GAGGIA, Giacinto
Nacque a Verolanuova, in provincia di Brescia, l'8 ott. 1847, da Giacomo, agiato proprietario terriero, e da Angela Boninsegna. Secondogenito, cresciuto in una famiglia di solidi sentimenti religiosi (ma con la macchia di un prozio paterno, Pietro Gaggia, che aveva lasciato la tonaca per farsi protestante), nel 1861 entrò nel seminario bresciano ove ebbe quale professore mons. G. Bonomelli, all'epoca ancora fautore dell'intransigentismo. Nel 1869, appena ordinato diacono, passò a Roma, presso il Collegio lombardo, per completare gli studi di teologia nell'Università Gregoriana, allievo dei gesuiti G. Perrone, G.B. Franzelin e A. Ballerini, che ne plasmarono la personalità sullo sfondo di eventi quali il Vaticano I e la caduta del potere temporale. Proprio mentre era in corso il concilio, il 2 apr. 1870 il G. ricevette l'ordinazione sacerdotale. La successiva presa della città lo costrinse a sospendere gli studi dopo aver conseguito il solo baccellierato in teologia.
Rientrato a Brescia, sul finire del 1872 fu prescelto come curato in un comune vicino, Capriolo. Vi rimase per tre anni, ma già nel 1874 ebbe in affidamento i corsi di grammatica nelle classi ginnasiali del seminario vescovile; scopertosi poi un forte interesse per la storia e per il diritto canonico, tenne la cattedra di entrambe le discipline per un trentennio (tra i suoi allievi G.B. Montini, il futuro Paolo VI), qualificandosi anche come un battagliero studioso tutto teso a piegare i risultati della ricerca a una accanita difesa della Chiesa, dei suoi diritti e della sua presenza nella società, secondo una concezione di primato che il pontificato di Leone XIII avrebbe cominciato a mettere in discussione senza tuttavia eliminarla del tutto. In direzione di una puntigliosa rivendicazione della supremazia papale e del ruolo storico della S. Sede muovevano dunque i primi studi del G. (Arnaldo da Brescia, Brescia 1882; Gregorio VII…, ibid. 1885; Giordano Bruno, ibid. 1888) che recuperavano anche l'annosa polemica contro il luteranesimo e il libero esame come ideali progenitori delle moderne rivoluzioni: alla base c'era una visione meramente apologetica, consona forse al conservatorismo del cattolicesimo bresciano, ma poco coerente con la tradizione lombarda e con i ripensamenti sulla funzione dell'Opera dei congressi che intanto avevano luogo nel mondo cattolico su impulso di personaggi quali G. Bonomelli e G. Toniolo, con cui il G. era in contatto epistolare. Buon indice del suo settarismo era inoltre la tesi, sostenuta in un numero unico dedicato dagli studenti cattolici bresciani al 20 sett. 1870 - 20 sett. 1895, che il Risorgimento fosse stato opera della massoneria internazionale.
Bastò che il G. innestasse sulle vecchie certezze di un'assoluta centralità della Chiesa romana il frutto delle riflessioni maturate tra i conciliazionisti perché lo si sospettasse di aperture al liberalismo. In realtà, attraverso un affinamento del proprio pensiero, cui non fu estranea la lettura della Rerum novarum (nel 1895 il G. pubblicava nella Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie un saggio su Il popolo prima e dopo la Riforma), si predisponeva a una maggiore tolleranza umana e a una più profonda sensibilità verso i problemi sociali, mantenendo tuttavia intatta l'impalcatura ideologica dell'intransigentismo: al punto che si dissociò dal Toniolo quando scorse il rischio che il suo progetto di una democrazia cristiana potesse essere applicato alla Chiesa oltre che alla società, e criticò il Bonomelli per la sua ipotesi di soluzione concordata della Questione romana. Con un recupero dell'attivismo ottimistico, tipico della tradizione lombarda, si impegnava intanto nell'incoraggiamento alle molte organizzazioni cattoliche sorte nella zona sul finire dell'Ottocento (ad es. il Circolo bresciano di studi sociali, il Circolo bresciano della Gioventù cattolica, le società operaie), in cui vedeva un insostituibile strumento di propaganda e di diffusione della morale cattolica e della pietà religiosa; fondamentale, in questo senso, era per lui il settore dell'istruzione, dove avvertiva di più l'esigenza di porsi in concorrenza con i principî dello Stato laico e dove, nel 1902, finanziava la fondazione della casa editrice "La Scuola".
