innalzati dalla fortuna a condizione distinta, trascurata la strada de' moderati consigli, credono di stabilire sopra la violenza il possesso di permanente grandezza" (I, p. 38). Dalla prediletta politica estera torna alle vicende interne solo nei momenti critici della lotta per il potere: l'economia, la cultura, la religione, sono pressoché assenti dalla sua Storia. La congiura del 1310 gli offre l'occasione per introdurre il dibattito, sempre ricorrente a Venezia, sui limiti del potere del Consiglio dei dieci, del cui ruolo è rigido e lucido difensore: nato occasionalmente per reprimere quella congiura, "fu più volte soggetto a varie vicende, perché abborrito, e temuto da coloro, che bramavano impunite le colpe, e non corretta la licenza de' propri errori; fu però coll'esperienza conosciuto così necessario alla sicurezza comune, che senza interruzione fu di anno in anno nuovamente eletto, e come unico mezzo a mantenere la quiete nella città e nello stato, fu colla maggiore gelosia conservato nella sua autorità" (I, p. 116). Ostile in genere ai "torbidi" che promuovono "novità", il D. torna sull'argomento in occasione della correzione del 1582, sposando apertamente l'opinione dei fautori della zonta, anche se poi tace prudentemente sulla sua mancata elezione: anche nel 1628 vede con favore l'azione degli "uomini più avveduti", dei "buoni cittadini, che apprendevano la riforma esibita nelle Repubbliche per regolazione, poter facilmente degenerare in cambiamento di governo, ed in scandalosa licenza" in opposizione ai "concetti torbidi" di pochi novatori. Totale è la sua adesione alla versione ufficiale della Repubblica su alcuni eventi nodali, eroici o tormentati, della sua storia secolare; così non mancano puntuali giudizi negativi su Giulio II, "infesto a' Veneziani", largo spazio alle ragioni veneziane nella vertenza dell'interdetto (ma senza mai nominare Sarpi!) e una decisa condanna dei patrizi che vengono meno ai doveri di lealtà verso lo Stato, come quel bailo Girolamo Lippomano, il cui "caso strano", ma eloquente, mostra "l'insussistenza e vanità de' titoli speciosi, allorché le prerogative di tal sorta non siano accompagnate dalla purità dell'animo ... avendo oscurato con detestabile errore le azioni tutte di sua vita, per le quali si era meritato onoratissimo nome" (II, p. 365).Il D. morì a Venezia il 12 maggio 1748.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd. I, St. veneta 19: M. Barbaro - A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, III, ad vocem; [Anonimo, ma forse Paolo Bernardo o p. Anselmo Costadoni], Elogio di G. D. senator veneto, premesso, senza numer. di pagine, alla Storia della Repubblica di Venezia; G. A. Moschini, Della letteratura veneziana del sec. XVIII fino a' nostri giorni, Venezia 1806, p. 172; E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, p. 413; G. Natali, Il Settecento, I, Como1960, p. 407; P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenzc 1975, p. 408.