CASELLA, Giacinto
Nacque a Filettole (Pisa) il 12 sett. 1817 da Giuseppe, agricoltore in proprio, di media condizione economica, e da Degnamerita Rossi.
L'amore per la campagna nella quale crebbe si rifletterà con accenti vivaci in alcuni componimenti poetici, segnatamente nel sonetto Le mie colline, e fu insieme amore per la popolazione campagnola ai cui usi e tradizioni il C. si interessò fin da fanciullo. Le vicende dei poemi cavallereschi, diffusi allora nelle campagne toscane attraverso testi popolari, quali I Reali di Francia e Guerrino detto il Meschino, e classici della letteratura rmascimentale, come l'Ariosto e il Tasso, appassionarono il C., che da bambino frequentò un vecchio sarto del paese erudito in materia, così come si appassionò agli spettacoli popolari dei Maggi, che si davano sulle aie coloniche ed i cui argomenti erano sovente quelli della materia cavalleresca.
Dopo avere appreso a leggere e scrivere da preti del paese e avere mostrato di applicarsi allo studio con tenacia, a dodici anni vestì l'abito talare nel collegio di S. Caterina a Pisa, frequentato di solito dai ragazzi di campagna che mostravano inclinazione allo studio. A diciassette anni dichiarò una persuasa vocazione al sacerdozio, ma ne venne dissuaso affinché proseguisse negli studi. Aveva, infatti, già dato prova di interesse e di gusto poetici esercitandosi a tradurre un brano del IV libro dell'Iliade e scrivendo versi fra i quali si ricordano terzine sulla tratta dei negri. Concluso il pubblico corso scolastico fu, per un anno, docente del medesimo collegio di S. Caterina, per poi passare ad insegnare, sempre a Pisa, lettere nelle scuole comunali di S. Michele, favorito in questo dall'appoggio di E. Giuliani di Barga (Lucca) che vi insegnava retorica.
Nelle scuole di S. Michele, e nell'insegnamento privato che egli impartì presso varie famiglie, ebbe a discepoli dei giovani che poi si affermarono nell'ambito dell'insegnamento universitario e fuori, quali l'italianista A. D'Ancona, il grecista A. Franchetti, i geologi L. Bombicci e A. D'Achiardi, il fisico G. Milani e il matematico T. Del Beccaro.
Nel contempo frequentò le lezioni all'università pisana, dove si acquistò la stima e l'amicizia di noti cattedratici quali G. Carmignani, G. Montanelli., I. Rosellini e G. Rosini. Gli si presentò anche la possibilità di insegnarvi l'ebraico, ma ne fu impedito da una depressione nervosa che lo tormentò, di tanto in tanto, anche in seguito, e da una grave malattia della vista che ne frenò l'attività di studioso oltre a fargli rinunciare a legittimi obiettivi di carriera.
Il C. insegnava ormai da quindici anni allorché l'amico F. Bonaini ne patrocinò la nomina ad accademico della Crusca addetto alla compilazione del Vocabolario. Accettò dopo qualche esitazione non sentendosi portato ad un tal genere di lavoro; così dovette trasferirsi a Firenze verso la fine del 1852, quando erano da poco usciti i primi sette fascicoli del Vocabolario e già si agitava la polemica tra P. Fanfani e la Crusca della quale D. Salvi tutelava il punto di vista. Si trovò anche a contrastare l'opinione di alcuni cruscanti avendo manifestato, precedendo in ciò il Manzoni, il parere di attingere anche alla lingua viva ove se ne presentasse la necessità. Del resto prima di lasciare Pisa aveva ultimato la traduzione del Childe Harold's Pilgrimage di G. G. Byron, iniziata intorno al 1847 e dedicata alla memoria di F. D. Guerrazzi; traduzione che per i cruscanti rappresentava un esercizio senz'altro dannoso nei confronti della nostra letteratura.
