BIRAGO, Giacomo Antonio
Nacque a Milano in data imprecisata, probabilmente nei primi anni del sec. XVI, da Cesare e Laura Francesca Della Torre.
Diversamente dai fratelli Ludovico, Carlo e Girolamo, militari al servizio della Francia e perciò banditi dallo Stato di Milano, il B. restò in patria, abbracciò la carriera ecclesiastica ed entrò in possesso dei benefici ecclesiastici in patronato della famiglia. Abate commendatario di S. Vincenzo in Prato di Milano e di S. Albino di Mortara, conseguì anche il protonotariato apostolico, conferito tradizionalmente agli ecclesiastici della famiglia, e come protonotario viene sempre indicato nelle fonti.
Il B. fu il solo figlio di Cesare che, restando a Milano, dove il padre era rientrato col fratello Galeazzo dopo anni di esilio nel 1526, si sottomise al governo imperiale per salvare alla famiglia almeno i benefici ecclesiastici di suo patronato. Le stesse ragioni di natura schiettamente patrimoniale avevano determinato del resto il suo ingresso nella carriera ecclesiastica, il corso della quale denuncia l'assenza di una sia pur minima vocazione religiosa. Ecclesiastico concubinario, dedito a una pratica di vita tutta mondana, il B. seppe sfruttare assai bene la sua appartenenza a un consorzio famigliare diviso nelle simpatie politiche tra Francia e Spagna, ma compatto nella tutela dei propri particolari interessi. Con ben tre fratelli nell'esercito francese del Piemonte non poteva riuscirgli difficile procurarsi notizie di importanza politica e militare da trasmettere dietro lauti compensi al governo dello Stato di Milano.
Quando e come il B. abbia iniziata questa poco ecclesiastica attività la documentazione attualmente disponibile non permette di precisare. È noto da testimonianze più tarde che lavorò per il marchese del Vasto e per Ferrante Gonzaga, governatori dello Stato di Milano rispettivamente dal 1538 al 1546 e dal 1546 al 1554. Il comendador mayor de Castilla, don Luis de Requesens, scrisse infatti il 17 apr. 1572 a Filippo II, a proposito di Mario, figlio del B., che "sirvió siempre su padre a Vuestra Majestad como buen vassallo y que le estimaron mucho el marqués del Gasto y don Hernando de Gonzaga (Archivo General de Simancas,Estado, leg. 1235, f. 5). Il predecessore del Requesens nel governo dello Stato di Milano, don Alvaro de Sande, aveva scritto allo stesso Filippo II il 6 dic. 1571: "servia a Vuestra Majestad monsignor de Virago hermano (sic) del presidente Virago y Ludovico Virago, avisando de las cosas de Francia, donde el tenía mucha inteligencia y sele davan cient escudos de penssion cada mes y llamavase el amigo de Turin" (ibid., leg. 1232, f. 70). Il B. faceva frequenti viaggi in Piemonte, dove raccoglieva le notizie di maggiore interesse politico e militare provenienti anche dalla corte di Francia, che mandava a mezzo di avvisi a Milano.
Talvolta il B. si assumeva anche compiti più impegnativi: nella primavera del 1553 don Ferrante Gonzaga aveva saputo che i fratelli Ludovico, Carlo e Girolamo Birago "erano forte mal satisfati de Francesi" e conoscendo per diretta esperienza quanto valessero condottieri come Ludovico Birago, mandò subito in Piemonte il B. col compito di invitare i fratelli ad abbandonare il servizio francese per passare al soldo degli Spagnoli. Senza indugiare, il B. andò a trovare i fratelli, riferì dell'offerta del Gonzaga e fece tutto il possibile per convincerli ad accettarla. I tre fratelli si dichiararono disposti a passare al servizio degli Spagnoli, "volendo Sua Maestà far loro honesta conditione", ma prima Ludovico contava di recarsi in Francia per tentare di "reportar dal re alcuno rimedio a casi suoi". Il B. insistette con Ludovico perché ponesse lui stesso le condizioni per accettare l'offerta del Gonzaga, ma non riuscì ad ottenere un impegno preciso. Di ritorno a Milano non tralasciò di comunicare importanti notizie sui contatti intercorsi tra il principe di Piemonte e i Francesi, che riuscirono particolarmente gradite a don Ferrante, la cui accanita avversione per Emanuele Filiberto era ben nota.
Il Gonzaga avrebbe voluto offrire ai Birago condizioni particolarmente vantaggiose in modo da vincere le perplessità e ottenere la loro adesione, ma la burocrazia imperiale si perse in lungaggini e la cosa finì nel niente. Le trattative furono riprese nell'autunno dell'anno successivo, quando però il governo dello Stato di Milano non era più nelle mani di Ferrante Gonzaga, travolto dagli insuccessi militari in Piemonte e dalle mene cortigiane dei suoi numerosi nemici. Il 30 dic. 1554 il castellano di Milano don Juan de Luna scrisse a corte di aver saputo da un soldato spagnolo già prigioniero dei Francesi che Carlo Birago "stava descontento de Franceses y desseava hablar al castellano", e di aver quindi proposto al B. di riannodare le trattative che erano state già avviate nel corso dell'anno precedente.Ottenuto il salvacondotto, il B. andò a Chivasso e al ritorno riferì a don Juan di aver trovato Carlo ben disposto a dargli ascolto. Il castellano però era interessato all'assunzione al servizio spagnolo di tutti e tre i fratelli Birago e non del solo Carlo, cosicché le trattative s'interruppero di nuovo.