Più che verso i liberali moderati, il G. fu portato dalla sua vicinanza agli ambienti intellettuali ad avere un ruolo di mediazione verso teologi e religiosi rappresentativi delle tendenze di rinnovamento in seno al mondo cattolico. Ebbe così rapporti con alcuni esponenti del modernismo, ma non sembra che ne fosse mai conquistato; eppure, dopo essere stato designato nell'ottobre 1902 rettore del Seminario - dove sotto la sua guida si ebbe un rilancio dell'insegnamento scientifico e fu attivato un corso di sociologia -, nel 1907 era dal vescovo G.M. Corna Pellegrini, un intransigente, rimosso dall'incarico, nominato prevosto della collegiata di S. Nazaro e, un anno dopo, chiamato a far parte del Comitato di vigilanza contro gli errori dei modernisti. L'esperienza parrocchiale, però, durò poco e fu presto seguita dalla sua consacrazione a vescovo ausiliare (3 maggio 1909) decisa dallo stesso Corna Pellegrini, alla cui morte (21 maggio 1913) il G., che nel frattempo era diventato vicario generale, fu eletto vicario capitolare e, in pratica, candidato alla successione. Occorsero tuttavia alcuni mesi prima che, il 23 ott. 1913, lo si nominasse vescovo di Brescia.
Sarebbe poi stato lo stesso G. ad accreditare la tesi di una propria nomina a lungo contrastata e finalmente promossa dai cattolici bresciani per favorire, con l'avallo di un vescovo "liberale" come lui, un accordo politico di stampo trasformistico con l'elemento cittadino laico e moderato. "Conciliante" e di "sentimenti liberali" lo definiva anche il prefetto (Zanetti, pp. 78 s.), ricordando precedenti sue manifestazioni di ossequio alla casa regnante; quanto alla politica, non ne rifuggì, anche se sia prima sia dopo la consacrazione episcopale non perse occasione per deprecare, probabilmente per il timore di possibili divisioni interne, l'eventualità di un'organizzazione dei cattolici in partito. Come avrebbe dimostrato la sua freddezza verso il Partito popolare, per il G. l'iniziativa in questo campo spettava unicamente ai vertici ecclesiastici e soprattutto al pontefice, solo garante dell'unità di tutti i fedeli. Una volta a capo della diocesi bresciana, il G. lavorò instancabilmente alla ripresa della spiritualità in tutti gli aspetti della vita sociale e di quella ecclesiale: preceduta da una visita pastorale che, nel corso di nove anni, lo portò a visitare 380 parrocchie e si concluse con un sinodo di aggiornamento delle costituzioni sinodali al diritto canonico, si dispiegò allora un'azione di grande pervasività che, nel clima di buona convivenza aperto dal patto Gentiloni, pose in primo piano problemi quali la formazione dei giovani, l'elevazione del clero, la catechesi, il costume della popolazione, la condizione della donna, l'istruzione religiosa, con un'espansione tale da far ritenere che il G. - occupando tutti gli spazi possibili - puntasse a sbilanciare a favore della Chiesa il delicato equilibrio su cui si reggevano i rapporti dell'istituzione ecclesiastica con lo Stato.
Pur se in un quadro di potenziale conflitto e concorrenza, una parziale accettazione delle istituzioni da parte del G. ci fu, e si compì con la prima guerra mondiale. Dall'iniziale neutralismo, infatti, e passando per un'interpretazione della tragedia bellica come espiazione inflitta da Dio alla malvagità umana, il presule approdò a un sempre più convinto patriottismo, cogliendo così "l'occasione per rivendicare [ai cattolici] una piena cittadinanza ed una leale ed aperta condivisione della vita nazionale" (Fappani, I, p. 158). Sostenere i combattenti voleva dire da un lato contribuire alla riscoperta dei valori cristiani tramite l'assistenza spirituale prestata ai soldati e alle popolazioni, dall'altro favorire l'integrazione morale dei cattolici in una nazione non più ostile. Seguendo poi l'andamento del conflitto, e in particolare dopo Caporetto, questa posizione giunse ad assorbire motivi nazionalistici e a dare alla crociata antigermanica un'inflessione antiluterana, fino a giustificare la guerra in quanto difesa di popoli aggrediti e in quanto compimento, per l'Italia, dell'Unità nazionale. Immesse nel circuito della propaganda di massa tramite la pubblicazione più volte ristampata di una sua lettera al clero bresciano dell'inizio del 1918 (fu intitolata Patria e religione o anche Per la patria e per la fede, e alcune copie furono lanciate dagli aerei oltre le linee nemiche), le tesi del G. riscossero pubblici elogi e, terminate le ostilità, gli valsero il titolo di grande ufficiale dell'Ordine mauriziano e il riconferimento di tre antiche dignità nobiliari dei vescovi bresciani soppresse sin dal 1796.