La traduzione del C., in ottave, posteriore a quella di A. Maffei, fu opera in un certo senso casuale. Desideroso infatti di tradurre Firdusi, il maggior poeta epico persiano, dovette imparare l'inglese giacché la sola grammatica persiana usata allora in Europa era quella di uno studioso inglese, W. Jones (A Grammar of the Persian language, London 1771); e, per apprendere l'inglese, il C. si esercitò appunto traducendo brani del Childe Harold. Da ciò l'interesse per questo testo che allora andava per la maggiore. La traduzione rimase nel cassetto per essere limata a dovere, ciò che fece almeno in parte (rivide i primi tre canti del poema e tornò a scrivere una cinquantina di stanze del quarto che aveva smarrito e che pubblicò nel giornale Il Genio di Firenze nel settembre-ottobre 1851 pp. 255, 278, 282, 290 s., 299 s.). Così pure dette alle stampe nel dicembre 1879 - e fu l'ultima sua pubblicazione - un brano del secondo canto che apparve nella Nuova Rivista internazionale (I, pp. 668-81). Di Byron tradusse pure The Bride of Abydos e Parisina (quest'ultima pubblicata nella Polimazia di famiglia del 10 e 25 maggio 1854, e la novella in versi Beppo, A Venetian Story, in Lo Spettatore di Firenze nel marzo-aprile del 1857 (pp. 147 ss., 155 ss). Questa traduzione fu oggetto di una vivace polemica col giornale IlPassatempo (cfr. Lo Spettatore del 3, 10 e 31 maggio 1857).Notevole fu l'interesse del C. per le lingue antiche e moderne. Conobbe e coltivò, oltre l'inglese, il latino, il greco tanto antico che moderno, il francese, il tedesco e lo spagnolo. Nella lettera di premessa al Childe Harold si rallegra che lo studio delle lingue straniere si sia tanto diffuso da far sperare in quella letteratura europea vagheggiata da Goethe e Mazzini. Dal greco moderno tradusse il poema romantico Lambros di D. Solomos (1798-1857).
Anni di notevole attività furono nel complesso quelli fiorentini. Era solito frequentare la libreria Franceschini dove si incontrava con P. Fanfani e G. Tassinari, ed il caffè Doney dove aveva modo di conversare con gli amici E. Frullani, G. Canestrini, A. D'Ancona e dove capitavano anche G. Prati e G. Carducci. I problemi dell'indipendenza e dell'unità nazionale erano spesso argomento di primo piano (cfr. a questo proposito il sonetto: "Si rallegra di aver visto l'Italia risorta"). In questo medesimo periodo il C. amò anche viaggiare, per quanto ne fosse limitato dalla scarsità di mezzi economici. Durante le vacanze autunnali ebbe modo, comunque, di visitare Venezia, Roma e Napoli. Nelle adunanze generali della Crusca del 24 sett. 1854 e del 13 sett. 1859 lesse un Discorso sulla lingua italiana, di cui sostenne la toscanità, e un Elogio di Vincenzo Gioberti.
Nel 1865 pubblicò il Canto a Dante. Con un discorso intorno alla forma allegorica e alla principale allegoria della Divina Commedia (Firenze 1865), uno studio che tratta, nella prima parte, del carattere dell'allegoria dantesca e nella seconda dell'allegoria della selva e delle tre fiere, soprattutto sotto l'aspetto politico e morale. Su di un parallelo fra Dante e Goethe scrisse nel saggio Della Divina Commedia di Dante e del Fausto di Goethe. A proposito di due quadri del Signor Carlo Vogel di Vogelstein, pubblicato il 20 luglio 1856 ne LoSpettatore (pp. 349-52) e tradotto anche in tedesco.
