DELLA TORRE, Giacomo (Iacobus a Turre, de la Turre, Dalla Torre, de Forlivio, Forliviensis, Foroliviensis, Ferolivias)
Nacque a Forlì tra il 1360 e il 1362 da Pietro, "artium et medicinae doctor", di nobile famiglia, e Tisia, figlia di Pietro degli Azzoli, nobile forlivese.
La famiglia paterna, a Forlì da parecchie generazioni, discendeva da Andrea, padre di Giovanni, nonno del Della Torre. Oltre a lui, il padre ebbe altri due figli, Guido e Andrea.
Il D. compì gli studi di arti e medicina probabilmente a Padova, dove ebbe come maestri Bartolomeo Colonna e Iacopo Avogari (così afferma il Marchesi, ma il Colle lo mette in dubbio). I biografi non concordano sul curriculum d'insegnamento, diviso tra Padova, Bologna e altre città. Tra il 1383 e il 1385 risulta come lettore di filosofia a Bologna, ma già negli anni precedenti dovette iniziare il suo insegnamento a Padova, dove comunque tornò sul finire del Trecento su invito dei Carraresi, che per dar lustro allo Studio vi chiamarono molti professori di fama. In effetti nel 1400 viene citato come "lector in Studio Paduano medicorum" e fu promotore dei dottorati di parecchi allievi, tra cui Antonio da San Severo, Cristoforo Manfredini e Tommaso da Recanati, per supplire eventuali assenze dei professori. All'inizio del Quattrocento, verosimilmente tra il 1402 e il 1404, risulta come docente di arti e medicina a Ferrara, insieme con Marco da Forlì, ma, se non si tratta di un omonimo, si potrebbe trattare di presenze saltuarie, dato che in quegli stessi anni è ricordato sia a Padova sia a Bologna.
Nella città veneta la sua presenza è testimoniata da una lite del 1402 con il collega Bartolo Squarcialupi e dai dottorati di parecchi allievi, come Nicolò Albertini, Davino Nogarelli, Giovanni da Pera e Pietro Tomasi. Si hanno inoltre testimonianze sulla sua presenza saltuaria a Forlì nel 1391, 1396 e 1397-99 per comprare delle terre e per testimoniare su varie questioni, nonché per curarvi il vescovo Scarpetta Ordelaffi. Tra il 1404 e il 1407 fu attirato a Siena con uno stipendio di 650 fiorini l'anno e la condizione, a suo favore, di non avere un concorrente cittadino (per ogni cattedra vi erano due docenti, uno salariato e uno no); vi insegnò medicina ordinaria de mane, dopodiché fu richiamato alla cattedra di medicina teorica di Padova con lo stipendio di 600 ducati.
Ma avrebbe voluto tornare a Siena, come testimonia una sua lettera in cui, dichiarando di esser stato "verum amicum Senensium et non deceptorem" (Padova, Bibl. univers., cod. 201, c. 25r), chiama i suoi allievi a testimoni della sua devozione alla città. È certo che, sia per la scarsa precisione dei repertori biografici sia per la presenza di omonimi, le notizie sugli spostamenti del D. risultano molto confuse e contraddittorie, come rilevava già il Tiraboschi, prendendo spunto da tali inesattezze per chiedersi a quali documenti si debba dar fede, e rammaricandosi che neppure quegli scrittori che potevano disporre dei documenti originali fossero stati precisi nel riportare i dati.
Figura esemplare dell'aridità della cultura aristotelica a Padova tra il XIV e il XV sec., come altri suoi colleghi (Biagio Pelacani, Gaetano da Thiene, G. Marliano) ebbe un certo seguito fra gli studenti, e molti allievi e amici come Paolo Veneto e Biondo Flavio lo ricordano con ammirazione nelle loro opere. Michele Savonarola, Antonio Guainerio, Gasparino Barzizza, Cristoforo Manfredini e altri ne esaltarono la sapienza che, al di là degli elogi d'obbligo, dovette essere profonda, se a lui pensò lo Studio di Siena per rinnovare l'insegnamento della medicina e per avvicinarsi al modello padovano. Per la sua competenza fu consultato sulla famosa questione del ritrovamento del cadavere di Livio, sorta a Firenze tra alcuni umanisti; egli dimostrò, contrariamente a quanto affermavano certi avversari, che si trattava del cadavere di un uomo, non di una donna. Ma l'esemplarità del suo insegnamento è testimoniata soprattutto da due decreti, del 1465 e del 1531, degli statuti dell'università padovana, dove si afferma che i professori di medicina pratica dovevano seguire i suoi metodi e l'ordine degli argomenti da lui proposti nella lettura di Galeno. Oggetto della sua attività di commentatore non furono solo le opere di Galeno, ma anche quelle di Ippocrate, di Avicenna, di Aristotele, e anche se medici e filosofi come Achillini, Brasavola e Pomponazzi discordarono su singole conclusioni delle due opere, per parecchio tempo esse fecero scuola ed egli fu considerato un'autorità indiscussa, anche perché rispetto ai classici non assunse un atteggiamento di servile accettazione, ma cercò di porli in accordo con l'osservazione dei fatti. Tra le sue numerose opere, tutte legate all'insegnamento (perciò era chiamato l'"arcidottore"), è fondamentale In aphorismos Hippocratis expositiones cum quaestionibus, contenuta in un manoscritto della Biblioteca comunale di Siena (L. VII. 1), scritto nel 1470 da A. Sermoneta, e in un incunabolo del 1473 senza luogo di edizione (ma Venezia, presso Bartolomeo da Cremona: cfr. Indice generale delle Biblioteche d'Italia [indi: I.G.I.], III, n. 4977), di cc. 136 in 4º grande su due colonne per pagina.
