GIACOMO da Poirino (al secolo Giovanni Luigi Marrocco)
Nacque a Poirino, presso Torino, il 10 marzo 1808 da Antonio Marrocco, piccolo possidente, e da Giovanna Fabar. Compiute le scuole elementari a Poirino, frequentò il ginnasio a Chieri e, conseguito il diploma, entrò nel convento della Pace dei frati minori riformati di S. Francesco. Terminato il periodo di noviziato, il 21 nov. 1826 vestì l'abito francescano per poi pronunziare (27 nov. 1827) i voti solenni e perpetui e assumere il nome religioso di Giacomo.
Nel novembre 1830 fu destinato al convento di S. Lazzaro in Torino. Il 28 maggio 1831, nonostante non avesse ancora raggiunto l'età richiesta per il sacerdozio, in seguito a dispensa con rescritto apostolico ottenuta per le sue elevate qualità morali e intellettuali, fu ordinato sacerdote e destinato al convento di S. Maria degli Angeli della stessa capitale sabauda. Quando, nel 1834, il convento fu eretto a parrocchia dall'arcivescovo di Torino mons. L. Fransoni, G. fu nominato dai suoi superiori primo vicecurato, carica che per motivi di salute dovette lasciare nel 1840 assumendo quella di guardiano del convento. L'anno dopo fu trasferito al convento di Chieri e successivamente a quello di Cardè. Nel 1849, in seguito a conflitti interni avvenuti nel convento di S. Maria degli Angeli di Torino, gli fu affidata nuovamente la cura di questa parrocchia, in un primo tempo in qualità di viceparroco e, dal 2 sett. 1852, di amministratore in sostituzione del titolare, padre Ignazio da Montegrosso, che, per essersi troppo esposto con le aspre critiche rivolte alla legge sul matrimonio civile, per prudenza era stato messo da parte dalle autorità ecclesiastiche di Torino.
S. Maria degli Angeli era la parrocchia della famiglia Benso di Cavour, e ben presto G. entrò in rapporti di amicizia con i suoi membri, in particolare nel 1854 con il conte Camillo, del quale lo stesso religioso ricorderà molti anni dopo la frequentazione confidenziale e le sollecitazioni avutene per le pratiche caritative in favore dei poveri della città.
Secondo la testimonianza di G. Massari, in seguito all'epidemia colerica che nel 1854 aveva colpito il Piemonte, "il conte, chiamato a sé il padre Giacomo, gli disse: che siccome i ministri potevano essere colpiti dalla malattia, al pari di qualsiasi individuo, a lui premeva molto morire con la consolazione della religione dei suoi padri e con quel frate determinò con serena tranquillità di mente come le cose dovevano succedere, qualora venisse in punto di morte" (Massari, p. 112). Si ignora se questa testimonianza sia veridica o fabbricata a posteriori con l'intento di rendere popolare la figura del Cavour anche negli ambienti cattolici; certo è che sia lo statista sia la classe dirigente piemontese non volevano ripetere lo spiacevole episodio avvenuto nel 1850, quando, avendo l'autorità ecclesiastica rifiutato i sacramenti all'agonizzante ministro P. de Rossi di Santarosa perché non aveva ritrattato, ne erano seguiti alcuni disordini popolari.
Che fra lo statista e il religioso corressero rapporti di collaborazione e di fiducia lo dimostra anche la delicata missione di carattere diplomatico presso la S. Sede affidata dal Cavour a G. nel 1856, in un momento in cui i rapporti tra Chiesa e Stato in Piemonte erano assai tesi a causa della politica ecclesiastica del governo di Torino e, in particolare, della pubblicazione l'anno prima della legge sulle corporazioni religiose. Approfittando del fatto che il religioso si doveva recare a Roma per affari relativi al suo ordine, il Cavour l'aveva incaricato, come scriveva egli stesso al card. F. Gaude il 20 ag. 1856, di "richiedere l'insigne favore di una particolare udienza al Santo Padre, onde far conoscere a S. S. il vero stato della religione da noi, chiarendolo con quei fatti che nessuno meglio del capo di una delle più cospicue parrocchie è in caso di raccogliere ed accertare". Le cose tuttavia andarono diversamente da quanto auspicato dal Cavour. Il card. Gaude in quel periodo era assente da Roma e non poté prestare al religioso alcun sostegno in Vaticano, tanto più che, come scriveva il 26 maggio 1856 allo stesso G., era fermo "nella dolorosa convinzione" che per allora non vi fosse alcuna speranza di accordo tra Chiesa e Stato (Mayor, p. 404). Forse in quella occasione Pio IX non concesse udienza al religioso, a meno che quest'ultimo commettesse un errore di memoria, quando in un colloquio avvenuto dopo la morte di Cavour ricordò al nunzio a Torino, mons. G. Tortone, che in un'udienza del 1857 (e non dell'anno precedente) il papa aveva annuito all'ipotesi che potessero essere amministrati i sacramenti a un moribondo anche se colpito da scomunica (Pirri, II, 2, p. 267).