Alla letteratura italiana dette pure altri notevoli contributi: un saggio su Battista Guarini e il suo "Pastorfido"compiuto nel '65 e pubblicato ad introduzione di un'edizione del detto dramma pastorale (Firenze 1866). Il C. mette a confronto il Guarini con i contemporanei Shakespeare e Lope de Vega per riconoscere all'italiano quell'arte della sfumatura che egli non trova negli altri due autori.Nel 1874, a causa di un peggioramento della vista, chiese di essere esonerato dall'attività per il Vocabolario della Crusca, attività che gli era valsa, fra l'altro, la stima e l'amicizia di N. Tommaseo e di G. B. Giuliani. Da allora badò soltanto ai propri lavori. Annotò l'Orlando furioso e ne scrisse un "discorso" introduttivo (2 voll., Firenze 1877). Opponendosi alle accuse di disimpegno civile mosse in quel tempo all'Ariosto, si ingegnò a rintracciare nel poema "l'eco dei grandi eventi contemporanei", pure riaffermando che: "Fine supremo del poeta come dell'artista è effettuare l'idea del bello, dican pure quel che vogliono certi magri preconizzatori di poesia civile; il qual bello essendo, secondo Platone, una irradiazione del vero, non può scompagnarsi né dal buono né dall'utile, intesi nel loro senso più elevato". Scrupoloso nel lavoro critico che preparava con ampiezza di ricerche, fu di nuovo vittima di un grave esaurimento, superato il quale volle tornare a vedere Roma nell'inverno del 1877; e a Roma gli venne l'idea di tradurre alcune elegie di Properzio (degli autori latini aveva già tradotto Catullo). Tornato alla Pieve a Presciano, il paese di origine della moglie Eleonora Ghezzi, donna di nobile intelletto che gli fu compagna preziosa, continuò a tradurre i quattro libri delle elegie di Properzio portando a termine il lavoro in sei mesi. In quegli stessi annì di ritiro aveva preso a comporre sonetti (ne scrisse oltre cento) su temi variatissimi che attestano ancora una volta l'eclettismo dei suoi interessi. Versi ne aveva scritti fin da giovane per pubblicazioni occasionali. Il D'Ancona ricorda in particolare un epicedio in morte della giovinetta Alessandra Carmignani nonché "alcune robuste terzine sul secolo decimonono" che recitò in un'adunanza della "colonia" arcadica Alfea di Pisa intorno al 1846; una ode filosofica, A Dio, Monodia, apparsa sul giornale IlGenio il 23 apr. 1853 (pp. 231 s.) e quel Canto a Dante cit. che uscì col saggio sull'allegoria dantesca per il sesto centenario della nascita del poeta, ed ancora Il diciannove aprile o Il Natale di Roma, ode dimetra, seguita da La stirpe sabauda, sonetto a Umberto I re d'Italia, pubblicati nella Rivista europea il 16 apr. 1879 (pp. 755-62), ode in cui sostiene che Roma dette al genere umano coscienza della sua unità e lo affratellò. Negli ultimi tempi, confortato dall'amicizia di I. Del Lungo e G. Rigutini, si dedicò alla preparazione di un dizionario etimologico, suo vecchio progetto, e ad uno studio comparativo della poesia italiana e inglese che avrebbe dovuto fare da premessa alla traduzione del Childe Harold;ammalatosi di bronchite, morì alla Pieve a Presciano in Val d'Ambra (Arezzo) il 18 genn. 1880.
Tutta l'opera del C. venne pubblicata a cura di A. D'Ancona in Opere edite e postume di G. C. già accademico della Crusca. Con prefazione del prof. Alessandro D'Ancona, uno scritto critico sul Properzio del prof. G. Rigutini e una notizia biografica sull'autore scritta da sua Moglie, 2 voll., Firenze 1884. Lo stesso D'Ancona, a proposito della metodologia del C., osserva nella pref. (p. IX): "Il suo metodo critico consiste nel buon senso e nel buon gusto avvalorati dalla sicura notizia dei fatti. Conosceva egli i pensamenti degli estetici, perché di filosofia, in specie tedesca., aveva studiato più che non sogliano i letterati, ma non si era fatto ligio a sistemi, né illudeva ed illaqueava la sua mente e quella dei lettori con formule pretensiose, ed il più spesso vacue".
Fonti e Bibl.: Filettole (Pisa), Arch. parr., Libro dei battezzati;A. D'Ancona, G. C., in IlFanfulla della Domenica, 22 febbr. 1880 (poi pref. a Opere edite e postume di G. C., cit., I, pp. V-XIII, e infine in Ricordi ed affetti, Milano 1902); E. Ghezzi Casella, Notizia biografica di G. C., in Opere edite e postume di G. C., cit., I, pp. XV-LVI; G. Guasti, G. C., in Atti della R. Acc. della Crusca, 1879-80, Firenze 1881, pp. 23-31; B. Prina, in L'Illustr. ital., 24 ott. 1880, p. 259; G. Rigutini, G. C., in Nuova Riv. internaz, I (1880), pp. 771 s.; Id., premessa alle traduzioni da Properzio, in Opere edite e postume di G. C., cit, II, pp. IX-XVIII; Id., G. C. e le sue opere edite e postume, in Il Fanfulla della Domenica, 4 maggio 1884; Id., Elogio di G. C., in Atti della R. Accademia della Crusca, Firenze 1893, pp. 35-67; R. Bonghi, G. C., in La Cultura, III (1884), p. 132; V. Cian, Aneddoti di storia e di letter. patriottica, in IlFanfulla della Domenica, 18 apr. 1909; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1964, I, p. 573; II, pp. 108, 479.