Il D. afferma d'aver voluto in essa mantenere la strutura per aforismi "ad faciliter scibilia medicine memorie commendandum". Dopo alcuni precetti di etica professionale e di carattere generale (come si acquista l'arte medica, se ad essa basti la durata della vita, confronto tra la vita umana e quella animale), vengono riportati in diverso carattere tipografico gli aforismi, cui seguono i relativi commenti. Essi non si limitano a precetti generali, ma affrontano le caratteristiche speciali delle singole infermità: prima di tutto le perturbazioni intestinali e il vomito, con i relativi rimedi purgativi; si tratta poi delle diete e dell'alimentaziona dei malati, secondo le età, le condizioni fisiche, le stagioni; particolare attenzione viene dedicata al decorso delle malattie, ai periodi di crisi, alle febbri, alle reazioni delle diverse costituzioni fisiche al male (dissenteria, spasimi, sudorazione ecc.). L'ultima delle cinque "particulae" in cui è divisa l'opera è dedicata a considerazioni ginecologiche. Manca una conclusione generale (l'ultimo argomento trattato è la podagra). Strutturata con l'andamento tipico dei commentari dell'epoca, per definizioni, corollari, rimandi, suddivisioni in "quaestiones" minori, quesiti ("quaeritur utrum..."), "conclusiones", quest'opera ebbe diverse edizioni successive: Padova, presso Johann Herbort, 1477 (cfr. I. G. I., n. 4978), emendata da Bertoldo Massari (questo editore di Seligenstadt pubblicò diverse opere del D., anzi iniziò la sua produzione proprio con Super tres libros Tegni Galieni del 1475); Papiae 1485 (Hain, Repertorium...,n. 7249), e 1512, emendata da Francesco de Bobbio; Venetiis 1490 (I.G.I., n. 4980); ibid. 1495, cum additionibus Marsilii de Sancta Sophia, emendato da Gerolamo Suriano da Rimini (I. G. I., n. 4981); ibid. 1547 col tit. Super aphorismos Iac. Foroliviensis in Hippocratis aphorismos et Galeni super eiusdem commentarius, insieme a Marsilio di Santa Sofia, Interpretationes in eos aphorismos qui a Iacobo expositi non fuerant.
Altra opera significativa è il cit. Super tres libros Tegni Galieni, Patavii 1475 e 1477, Papiae 1487, Venetiis 1491, 1495 (cfr. I.G.I., nn. 4992-96) sui primi tre libri della Τέχνη sive Ars parva di Galeno, emendata da Pietro Roccobonelli, docente a Padova; un'altra edizione padovana del 1475 fu emendata da Cristoforo da Recanati, mentre un'edizione pavese del 1487 lo fu da Gerolamo Duranti; nel 1491 a Venezia uscì lo Scriptum super Tegnis Galieni che si occupa solo del primo libro. Un incunabulo raro dell'Herbort è anche De intensione et remissione formarum, Patavii 1475, poi Tervisi 1480 (I.G.I., n. 4991; ne esistono anche due manoscritti, uno del 1460 nella Biblioteca Gregoriana del Seminario di Belluno, cod. 33, cc. 3477, e uno della Biblioteca universitaria di Padova del 1468, cod. 924), con una esposizione di Gaetano da Thiene e un'opera omonima di R. Suiseth. Poco più di un commento esplicativo è l'Expositio in Avicennae capitulum de generationeembrionis ac de extensione graduum formationis foetus in utero, Papia 1479, Senis 1485, Venetiis 1489 (I.G.I., nn. 4988-90), 1502, 1518 (con due analoghi trattati di Dino e Tommaso del Garbo), opera citata con ammirazione da Berengario da Carpi, ma dallo Sprengel giudicata ridondante "delle più assurde e scipite sottigliezze" (p. 306). In essa il D. sostiene, riprendendo affermazioni di Dino del Garbo, che i bambini nati all'ottavo mese non possono sopravvivere perché sono sotto l'influenza di Saturno, divoratore dei figli; sopravvivono in tale opera elementi astrologici derivati da Avicenna, al quale è dedicato anche l'altro commento Super primum librumCanonisAvicennae, s. n. t. e poi Mediolani 1472 (I.G.I., nn. 4982 s.), ristampato col De urinis di A. Cermisoni, Venetiis 1479 (n. 4984), col De malitiacomplexionis diversae di Ugo da Siena, Papiae 1488 (n. 4985), 1512, Venetiis 1495 (n. 4986) e, arricchita dall'Expositio di Iacopo de Partibus, a Venezia nel 1500 (n. 4987). Al D. vengono inoltre attibuite altre opere (De reactione, De necessitate medicinarum, Quaestiones philosophicae, Quaestiones astronomicae, Orationes, commenti ad Aristotele) per lo più di scarso rilievo.