La difficile situazione postbellica, portatrice di una gravissima crisi economica e sociale, indusse nel G. un forte pessimismo sulla tenuta del paese di fronte all'azione eversiva delle forze di sinistra che gli parvero minacciare da vicino i valori cristiani. A un momento di più sensibile scoramento va attribuita la sua decisione (aprile 1919) di presentare al papa le dimissioni. Pregato di restare, trovò insospettabili energie per lanciarsi in un'autentica campagna di moralizzazione fatta di apocalittici presagi di rovina e di continui appelli alla restaurazione morale di una società minata, a suo dire, da mali quali la stampa troppo libera, la moda femminile scollacciata, gli spettacoli di massa, la pornografia: questo in una provincia dove la religiosità aveva peraltro radici profonde. Il Bollettino ufficiale della diocesi di Brescia e i fogli locali ospitarono numerosissimi suoi interventi che richiamavano alla preghiera e alla mortificazione e invocavano la difesa dell'istituto familiare; pari intensità aveva la proliferazione, da lui sostenuta, dell'associazionismo cattolico maschile e femminile, in applicazione del convincimento che, come ebbe a dire nel 1918, "il Cattolicesimo è principio di vita e deve penetrare intimamente la vita in tutte le sue manifestazioni dove è in campo la morale" (Fappani, I, p. 274).
Il desiderio di un ritorno all'ordine interno condizionò l'atteggiamento del G. verso il movimento fascista. Inizialmente, forse, anche per il fastidio con cui guardava al popolarismo di L. Sturzo e alle sue inclinazioni democratiche, non gli dispiacque l'avvento di una forza che, rispettando formalmente la Chiesa e attaccando la massoneria, neutralizzava socialisti e anarchici. Perfino dopo la marcia su Roma, quando le violenze colpirono con frequenza preti e parrocchie, il G. si mantenne assai cauto, evitando di dare alle proprie proteste il clamore che avevano avuto le precedenti campagne moralizzatrici e limitandosi a proibire la benedizione delle bandiere e dei gagliardetti fascisti e a chiedere al suo clero di "sopportare le ingiustizie" con "prudenza e silenzio" (Fappani, II, pp. 32, 37). Non era collaborazionismo, il suo, ma sottovalutazione del problema: quando, infatti, dopo il 3 genn. 1925, apparve chiaro che il regime mirava alla costruzione di uno Stato etico accentratore, il G., preoccupato per la progressiva marginalizzazione del ruolo della Chiesa imposta con la chiusura pretestuosa di circoli e oratori, mise in atto una sorta di resistenza passiva tendente, più che a fare opposizione, a non dare alcuna legittimazione al processo totalitario. Ottenne così di limitare i danni, ma capì anche che a Roma il papa perseguiva una politica di compromesso che aveva come scopo la conciliazione. Fece un certo scalpore, dopo la firma dei Patti lateranensi, che il G. si astenesse dal votare al plebiscito; inoltre si rifiutò di presenziare alle manifestazioni pubbliche del regime, e quando Mussolini l'11 nov. 1932 visitò Brescia, lo incontrò, ma giocando sulla cecità da cui era stato colpito gli disse che non lo poteva vedere.
Il G. trascorse gli ultimi anni in una condizione di grande amarezza, attenuata dalle sollecitudini di allievi e amici (tra gli altri, oltre a G.B. Montini - che nel 1920 aveva consacrato sacerdote - G. Roncalli, col quale fu a lungo in contatto epistolare).
Morì a Brescia il 15 apr. 1933 e per sua volontà fu sepolto nel duomo cittadino.
Fonti e Bibl.: Le Carte Gaggia, non ordinate e incomplete, sono custodite nell'Arch. vescovile di Brescia, e sono state ampiamente utilizzate, insieme con altro materiale in suo possesso (Docc. Gaggia), da A. Fappani, G. G. vescovo di Brescia, I-II, Verolanuova 1984-85, cui si rinvia per i lavori precedenti. Sono comunque da tener presenti Storia di Brescia, Brescia 1961, IV, pp. 625-628; O. Cavalleri, Il movim. operaio e contadino nel Bresciano 1878-1903, Roma 1972, ad ind.; A. Monticone, Gli Italiani in uniforme 1915-1918, Bari 1972, ad ind.; L. Biemmi, Chiesa e fascismo a Brescia durante l'episcopato di mons. G. G. attraverso le carte dell'arch. vescovile, Brescia 1977; L. Bruti Liberati, Il clero ital. nella grande guerra, Roma 1982, pp. 25, 98; F. Zanetti, Nazione e "patria del cielo": il vescovo G. e la grande guerra, in Studi bresciani, V (1984), 13, pp. 77-100; C. Simoni, Il padrone, il vescovo e il prete. La gestione del tempo libero in un villaggio operaio durante il fascismo, in Aspetti della società bresciana fra le due guerre, a cura di P. Corsini - G. Porta, Brescia 1985, pp. 247-262; M. Faini, Il Partito popolare e la lotta politica a Brescia, I, Brescia 1987, p. 33; Diz. stor. del movim. catt. in Italia 1860-1980, III/1, Le figure rappresentative, Casale Monferrato 1984, s.v. (con bibliografia).