Tale eventualità si verificò nel giugno 1861, in occasione della morte del Cavour, e vide G. protagonista di una vicenda che, se fu marginale rispetto a quella ben più drammatica della precoce scomparsa dello statista, ebbe i suoi clamori anche diplomatici e segnò fortemente il resto della sua vita. Il 5 giugno 1861 il Cavour, ormai vicino alla fine in seguito alla grave malattia che lo aveva colpito il 29 maggio, fece chiamare al suo capezzale G. e, secondo una tarda testimonianza dello stesso religioso, prendendogli la mano gli disse: "Caro amico, ci lasciamo […] Ella ben sa […] che io sono cattolico e voglio morire da vero cattolico, anzi vorrei che si pubblicasse su tutti i giornali che io ho spontaneamente chiesto i sacramenti e che voglio morire da vero cattolico" (Mazziotti, p. 134). Il giorno dopo G. impartì con animo commosso l'estrema unzione allo statista nonostante la scomunica lanciata da Pio IX il 26 marzo 1860 "contro gli usurpatori dello Stato Pontificio, i loro mandanti, fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti", senza chiedere alcuna dispensa ai suoi superiori e la solenne ritrattazione da parte del moribondo, come gli imponevano i suoi doveri verso la Chiesa. Erano presenti al capezzale del Cavour, oltre al religioso, alla nipote, marchesa Giuseppina Alfieri di Sostegno, e a diversi altri familiari, anche i suoi maggiori collaboratori - M. Castelli, L.C. Farini, I. Artom - i quali hanno lasciato dell'episodio una versione sostanzialmente concorde con la testimonianza di Giacomo da Poirino.
Nei giorni successivi alla morte del Cavour la stampa clericale, ritenendo che lo statista avesse adempiuto alla ritrattazione, diede molta risonanza alla vicenda. In questo senso si espressero l'Armonia e, sulla sua scia, la Gazette de France e altri giornali italiani e stranieri. La notizia della ritrattazione fu invece smentita da Gustavo di Cavour, fratello dello statista, in una lettera del 26 giugno alla redazione del giornale Les Nationalités, e ciò indusse la stampa cattolica ad attaccare apertamente G. per avere agito senza tenere conto dei suoi obblighi ecclesiastici: la rivista dei gesuiti arrivò addirittura a pubblicare una lettera, datata 13 giugno 1861, del parroco titolare di S. Maria degli Angeli, Ignazio da Montegrosso, in cui si qualificava G. "uno dei rivoluzionari protetti dal Cavour, credo meno ingenui del Gavazzi, di fra Pantaleo e simili" (Civiltà cattolica, s. 4, XL [1861], p. 97).
Sollecitato a un chiarimento dal card. G. Antonelli, segretario di Stato vaticano, il nunzio Tortone non sciolse tutti i dubbi in proposito ma, pur deplorando l'atteggiamento tenuto da G. alla vigilia e dopo la morte del Cavour, affermò che la condotta del religioso "fu però qui ravvisata, dalle stesse persone più eminenti per pietà e per dottrina, come una disposizione di Dio onde preservare il clero da una sanguinosa strage, la quale si sarebbe resa inevitabile, per opera del noto partito, qualora la Curia arcivescovile avesse proibita la sepoltura ecclesiastica alle spoglie del Conte Cavour, nel caso che il medesimo prima di morire non avesse voluto fare una ritrattazione di quanto da lui si operò contro la Chiesa" (Pirri, II, 2, p. 265). Successivamente l'arcivescovo di Torino L. Fransoni, che durante la malattia e i funerali del Cavour si trovava a Lione, stigmatizzò in una relazione inviata a Roma la "deplorabile condotta" di G., il quale di fronte alle insistenze del vicario generale dell'arcidiocesi di Torino, che l'aveva interrogato in proposito, pur confermando implicitamente la mancata ritrattazione del Cavour, si era mostrato alquanto reticente.