È tuttavia significativa la diffusione degli scritti del D. anche fuori dell'ambiente padovano; ancora nell'Ottocento li si considerava d'importanza non secondaria per il tentativo di rifondare la medicina come scienza, rifacendosi direttamente ai grandi medici antichi, ma sapendo a volte da loro prendere le distanze (ad es. egli dissente da Avicenna a proposito del sito di origine dei nervi nel cervello) e rifiutando certe false credenze medievali. In effetti il D. studiò il greco per avvicinarsi ai testi originali, ma non giunse ad una conoscenza approfondita, per cui si servì, ad esempio, della traduzione degli Aforismi d'Ippocrate di Costantino Africano.
Sposatosi con Margherita, figlia di Nereo Coltrari da Forlì, che in dote gli portò vasti possedimenti, aumentò il suo già cospicuo patrimonio terriero; nel 1410,forse per risarcire un'obbligazione precedente, il nobile padovano Paolo Dotti gli cedette una parte del suo feudo. Sia per le terre ereditate dal padre sia per quelle acquistate in seguito, egli divenne un ricco proprietario, condizione che aveva in comune con altri docenti del tempo, come Galeazzo di Santa Sofia, suo collega a Padova e suo vicino di terre, Giacomo dell'Orologio, Bono dal Fiume ecc. Pare tuttavia che fosse piuttosto avido di ricchezze, anzi la sua inquietudine, che lo portò a cambiare frequentemente sede di insegnamento, viene spiegata anche con il suo desiderio di ricevere uno stipendio più alto. Nel 1412 progettava di passare ancora all'università di Parma per essere pagato di più, concluse dei patti che non mantenne, suscitando le ire del marchese Niccolò III d'Este, signore di Parma dal 1409; questi avrebbe addirittura chiesto la sua testa, ma l'intervento di Venezia, al fine anche di salvaguardare l'onore dello Studio padovano, di cui il D. era considerato un elemento di prestigio, valse ad impedire che la situazione volgesse al peggio. Da poco aveva anche ottenuto la cittadinanza padovana.
Dal matrimonio il D. non ebbe figli, e il suo desiderio di averne lo spinse a cercare inutilmente un rimedio medico contro la sterilità. Alla fine decise di adottare Francesco Pontiroli: questi, nato nel 1394 a Forlì e divenuto uno dei patrizi di Padova, fu membro del Consiglio del Comune ed ebbe altre cariche onorifiche. Nel 1417 Francesco sposò Cortesia, figlia di Enrico Trapoin, e si diede ad una tranquilla vita di proprietario terriero. Ma, essendo stato nominato dal D. erede di tutte le sue terre, si trovò in lite con tutti gli altri parenti, che impugnarono il testamento. La lite si trascinò fino al 1416.
Presumibilmente il D. morì a Padova il 12 febbr. 1414,come si può desumere dal testamento e da un manoscritto della Biblioteca nazionale di Firenze (Fondo Conventi soppressi, D. 2. 502), in cui Giovanni Damiani de Dominis, dopo aver trascritto De intensione et remissione formarum, afferma che il D. "1414pridie idus februarii ab hac vita ad superiora migravit".
Non si sa quale fu la causa della morte, ad un'età avanzata, ma si sa che fu curato dal famoso medico Giuliano da Rovigo. Neppure l'orazione funebre pronunziata da Gasparino Barzizza impedì ai biografi di proporre le date più diverse (1412, 1430, perfino 1313), anche per la presenza di diversi omonimi: uno è nominato tra i professori di Padova nel 1290; un altro risulta nominato allo Studio di Firenze dal 1358 al 1365 come "magister Iacobus medicus de Forlivio"; uno Iacobus a Turre di Modena morì nel 1475; uno Iachobus de Forlivio è citato dai Rotuli bolognesi nel 1461-62. Anche la lapide che il figlio adottivo fece dettare a Paolo Veneto e porre sul monumento sepolcrale del D. nella chiesa degli eremitani di Padova recava la scritta "obiit a. D. 1413 die XII februarii" e definiva il D. nuovo Aristotele e nuovo Ippocrate, ma venne lesionata quando, nel 1746, il monumento fu distrutto.
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