In realtà don Juan non si fidava del B., confidente e uomo di fiducia di quel Ferrante Gonzaga da lui tanto ferocemente avversato, e lo sospettava di fare il doppio gioco. Non era certo il solo a nutrire simili sospetti: il 24 nov. 1554 il principe di Ascoli, figlio del famoso condottiero imperiale Antonio de Leyva, aveva denunciato da Asti a Carlo V il grave pericolo per la sicurezza dello Stato, costituito dalla presenza nel Milanese di tanti Birago sempre pronti a tramare con i loro parenti fuorusciti. Il Gonzaga, al quale mirava essenzialmente l'Ascoli nella sua denuncia, aveva risposto a suo tempo "que los que los favorescen son el gran canceller y los del Senado y que no quyere yr contra la authoridad destos". La denuncia dell'Ascoli rientrava nel quadro della violenta campagna contro don Ferrante orchestrata dal Luna, ma metteva il dito su una piaga reale: era ancora fresco il ricordo della sorpresa di Vercelli del novembre 1553 e dell'ardito tentativo sul castello di Milano del carnevale 1552, entrambi organizzati dai fratelli Birago con la connivenza di amici e parenti rimasti nello Stato. Don Juan, sempre pronto a nuocere il più possibile al Gonzaga che proprio per i suoi intrighi era stato richiamato a corte nel marzo del 1554, non si lasciò sfuggire l'occasione per provare la doppiezza del B. e aggravare così la posizione dello sfortunato protettore. Lo interrogò quindi sull'andamento della guerra in Piemonte e sui progetti militari dei Francesi, ottenendo incaute rivelazioni sull'assedio di Ivrea, caduta il 14 dic. 1554 nelle mani dei Francesi comandati da Ludovico Birago, che lo misero in serie difficoltà. Queste furono aggravate dalla deposizione di un altro agente al servizio degli Spagnoli, il quale accusò esplicitamente il B. rivelando alla presenza del Luna e del contador Francisco de Ibarra "que la yda deste prothonotario a Chivas no fue sino para persuadir a Franceses que veniessen a las tierras del stado, diziendoles que agora era el tiempo, por que todos stavan con mala satisfation" (ibid.).
Al Luna sembrò di avere elementi sufficienti per mettere le mani sul B., e, ottenuta l'approvazione dell'ambasciatore spagnolo a Genova, Gomez Suarez de Figueroa, che aveva sostituito provvisoriamente il Gonzaga nel governo del Milanese, lo fece trattenere agli arresti nel castello. Il B. protestò subito la sua innocenza, chiese di ricorrere a corte dove i suoi passati servizi erano ancora ben noti, e ottenne di ritardare l'inizio del processo fino all'arrivo di precise disposizioni. Mentre il Figueroa informava ufficialmente la corte, la notizia dell'arresto giunse al Gonzaga, che protestò immediatamente, e chiese che il B. fosse sottratto allo zelante castellano di Milano, troppo interessato a provarne la colpevolezza.
L'intervento del Gonzaga, in disgrazia ma sempre autorevole a corte, ebbe efficacia e nel gennaio del 1555 Filippo II dispose: "quanto al prothonotario Virago... que se scriva al embaxador representandole lo que este ha servido y que le saque de las manos de don Juan de Luna y de todos otros que pueden ser sospechos al dicho prothonotario y al señor don Hernando, poniendole en otra parte segura y convenible al respecto que se deve a sus servidores passados, y conforme a lo que se hallara delo que se pretende contra el, commettiendo el examen al presidente y dos senatores con intervention del podestad de Como que es español de manera que este negocio se examine brevemente y sin sospecha dando aviso con toda diligentia delo que se hallare" (ibid., leg. 1205, f. 163).
Questo secco ordine arrivò a Milano ai primi di febbraio e non mancò di suscitare scalpore. Il caso del B. diventava sempre più scottante e investiva tutta la fitta rete di conflitti che dilaniavano la vita pubblica milanese. Non va dimenticato infatti che i Birago erano protetti dal gran cancelliere e dai senatori, cioè da quegli elementi locali dell'amministrazione milanese contro cui si rivolgeva con crescente asprezza la polemica dei Castigliani. È in questo quadro che va intesa la decisione di Filippo II di rimettere il B. al giudizio del presidente del Senato e di due senatori, ai quali, per garantire un certo equilibrio, venne aggiunto uno spagnolo. L'intervento del re cattolico fu dettato tuttavia essenzialmente dal desiderio di dar soddisfazione al Gonzaga, che non si voleva restituire al governo del Milanese, ma neanche avvilirlo nell'onore e nella reputazione, al punto da darla vinta ai suoi nemici anche in questioni di secondaria importanza.
Appena ricevuto il dispaccio del re, il Figueroa dispose per l'immediata esecuzione degli ordini reali. Quale esito abbia avuto il processo e se sia stato iniziato effettivamente, allo stato attuale delle ricerche, non è dato sapere. È lecito tuttavia supporre che la cosa sia finita nel niente e che il B. sia rientrato presto nella sua libertà, a giudicare almeno dalle più tarde testimonianze del de Sande e del Requesens alle quali si è già accennato.
Del B. non si hanno altre notizie, né si conosce la data della morte che dovette cadere non molto tempo dopo, visto che in un documento del 19 apr. 1558 risulta già morto. Da una relazione concubinaria con Costanza Scarpa ebbe quattro figli maschi, Mario, Orazio, Giacomo Antonio e Sagromoro, e tre femmine, Ippolita, Terenzia e Laura.
Fonti e Bibl.: Archivo General de Simancas,Estado, legg. 1204, ff. 78, 86, 89; 1205, ff. 36, 163; 1208, ff. 72, 78, 80, 89, 103, 114; 1232, f. 70; 1235, f. s; Milano, Arch. stor. civ.,Famiglie, cart. 199; P. Litta,Famiglie celebri italiane, Birago di Milano, tav. IV.