Attraverso il generale dei minori riformati, padre Bernardino Trionfetti da Montefranco, G. fu invitato a Roma per comunicare personalmente al papa la propria versione dell'accaduto. Tale passo mise in allarme il governo italiano, che temeva ritorsioni ai danni del religioso. In questo senso il presidente del Consiglio B. Ricasoli, probabilmente su sollecitazione di Gustavo di Cavour a cui si era rivolto G., decise di esercitare una sorta di protezione verso quest'ultimo, dando disposizione al console sardo a Roma, conte F. Teccio di Bajo, di esercitare le opportune pressioni sul governo pontificio nel caso di un arresto del religioso.
G. giunse a Roma il 23 luglio 1861 e, ancor prima di prendere alloggio al convento di S. Maria in Aracoeli dove l'attendeva il generale del suo ordine, si recò dal console sardo per avvertirlo del suo arrivo e mettersi sotto la sua protezione. Il 24 luglio fu ricevuto in udienza da Pio IX, che subito gli chiese se il Cavour prima di confessarsi avesse pronunciato una ritrattazione; G. rispose che nessuna condizione era stata posta per la somministrazione dei sacramenti e, all'incalzare del papa, aggiunse di avere agito secondo la sua coscienza. Nei giorni successivi G. fu ascoltato anche dal S. Officio e, il 31 luglio, una seconda volta da Pio IX, ma non aggiunse nulla di nuovo a quanto già rivelato. Le autorità ecclesiastiche - forse anche per il clamore sollevato sul caso dalla stampa liberale non solo italiana - nei primi di agosto permisero che il religioso lasciasse Roma con l'interdizione a esercitare il ministero della confessione. Al ritorno a Torino, per ordine dell'arcivescovo Fransoni e della S. Sede il vicario generale lo privò anche della carica di parroco di S. Maria degli Angeli (4 sett. 1861).
In G. l'amarezza per queste disposizioni fu in parte lenita dalla croce dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro che il governo di Torino gli concesse per la sua devozione all'Italia. In seguito alla soppressione delle corporazioni religiose con la legge del 7 luglio 1866, per la benevolenza delle autorità locali nei suoi confronti poté continuare a occupare due piccole camere nel convento di S. Maria degli Angeli. Nel 1881 Leone XIII gli concesse nuovamente la facoltà di confessare e G. poté così chiudere dopo vent'anni un lungo e amaro capitolo spirituale della sua vita.
Morì dimenticato da tutti a Torino, il 30 sett. 1885. Il suo ricordo fu per molti anni tramandato soltanto dalla lapide nel cimitero di Poirino, dove fu sepolto il 2 ottobre dello stesso anno.
Fonti e Bibl.: H. d'Ideville, Journal d'un diplomat en Italie, Rome 1859-1862, Paris 1872, pp. 196, 199 s.; G. Massari, Il contedi Cavour, Torino 1873, p. 112; M. Castelli, Ricordi(1847-1875), a cura di L. Chiala, Torino 1888, p. 135; Carteggio politico di M. Castelli, a cura di L. Chiala, I, Torino 1890, p. 362; Lettere e documenti del barone B. Ricasoli, a cura di M. Tabarrini - A. Gotti, VI, Firenze 1891, pp. 77-83; Nuove lettere del conte Camillo di Cavour, con prefaz. e note di E. Mayor, Torino-Roma 1895, pp. 402-404; M. Mazziotti, Il conte di Cavour e il suo confessore.Studio storico con documenti e carteggi inediti, Bologna 1915; Ministero degli Affari esteri, I documenti diplomatici italiani, s. 1, I, Roma 1952, pp. 313, 364; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, I, La laicizzazione dello Stato sardo. 1848-1856, con prefaz. di G. Martina, Roma 1980, pp. 141 s., 238-242; II, La Questioneromana. 1856-1864, ibid. 1951, 1, pp. 392-403; 2, pp. 263-280; C. Cavour, Epistolario, XIII, 1856, a cura di C. Pischedda - M.L. Sarcinelli, Firenze 1992, pp. 697-699; G. Leti, Roma e lo Stato pontificio dal 1848 al 1870, II, Ascoli Piceno 1911, p. 105; G. Masera, Il confidente spirituale di Cavour, in La Lettura, XXVII (1927), pp. 427-432; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, III, 1854-1861, Roma-Bari 1984, ad indicem; G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma 1986, pp. 95, 104, 145; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XXVI, coll. 723-725 (G. Martina).